GIOVANNI d'Alemagna

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 55 (2001)

GIOVANNI d'Alemagna

Maria Elena Massimi

Non si conosce la data di nascita di questo pittore attivo nella prima metà del Quattrocento, cognato e collaboratore del muranese Antonio Vivarini.

Problematica si presenta la ricostruzione del suo profilo biografico, da ancorare al dato certo della provenienza tedesca: si ignora se personale o della famiglia d'origine. I documenti e le sottoscrizioni concentrati nel quinto decennio lo qualificano di volta in volta come "theothonicus", "todescho", "alamanus", "de Alemanea", sintomo di una cosciente rivendicazione di nazionalità da parte dell'artista (Testi).

Del tutto ipotetica, anche nelle proposte critiche più meditate, è la vicenda precedente il 1441, anno a partire dal quale G. risulta in stabile società con Vivarini. Sulla base dell'unica menzione del patronimico di G., definito "quondam Johannis" nel contratto per gli affreschi Ovetari (1448), Moschetti (pp. 79, 189) lo riteneva figlio del pittore Giovanni di Niccolò d'Alemagna, cittadino padovano dal 1431 e abitante "in contrata Croxarie sancti Antonij", ipotizzando per l'artista una data di nascita tarda (1424) e una formazione pittorica locale, probabilmente squarcionesca. A una precocità di mestiere difficilmente conciliabile con i dati documentari e con la qualità pittorica delle opere si opponeva Testi, che assumeva come dati biografici certi l'origine tedesca e un soggiorno muranese nei primi anni della collaborazione con Antonio Vivarini, proponendo cautamente, per l'arrivo in laguna, l'ante quem del giugno 1428.

Di un rapporto più complesso con la realtà padovana tornava a parlare la Rigoni (1937-38), seguita da Puppi, che identificava G. con il Giovanni da Ulma convocato a Padova da Venezia e attivo nel 1437 nel palazzo vescovile, dove decorava con storie del santo titolare la perduta cappella di S. Massimo.

Più recentemente Merkel e Lucco (1989) hanno cercato di recuperare all'artista una fisionomia articolata, supponendo un errore di patronimico nel contratto per gli affreschi Ovetari e identificandolo con Giovanni di Niccolò d'Alemagna. Nato nel 1399, G. avrebbe sposato in prime nozze Maddalena del fu Franceschino da Piacenza, ricevendone la dote il 5 maggio 1423, e avrebbe acquisito la cittadinanza padovana il 20 ag. 1431. Nello stesso anno sarebbe stato attivo alla decorazione "de coloribus azuro et zenaprio finis ac auro fino et aliis coloribus finis" della tomba di Raffaello Fulgosio nella basilica del Santo (con contratto del 15 genn. 1431: Lazzarini, p. 188). Lucco ritiene che l'identificazione con Giovanni da Ulma non sia in conflitto con i dati documentari relativi a Giovanni di Niccolò: nel quarto decennio il pittore si sarebbe trasferito da Padova a Venezia, dove avrebbe approntato la decorazione di uno o più ambienti nel palazzo di Giovanni Corner (Rigoni, 1937-38); sarebbe tornato nell'entroterra su invito del vescovo di Padova Pietro Donà (1437), per poi far rientro a Venezia, sposare in seconde nozze una sorella di Antonio Vivarini e fondare con questo la nota bottega muranese.

Fiocco (1948) ricostruendo il catalogo di G. nel decennio precedente l'incontro con Vivarini, individuava nell'Adorazione dei magi degli Staatliche Museen di Berlino, in forte debito con Gentile da Fabriano, una delle più consistenti prove autonome del pittore, al pari della Crocifissione con i profeti, gli apostoli e la discesa al limbo (Praga, Galleria nazionale), che la Hlavácková considera però opera di collaborazione del periodo padovano.

Al 1441 risale la prima opera nota della collaborazione fra G. e Vivarini, il Polittico di s. Girolamo per la chiesa veneziana di S. Stefano (Vienna, Kunsthistorisches Museum), considerato perduto a partire dal 1733 e identificato da Planiscig.

La notizia di F. Sansovino relativa alla paternità del polittico, dovuto a "Giovanni & Antonio Vivarini" (p.129), generò la falsa convinzione di un legame fraterno fra i due artisti.

