BOINE, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 11 (1969)

BOINE, Giovanni

Mario Costanzo

Nato a Finale Marina (Savona) il 2 sett. 1887 da Giovanni Battista e da Irene Benza, trascorse l'infanzia a Dolcedo, frequentando a Genova il liceo e il liceo musicale. Intorno ai sedici anni alcune letture - ivi compresi scritti di Antonio Labriola - svegliarono in lui l'interesse per la questione sociale, suscitando "un poco di febbre e di fede socialista" (La crisi degli ulivi in Liguria, in La Voce, IV [1912], n. 27), e per la storia, che gli apparve dominata da una ferrea necessità. Ma la maturazione intellettuale avvenne a Milano, ove il B. si trasferì nel 1907 con la madre, separatasi dal marito, e con il fratello - Qui completò gli studi liceali e frequentò l'Accademia scientifico-letteraria, accostandosi - sotto la guida di G. Volpe - allo studio delle eresie medievali che acuì in lui la sensibilità per il problema religioso. Si legò frattanto d'amicizia con A. Casati, che lo convinse a collaborare al Rinnovamento, la rivista dei cattolici modernisti.

La collaborazione del B. iniziò in sordina con una recensione alla Vida de D. Quijote y Sancho di Miguel de Unamuno. Ma già nella scelta delle citazioni (il Leonardo, Kierkegaard, Laberthonnière, S. Teresa, S. Francesco di Sales) e nello scrupolo con cui documenta i suoi giudizi dimostra il fervore con cui visse l'esperienza del Rinnovamento. In un primo momento il B. avrebbe voluto conciliare tra loro fede e ragione, le verità della scienza e quelle della religione, ma s'accorse presto che si trattava di un tentativo di compromesso, condotto secondo schemi antiquati o scolastici, del tentativo cioé di unire in modo estrinseco, ancora una volta, una scienza che non è più scienza e una religione che non è più religione; e scoprì che il modernismo non era, in fondo, che una forma abbastanza pigra di immanentismo. Nei suoi articoli, intanto, analizzò con ostinata curiosità i mistici del cristianesimo (cfr. San Giovanni della Croce, I [1907], n. 11-12, pp. 458-474; II [1908], n. 3, pp. 455-467; Serveto e Calvino, ibid., n. 5, pp. 297-312; Calvinismo e Fideismo, III [1909], n. 5-6, pp. 389-396) e rivelò una conoscenza via via sempre più larga e profonda dei problemi religiosi. Il B. sottolineò fin d'allora "l'opposizione perenne" che esiste "fra una religiosità tutta volta verso la pratica esteriore" e la religiosità "personale e concentrata dei contemplativi", verso cui andavano le sue preferenze. I dati essenziali dell'esperienza religiosa erano per il B. il "sentimento della propria individualità", il senso dell'irrimediabile corruzione della natura umana, la consapevolezza "di un profondo mistero che sorpassa assolutamente ogni umana soluzione"; da ciò la sete di trascendenza, ma d'altra parte lo sforzo per passare all'immanenza, l'aspirazione a svolgere in modo unitario ed organico gli elementi razionali che sono propri della natura umana.

