GIOVANNI Bos de Zvinci

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1995)

GIOVANNI Bos de Zvinci

S. Botti

Orafo attivo probabilmente nella seconda metà del sec. 14°, il cui nome è legato alla grande croce processionale in argento conservata in S. Giusto a Susa (cattedrale, tesoro), sul retro della quale è incisa la firma dell'artista.L'iscrizione "Iohans / Bos de Zuini / ch me fecit" è stata dalla critica variamente letta e interpretata, senza che mai si giungesse ad ampliare il catalogo di quest'orafo o a individuarne con sicurezza la figura, tanto che rimane sconosciuta anche la sua provenienza; infatti, a seconda delle diverse letture, G. è stato considerato nativo della Svizzera (Gotico e Rinascimento, 1939, p. 250; Toesca, 1951, p. 921) oppure di Zuino, nel bresciano (Panazza, 1963, p. 928). Anche per la definizione cronologica la critica si è divisa tra quanti hanno datato la croce alla seconda metà del Trecento e quanti invece l'hanno spinta fino al pieno Quattrocento; il fondamentale intervento di Toesca (1951) ha ricondotto l'opera al 14° secolo. D'altra parte l'analisi della croce, l'unica produzione autografa di G., non permette di definire chiaramente l'ambito di formazione dell'artista, poiché essa viene considerata una testimonianza di alta qualità nel panorama dell'oreficeria trecentesca, un caso isolato sia per l'ambito svizzero sia per quello lombardo.Si tratta di una croce lavorata su entrambi i lati e costituita da lamine d'argento sbalzato e in parte dorato, montate su un'anima di legno. Sul fronte, alle estremità del braccio orizzontale, accanto alla figura di Cristo trovano posto le immagini della Vergine e di S. Giovanni, mentre su quello verticale stanno in alto il Salvatore e ai piedi della croce la figura a mezzobusto di Cristo nel sepolcro; sul retro l'incrocio dei bracci è parzialmente nascosto dall'immagine di Cristo in mandorla e alle estremità vi sono i simboli degli evangelisti.La decorazione della croce è completata sul davanti da cristalli con riflessi rosati incastonati alle estremità dei bracci, mentre sul retro vi sono stelle in argento con vetri colorati. Queste ultime sembrano non essere pertinenti alla lavorazione originaria e frutto invece di un'aggiunta successiva (Valle di Susa, 1977, p. 147); è perduta la stella del braccio superiore, che ancora era visibile quando la croce venne esposta nella mostra di Torino del 1939 (Gotico e Rinascimento, 1939, tav. 276). La croce è rivestita lungo tutti i fianchi da lamine in argento sbalzato con una fitta decorazione a gigli di Francia.Un'antica tradizione vuole che la croce sia stata donata da Carlo Magno all'abbazia piemontese della Novalesa, ma evidentemente il riferimento è a un'altra croce, ricordata per il suo splendore dal Chronicon Novaliciense e perduta nel corso del sec. 17° (Valle di Susa, 1977). Panazza (1963) accetta per quest'opera la datazione al sec. 14° anche sulla base del confronto con la trecentesca croce della parrocchiale di Montichiari (prov. di Brescia), raffronto che egli vede concretamente soprattutto nelle figure secondarie della croce di Susa. Più recentemente (Valle di Susa, 1977) questa è stata accostata alla perduta croce processionale della parrocchiale di S. Ippolito a Bardonecchia, datata al 1413, ritenuta opera di un artista proveniente dalla Lombardia ma attivo localmente.

Bibl.: J. Ponsero, Guide du voyageur à Susa et au passage du Grand Mont-Cenis, Susa 1830; F. Genin, Susa antica, Saluzzo 1885; F. Savio, I monasteri antichi del Piemonte. Il monastero di San Giusto di Susa, Rivista storica benedettina 2, 1907, pp. 205-220; Gotico e Rinascimento in Piemonte, a cura di V. Viale, cat., Torino 1939; Toesca, Trecento, 1951; E. Castelnuovo, Una superba fortezza a guardia della valle, in Tuttitalia, II, 2, Piemonte e Valle d'Aosta, Firenze-Novara 1961, pp. 398-403; G. Panazza, L'arte gotica, in Storia di Brescia, I, Brescia 1963, pp. 877-960; Valle di Susa. Arte e storia dall'XI al XVIII secolo, a cura di G. Romano, cat., Torino 1977; S. Savi, La cattedrale di San Giusto e le chiese romaniche della diocesi di Susa, Pinerolo 1992.

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