L'opera, con i tre personaggi dell'ordine inferiore a figura intera e quelli del superiore a mezzo busto, è formalmente e tematicamente rappresentativa della successiva produzione della bottega, impegnata lungo tutto il decennio nella fornitura di ancone per le chiese veneziane; i piedistalli su cui posano i santi dell'ordine inferiore si configurano come cifra ricorrente, sebbene costantemente variata nel disegno, delle realizzazioni muranesi. L'omogeneità stilistica degli scomparti rende impossibile distinguere mani, ruoli e competenze; sulla scorta di confronti morelliani con i tipi del Polittico della basilica Eufrasiana di Parenzo, firmato da Vivarini nel 1440, Planiscig attribuiva l'opera unicamente a quest'ultimo.

Le quattro tavolette raccolte sotto la denominazione complessiva di Storie di sante martiri, opportunamente riferite da Bisogni alla vicenda agiografica di s. Apollonia (S. Apollonia distrugge un idolo, Washington, National Gallery of art; S. Apollonia subisce l'asportazione dei denti e S. Apollonia viene accecata, Bergamo, Accademia Carrara; S. Apollonia viene trascinata da un cavallo, Bassano, Museo civico), vengono accolte con riserva da una parte della critica nel catalogo di Antonio; per esse, invece, è stato suggerito da Zeri (1971) il nome di Giovanni d'Alemagna. La complessità degli impianti architettonici, arricchiti da citazioni anticheggianti di derivazione padovana e toscana (Bisogni), è cosa nuova rispetto ai modesti fondali prospettici dipinti in precedenza da Antonio, tanto da giustificare, nei sostenitori della paternità vivariniana, il ricorso a una fase eccezionale dell'artista (Pallucchini, 1962).

Tra 1443 e 1444 i due artisti firmavano, entrambi come "de Muriano", le tre ancone di S. Sabina, della Madonna del Rosario e del Redentore per la cappella di S. Tarasio nella chiesa veneziana di S. Zaccaria, adibita a coro delle monache dopo i lavori di ristrutturazione di Antonio Gambello (1440 circa) e appena decorata da Andrea di Bartolo detto Andrea del Castagno con il Padreterno, gli Evangelisti e Santi negli spicchi della volta (1442).

Le tre complesse macchine decorative, cui Merkel riconosce valore normativo per la codificazione dello stile tardogotico lagunare, furono realizzate su commissione della badessa Elena Foscari, della priora Marina Donà, delle monache Margherita Donà e Agnesina Giustinian e messe a punto, con l'apporto coordinato di diverse professionalità, per soddisfare il gusto "internazionale" e le esigenze di sfarzo della committenza aristocratica. Il modello del trittico a due ordini sovrapposti torna nelle ancone laterali di S. Sabina e del Redentore (entrambe datate ottobre 1443), dove la preziosità cortese delle pose e degli abbigliamenti è amplificata dal minuzioso lavoro di ebanisteria di Ludovico da Forlì; altrimenti strutturata è l'esuberante e centrale Madonna del Rosario, in cui la decorazione, parte dei muranesi, parte trecentesca di reimpiego, si estende anche sul retro, con partizioni architettoniche dipinte in quattro ordini sovrapposti. Con l'eccezione poco significativa di Testi, che rinveniva la mano di G. nell'ancona del Redentore e nella S. Sabina dell'ancona omonima, ipotizzando influenze colonesi e citazioni dalla pittura di Stephan Lochner, la critica riferisce i pannelli dipinti esclusivamente ad Antonio e limita l'intervento di G. alla decorazione in pastiglia dorata (Pallucchini, 1962; Merkel).

Nel 1444 Antonio e G. licenziavano, per la cappella d'Ognissanti della chiesa di S. Pantalon, la pala firmata e datata con l'Incoronazione della Vergine, con cornice (perduta) dell'intagliatore Cristoforo da Ferrara.

Considerata opera di frontiera tra gusto tradizionale e gusto rinascimentale, la pala razionalizza l'horror vacui di matrice gotica con un'organizzazione spaziale a impalcature concentriche, combinando il preziosismo trecentesco dei rilievi dorati e la nudità classica dei putti con strumenti della Passione. Se Testi attribuiva a G. l'ideazione e gran parte dell'esecuzione della pala, la critica successiva ha ricondotto entrambe ad Antonio, imputando però a G. le diffuse decorazioni in pastiglia dorata (Pallucchini, 1962; Merkel).