Fin dalla primavera del 1908 il B. aveva accusato i sintomi della tisi, che nel giro di pochi anni lo consumò. Sperando in una rapida guarigione, nell'inverno successivo trascorse alcuni mesi in una clinica di Zurigo. Ma, appena tornato, fu costretto a lasciar di nuovo Milano, troppo umida e, dopo un viaggio a Roma, nell'aprile 1909 per una visita all'amico G. Amendola, sostenne alla meglio gli esami universitari nella sessione di giugno, e ripartì in fretta per Porto Maurizio, angosciato per il riacuirsi della malattia. Qui lesse Erasmo e scrisse svogliatamente le prime righe su S. Anselmo, per una prefazione al Monologio, che egli contava di tradurre per la collana "Cultura dell'anima", diretta da G. Papini. A quest'ultimo indicò una lista di opere di carattere filosofico-religioso che la collana avrebbe potuto pubblicare, e Papini dapprima ne apprezzò i suggerimenti; per un momento il B. sperò addirittura di poter divenire condirettore della collana: propose un volumetto su Vittoria Colonna, curato da lui stesso, e altri su Pitagora, Cusano, L. B. Alberti. Ma il Papini troncò subito ogni sua speranza. Nel dicembre 1909, prostrato dal freddo di Milano, dov'era tornato dall'ottobre, il B. si rifugiò di nuovo a Porto Maurizio. Privo di mezzi, dovette ricopiare a mano la traduzione del Monologio di S. Anselmo, che inviò a Papini nel gennaio 1910 senza l'introduzione promessa; gli altri suoi progetti (la traduzione del Lazarillo, Vittoria Colonna, Erasmo, la Lettera semiseria di Berchet) restarono senza seguito. Nel giugno era di nuovo a Milano per gli esami, poi si recò a Firenze per una visita a Papini e agli amici della Voce; ma subito dopo dovette ancora curarsi al Colle di San Bernardo e a Porto Maurizio. Progettò di varare con Casati e Amendola una rivista che "continui da un lato la Critica, in quanto idealità, ma che la sorpassi, la neghi, ed eventualmente le contrasti il terreno in quanto religiosa", ma il lavoro pratico lo spaventò, cosicché suggerì ad Amendola un rinvio al 1912 (la rivista, L'Anima, nascerà invece nell'11). Il B. passò un periodo di smarrimento e di sconforto, da cui non poterono liberarlo gli affettuosi incoraggiamenti degli amici Banfi, Rebora, Amendola e Novaro; egli ne uscì invece da sé, tagliando netto con i rimpianti e le nostalgie per il modernismo e riscoprendo nell'ordine, nella legalità, nella tradizione la problematicità vera. Vennero allora i suoi primi seri contributi alla Voce e all'Anima.

Alla Voce il B. aveva già collaborato con l'articolo Che fare?, II (1910), n. 37, in cui, ancora alla ricerca di un approdo sicuro, aveva criticato la superficialità e l'ambiguità di G. Prezzolini; qualche novità si intravede in due scritti, La ferita non chiusa (La Voce, III [1911], n. 12) e La crisi degli olivi in Liguria (III [1911], n. 27). Nel primo, ove scrive che "nessuno sforzo è durevole fuori di una tradizione, perché nessuna cosa dura se armonicamente non si contempera con tutte le altre presenti e passate" (e tradizione è per lui il cattolicesimo); e nel secondo dove, scrivendo della crisi degli olivi in Liguria, fa dei contadini della sua terra una specie di simbolo del vero spirito religioso, di una fede "effettuale": "Qui ogni generazione fece il sacrificio di se stessa alla generazione veniente. E ciò che passa fu sdegnato, ciò che godi nell'anno, ciò che ogni anno rimuti... Colpi di bidente, pietre l'una sull'altra a fatica; era nell'oscuro, nelle torbide profondità del volere, la coscienza di una razza, la forza di una razza, la sicura religione della razza". Un richiamo all'ordine e alla tradizione, che dovrà permettergli a poco a poco di riscattare anche la volontà e l'attività umana da ogni senso di colpa e di peccato, fino alla stesura dei Discorsi militari (Firenze 1914), dove giunge ad affermare che la libertà consiste nella volontaria accettazione della legge. Una svolta decisiva si ha con il saggio Di certe pagine mistiche (in La Voce, III [1911], n. 33, pp. 632-634): il B. appare definitivamente lontano dal modernismo (che accusa di "immanentismo confusionario" e di individualismo "sentimentale") per rientrare nell'ordine della Chiesa e della tradizione cattolica, e va orientandosi, sempre più risolutamente, verso la poesia e la letteratura; una posizione questa che si precisa meglio nel saggio L'esperienza religiosa (in L'Anima, I [1911], pp. 291-319). Bisogna credere nella verità dell'ordine naturale e in quella del mondo morale; nel determinismo e nella libertà; nella natura e nella storia: ugualmente soggette ma ugualmente confortate nel loro essere hic et nunc dalla presenza eterna di Dio; aver fiducia nei dati del conoscere e non dubitare del senso comune, di ciò che suol dirsi oggettività e tradizione; non temere che l'uno "l'altro aspetto della realtà possa rivelarsi" un certo momento un semplice miraggio: perché la res extensa e la res cogitans sono, sì, l'una diversa dall'altra, l'una opposta all'altra, ma il coincidere di ciò che si conosce con ciò che esiste "fuori" di noi, anche per proprio conto, è garantito dalla veracitas Dei. Solo così si può riscoprire la realtà, ciò che è al di là di ciò che appare, la vita nella sua organicità e nella sua pienezza, il "misterioso, l'inesauribile fluttuare della vita" (ibid., p. 310). Religione e poesia: vicino più di ogni altro alla vita e al suo "fetale umidore", alla sua "germinale inquietudine", è il poeta; perciò egli "è più frequentemente religioso dello scienziato" (ibid., pp. 314 ss.). Perfino "l'amore delle parole per se stesse", il purismo, che dapprima era parso al B. solo come "una delle forme dell'ormai noto accadernismo italiano", gli sembrò che potesse racchiudere in sé, invece, "un sistema filosofico, una speciale pratica di vita, una fede", anzi la stessa fede cattolica (cfr. l'articolo Purismo, in La Voce, IV [1912], pp. 867 s.). Il problema morale diviene così per lui un problema anche di stile: "Urge la vita, urge la morte... e dobbiamo dire e dobbiamo fare, dobbiamo attualmente, in fretta e serii, esprimere al mondo ed esprimere a noi la morte e la vita" (Di certe pagine mistiche, p. 634). Del resto, di questa "poetica" dell'arte come "totalità" etico-religiosa è significativo documento la polemica che sulle colonne della Voce contrappose il B. al Croce (cfr. del B. L'ignoto, IV [1912], n. 6, e L'estetica dell'ignoto, IV [1912], n. 9; del Croce: Amori con le nuvole, IV [1912], n. 14): alle accuse di misticismo mossegli per aver sostenuto la necessità di un giudizio estetico che tenesse conto del contenuto il B. rispose precisando meglio la sua linea estetica (Amori con l'onestà,ibid., IV [1912], n. 15): egli rinfaccia al Croce la "sfaccendata esteticheria" e il "dilettantesco individualismo" di un giudizio che "dice all'autore: sì, hai fatto una cosa bella. Ma mica gli dice se ha fatto una cosa che abbia nella storia degli uomini valore e durata. Ed è questo ch'io voglio ... voglio lavorare nel reale, lavorar nello spirito, lavorar nella storia, aver una reale efficacia sulla storia degli uomini anche (se non ho filosofato) se non ho definito il concetto pur come esistente attualità, o questi altri mostri del grado estetico e del momento economico". Per il B. unico criterio di giudizio per l'arte è la storia, perché l'arte non è che il particolare in cui l'universale si concreta e vive (cfr. Lugnani, p. 427).