È probabile che nello stesso 1444 i due lavorassero agli sportelli dell'organo di S. Pantalon, menzionati dalle fonti e oggi perduti. Dello stesso anno è il S. Girolamo della Walters Art Gallery di Baltimora, datato e firmato dal solo G. ("ICCCC - 44° adi otto… luio / iohannes pinxit").

Da quest'opera Zeri (1971) provava a enucleare le modalità stilistiche del tedesco, rintracciandole nell'inclinazione al particolare e nella sottigliezza esecutiva. Il S. Girolamo è raffigurato stante, mentre esibisce il libro e il modello architettonico.

Non a torto Merkel lo considera parte di un polittico smembrato dove poteva essere presente, tracciata su un altro scomparto, anche la firma di Antonio; un ulteriore frammento dell'insieme andrebbe ravvisato nella tavoletta, attribuita da Zeri (1971) a G., con la Madonna dell'Umiltà della collezione Carminati di Gallarate, accomunata al S. Girolamo dal fondo arabescato.

Nel 1445 G. e Antonio dipingevano gli sportelli dell'organo di S. Giorgio Maggiore, collocati nella sagrestia della chiesa all'inizio del Seicento e distrutti nel 1773 dal crollo del campanile. Nella firma apposta sotto uno degli sportelli, raffiguranti i Ss. Giorgio e Stefano, G. si dichiarava per la prima volta "de Alemania" (Zanetti), rivendicando, da questo momento, l'origine tedesca. Come "Johanes Alamanus" e "Antonius da Muriano" i due firmavano nel 1446 la Madonna in trono col Bambino e angeli fra i dottori della Chiesa per la sala dell'albergo della Scuola della Carità (oggi sala XXIV delle Gallerie dell'Accademia).

Considerato il capolavoro di Antonio e di G., nonché l'ultima commissione di rilievo prima del trasferimento della bottega a Padova, il trittico della Carità è il più antico dipinto veneziano su tela e il primo che mostri una decisa tendenza all'unificazione dello spazio dipinto, con esiti che non dovettero essere sconosciuti al Mantegna della Pala di S. Zeno (Schmidt; Nepi Scirè). L'esuberante recinzione gotica che chiude il luogo sacro verso il giardino retrostante, aprendolo verso lo spettatore, continua ininterrotta al di là della tripartizione della tela, originariamente sottolineata da una cornice lignea distrutta nel 1811. L'ultimo restauro (1998-99) ha rivelato l'adozione di una tavolozza raffinata (fino a tre diversi tipi di rosso) e quella, insolita, del medium oleoso. La compattezza formale dell'opera rende ardua la distinzione dei singoli apporti; la lettura più recente (Nepi Scirè) individua la mano del tedesco nell'uso precoce della tecnica a olio, nella stesura del fondale architettonico, negli ornati in pastiglia e nei tessuti realizzati a foglia d'oro su lamina di stagno, secondo la tecnica nordica del Press Brokat.

In stretta relazione con il trittico della Carità si pone quello eseguito dai due artisti per la chiesa veneziana di S. Moisè, attualmente diviso tra Padova (Musei civici agli Eremitani, Madonna in trono con il Bambino) e Londra (National Gallery, Ss. Pietro e Girolamo, Ss. Francesco e Marco), virtualmente riassemblato da Pudelko e databile a ridosso del 1446. Negli intagli fitomorfi del trono e nell'alto basamento mistilineo dietro il quale corrono, senza soluzione di continuità, una balaustra e un roseto, il trittico di S. Moisè riprende i motivi più coerentemente sviluppati nelle tre tele della Carità.

È probabile (Testi) che già nella primavera del 1447 G. e Antonio fossero partiti alla volta di Padova, se il 31 maggio di quell'anno, evidentemente nell'impossibilità di ricorrere alla bottega muranese, veniva allogata a Michele Giambono una copia dell'Incoronazione di S. Pantalon per la chiesa di S. Agnese; nel contratto la pala da riprodurre è riferita solo a G. ("manus ser Johannis theotonicj pictoris"). Nella tavola delle Gallerie dell'Accademia di Venezia, oggi considerata la versione di Giambono, Land riconosceva la perduta Incoronazione dei muranesi della chiesa di S. Barnaba menzionata da Sansovino (p. 246).

Il trasferimento di G. e Antonio nell'entroterra fu dettato, con ogni probabilità, dall'aspirazione a un mercato più vivace; la scelta di Padova, in cui erano attivi Donatello, Francesco Squarcione e le relative botteghe, trova giustificazione nella concorrenzialità del clima artistico cittadino, nonché, per i sostenitori di una precedente esperienza padovana di G., nella conoscenza dell'ambiente e nella facilitata possibilità di allacciare contatti di committenza. Non è escluso peraltro che i soci vi venissero apertamente convocati (Puppi; De Nicolò Salmazo, 1989).

In una data compresa tra il 20 ott. 1447 e il 4 nov. 1448 i due pittori venivano registrati nella fraglia padovana (Odorici); già nel 1447 licenziavano per la chiesa di S. Francesco il Polittico della Natività (Praga, Galleria nazionale), il cui pannello centrale con la Madonna adorante il Bambino nella capanna di Betlemme è stato riferito a G. da Planiscig e poi da Fiocco (1948), soprattutto per la presenza di un paesaggio rupestre che esula dagli interessi di Antonio. Il polittico, eseguito ancora una volta in collaborazione con l'intagliatore Cristoforo da Ferrara, è l'unica tra le opere firmate in cui il nome di G. è preceduto da quello di Vivarini.

Il 16 maggio 1448 i due cognati stipularono con Francesco Capodilista e Francesco da San Lazzaro, esecutori delle volontà testamentarie di Antonio Ovetari, un contratto per la decorazione a fresco della cappella dei Ss. Giacomo e Cristoforo nella chiesa degli Eremitani.

Ad Antonio e a G. furono affidati la parete destra, la volta a crociera costolonata, l'intradosso dell'arco d'ingresso e le facce, esterna e interna, del muro soprastante; per la parete sinistra e la pala d'altare furono ingaggiati, con contratto a parte, i padovani Nicolò Pizolo e Andrea Mantegna. I soci si impegnavano, per un compenso di 350 ducati, a terminare i lavori entro il dicembre 1450: una prima rata di 50 ducati venne riscossa da Antonio il 15 luglio 1448, come anticipo per l'acquisto dei colori e l'erezione delle impalcature; una seconda, di 20 ducati, fu pagata a G. il 23 luglio dell'anno successivo. I lavori procedettero con singolare lentezza, per interrompersi nella primavera del 1450; il 9 giugno di quell'anno Nicolò Pizolo e F. Squarcione stimavano l'affrescatura parziale della crociera a beneficio di Antonio, che il 27 nov. 1451 riceveva 10 ducati di saldo per il suo compimento (Rigoni, 1948). Negli Evangelisti e negli Angeli della volta Ovetari, spartita da fregi lussureggianti, i muranesi tentarono un aggiornamento stilistico sui modi squarcioneschi, ricorrendo a scorci prospettici e a un modellato plastico di chiara ascendenza toscana; per il carattere ancora sostanzialmente gotico del risultato, Boskovits e la De Nicolò Salmazo (1989) individuano in G. il principale responsabile della decorazione; mentre Merkel, come già Pallucchini (1962), ritiene credibile nel cantiere Ovetari la presenza, non documentata, di Bartolomeo Vivarini.

Il G. morì a Padova intorno all'aprile del 1450 quando, in seguito alla sua scomparsa, vennero interrotti i lavori nella cappella Ovetari.

L'identificazione della personalità artistica di G., più volte arrischiata dalla critica con l'intento di dimostrarne ora il predominio, ora l'ancillarità rispetto a quella di Antonio, deve tener conto della strutturale mescolanza di maniere e competenze nella pratica di bottega, come opportunamente rilevato da Zeri (1971). L'indubbia adesione al gusto internazionale non giustifica l'attribuzione a G. di compiti meramente secondari: è probabile che nella partnership egli detenesse un ruolo decisionale, come lascerebbe intendere la priorità del suo nominativo nei dipinti e nei documenti. I contributi recenti gli riconoscono competenze raffinate, esclusivamente tecniche (frescante, decoratore, disegnatore di partiture architettoniche: Lucco, 1989; Merkel; Nepi Scirè); ma la corretta valutazione artistica di G. deve accompagnarsi a una riconsiderazione della prima produzione muranese, spesso ritenuta attardata e perdente nei confronti di quella belliniana, benché la bottega di Iacopo e figli divenga realmente competitiva solo a partire dal sesto decennio.