Ormai stabilitosi definitivamente a Porto Maurizio, si dedicò con straordinario fervore a varie iniziative (letture, conferenze, dibattiti pubblici) per una organica divulgazione della cultura moderna, italiana ed europea, in quella città; fu anche attivo segretario della locale Biblioteca civica. Cominciò frattanto, dal 1912, la sua collaborazione fissa alla Riviera ligure, la rivista letteraria di M. Novaro, mentre si consumava il suo distacco graduale dai vociani con l'Epistola al Tribunale (in La Voce, V [1913], n. 34), violenta denuncia dei "compromessi" di Prezzolini e dello "scandalismo" e "ribellismo" vuoti della rivista papiniana Lacerba. Sulla Riviera ligure apparvero tentativi di prosa lirica e narrativa: La città (XVIII [1912] L'agonia (XIX [1913], n. 16), Il peccato (XX [1914], nn. 26 e 29), poi in volume (Il peccato e altre cose, Firenze 1914).

In quest'ultimo breve romanzo, che narra l'amore di un giovane per una novizia, il B. passa continuamente dalla riflessione critica in prima persona alle improvvise effusioni liriche: ora di teneri "sentimenti", di "paure vaghe", di malinconie crepuscolari; ora di "gridi" improvvisi dell'anima: illuminazioni e analogie inquietanti, ritmi ostinati e parole arricchite di sensi nuovi per via di accostamenti imprevisti. Vero è che l'impeto lirico si smorza, qui, in una sorta di facile impressionismo, in un discorso mosso e animato, più eloquente che poetico; e le riflessioni del protagonista si stemperano in un entusiasmo un po' libresco per una letteratura raffinata e sottile, che può rammentare certi personaggi di D'Annunzio. Manca, d'altra parte, un vero ritmo narrativo (il B. scriverà più tardi di aver voluto rappresentare nel Peccato la "dolorosa, angosciata complessità del pensare", muovendo da "pochi fatti", da una cronistoria esteriore estremamente gracile"); ed anche gli accenti e le immagini più realistiche e certi dialoghi, che vorrebbero sembrare vivi e spigliati, hanno un sapore falso e un tono da esercitazione letteraria. Tuttavia il B. vi raggiunse dei risultati apprezzabili dal punto di vista stilistico, che, pur nei limiti d'uno sperimentalismo ancora un po' ingenuo e immaturo, hanno un valore di testimonianza e quasi di anticipazione nel quadro della nostra letteratura di quegli anni (si è parlato anche di una derivazione stilistica del B. da Péguy e da Whitman).Ma il B. migliore e più schietto si trova in Plausi e botte, una serie di annotazioni che egli andò scrivendo sulla Riviera ligure dal marzo 1914 all'ottobre 1916 in margine a vari testi letterari (poi raccolte, insieme con Frantumi, in volume, Firenze 1918; 3 ediz., Modena 1939).

Queste pagine sono le più felici, forse, che egli scrisse, e quelle in cui la critica letteraria e la confessione autobiografica, la poesia e la polemica si fondono e armonizzano in modo straordinariamente suggestivo, collocando il B., accanto allo Slataper del Mio Carso e al Jahier di Ragazzo, tra i testimoni più attenti e sensibili della cultura italiana del primo Novecento. Qui egli rimase fedele ad una poetica che tenga conto dell'angoscia interiore e del dramma spirituale dell'uomo contemporaneo: "Non posso accontentarmi d'una parnassiana rappresentazione di obiettivi idilli", non posso "sperperare narrativamente un'emozione, la quale, nuda, era un grido o un lamento, era un bagliore o una interiore colorazione... Io piangerò, io griderò, o starò zitto. Starò con, dirò, la mia anima nuda: non scriverò romanzi" (ibid., 3 ediz., pp. 119 ss.). Ma, aggiunge subito il B., nemmeno l'appaga l'individuale impeto lirico. Una poetica dell'inconscio e dello hasard, un qualsiasi antiregolismo letterario erano ai suoi occhi altrettanto immorali quanto il caos rivoluzionario dei modernisti in fatto di morale e di fede religiosa. La poesia dovrà essere, semmai, intessuta di oggettività e di tradizione; e questa oggettività, a sua volta, tutta intimamente tremante di liricità. Liberarsi degli schemi di maniera, propri di un regolismo e di un antiregolismo parimenti esteriori e accademici, fare a meno dei vuoti "ritmi di danza", e seguire "con libertà, liberamente, complessamente... la trepida torbida novità dello spirito": questa fu, per così dire, la parola d'ordine, il compito che il B. sentì di dover proporre a sé e agli scrittori contemporanei. Ma sempre per ritrovare una verità, una misura, un ordine autentici; e dunque lontanissimo dai futuristi e da certi loro "chimismi" verbali, e piuttosto sulla via maestra di C. Rebora e di C. Sbarbaro.

Tra il 1915 e il 1916, dopo il successo ottenuto presso gli interventisti con i Discorsi militari (2 ediz., Firenze 1915), il B. fu spesso in visita al fronte e nelle retrovie, denunciò risolutamente gli errori e le deficienze di certi settori della nostra organizzazione militare, scrisse, tenne conferenze, sollecitò provvidenze per i combattenti, per i "nostri soldati-contadini". Stremato da questa faticosa attività, egli tornò a Porto Maurizio dove morì il 16 maggio del 1917.

Bibl.: Per una bibliografia degli scritti del B. si veda M. Costanzo, G. B., Milano 1961, pp. 89-93; ivi è anche la bibliografia della critica sul B. (pp. 97-109), a cui si deve aggiungere: E. Cecchi, Una rivolta contro Croce, in Il Corriere della sera, 18 ott. e 1º nov. 1961; M. Cerruti, Civiltà letteraria del Novecento, in Lettere italiane, XIV (1962), pp. 356-358; A. Mazzotti, G. B., in Letteratura contemporanea. I contemporanei, Milano 1963, pp. 811-842; M. Carpi, Amendola e B.:prospettive di etica vociana, in Annali della Scuola normale superiore di Pisa, classe di scienze morali, s. 2, XXXIII (1964), pp. 223-250; L. Lugnani, G. B., in Rass. della letter. ital., LXVIII, s. VII (1964), pp. 419-440; C. Bo, B. dimenticato, in L'Europeo, 9 nov. 1967; G. Cattaneo, La Liguria e la poesia ital. del Novecento, Milano 1967, e Esperienze intell., Milano 1968.

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