Fonti e Bibl.: F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare… con le aggiunte di G. Martinioni (1663), a cura di L. Moretti, Venezia 1968, pp. 129, 246; A.M. Zanetti, Della pittura veneziana (1771), Venezia 1972, p. 15; P. Brandolese, Pitture, sculture, architetture ed altre cose notabili di Padova, Padova 1795, pp. 249, 307 s.; F. Odorici, Lo statuto della fraglia dei pittori di Padova del 1441, in Archivio veneto, IV (1874), 8, p. 122; P. Paoletti - G. Ludwig, Neue archivalische Beiträge zur Geschichte der venezianischen Malerei, in Repertorium für Kunstwissenschaft, XXII (1899), pp. 427 s.; V. Lazzarini, Documenti relativi alla pittura padovana del secolo XV, a cura di A. Moschetti, Venezia 1908, pp. 77-97, 187-193, 198-201; C. Gebhardt, G. d'A., in Monatshefte für Kunstwissenschaft, V (1912), pp. 395-403; L. Testi, Storia della pittura veneziana, II, Bergamo 1915, pp. 301-380; L. Planiscig, Un polittico sconosciuto di Antonio Vivarini e di G. d'A., in Bollettino d'arte, I (1922), 9, pp. 427-433; Id., La pala di S. Girolamo già a S. Stefano in Venezia, opera di Antonio Vivarini, ibid., II (1923), 10, pp. 405-414; G. Pudelko, The altarpiece by A. Vivarini and G. d'A., once in S. Moisè at Venice, in The Burlington Magazine, LXXI (1937), pp. 130-133; E. Rigoni, Giovanni da Ulma è il pittore G. d'A.?, in Atti e memorie dell'Accademia di scienze, lettere ed arti in Padova, LIV (1937-38), pp. 131-136; G. Fiocco, Le pitture venete del castello di Konopiste, in Arte veneta, II (1948), pp. 18-28; E. Rigoni, Il pittore N. Pizolo, ibid., p. 143; L. Coletti, Pittura veneta del Quattrocento, Novara 1953, pp. XXVII-XXIX; F. Zeri, A. Vivarini: una Madonna dell'Umiltà, in Paragone, IV (1953), 41, pp. 36 s.; R. Pallucchini, La pittura veneta del Quattrocento. Il gotico internazionale e gli inizi del Rinascimento, Bologna 1956, pp. 235-270; G. Fiocco, L'arte di A. Mantegna, Vicenza 1959, pp. 83-86; R. Pallucchini, I Vivarini, Vicenza 1962, pp. 11-35, 81-85; S. Bettini - L. Puppi, La chiesa degli Eremitani di Padova, Vicenza 1970, pp. 71-79; F. Zeri, Un S. Girolamo firmato di G. d'A., in Studi di storia dell'arte in onore di A. Morassi, Venezia 1971, pp. 40-49; F. Bisogni, The martyrdoms of St. Apollonia in four Quattrocento panels, in Studies in history of art, VII (1975), pp. 41-47; A.M. Boskovits, Una ricerca su F. Squarcione, in Paragone, XXVII (1977), 325, pp. 55, 69 s.; N.E. Land, Michele Giambono's "Coronation of the Virgin" for S. Agnese in Venice: a new proposal, in The Burlington Magazine, CXIX (1977), pp. 167-174; S. Symeonides, Fourteenth and fifteenth century paintings in the Accademia Gallery Venice, Firenze 1977, pp. 69-75; K. Christiansen, Pittura a Venezia e nel Veneto nel primo Quattrocento, in La pittura in Italia. Il Quattrocento, Milano 1987, I, pp. 127-129; A. De Nicolò Salmazo, ibid., II, p. 640; Id., Padova, in La pittura nel Veneto. Il Quattrocento, Milano 1989, II, pp. 481, 492, 500 s.; M. Lucco, Padova, ibid., I, pp. 85, 92, 94, 99; Id., Venezia, ibid., II, p. 407; E. Merkel, Venezia, 1430-1450, ibid., I, pp. 66 s.; Id., ibid., pp. 346 s.; C. Schmidt, La "sacra conversazione" nella pittura veneta, ibid., II, pp. 703 s.; H. Hlavácková, Paintings by the Vivarinis in the National Gallery, in Bulletin of the National Gallery in Prague, I (1991), pp. 11-20; G. Nepi Scirè, La Madonna in trono col Bambino e angeli fra i dottori della Chiesa Girolamo, Gregorio, Ambrogio e Agostino, in Il Rinascimento a Venezia e la pittura del Nord ai tempi di Bellini, Dürer, Tiziano (catal.), Cinisello Balsamo 1999, pp. 172-174; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, I, pp. 164-166 (s.v. Alemagna, Giovanni de).

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