PROCIDA, Giovanni da

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 85 (2016)

PROCIDA (Proxida o Proxita), Giovanni da

Salvatore Fodale

PROCIDA (Proxida o Proxita), Giovanni da. – Nato verso il 1372, probabilmente nel Regno di Valenza, discendeva dall’omonimo cancelliere dei Regni di Sicilia e d’Aragona, suo trisavolo. Suo padre, Olfo (Adenolfo o Nolfo) figlio di Giovanni iunior, a sua volta figlio di Tommaso, nel gennaio 1338 già si era trasferito dal regno napoletano a quello di Pietro IV d’Aragona, il quale lo nominò governatore di Cagliari, quindi di Maiorca, ambasciatore in Sicilia nel 1362, capitano delle galee che nel 1370 riaccompagnarono Urbano V ad Avignone. Nulla si sa invece della madre.

Durante lo scisma d’Occidente ottenne, nel 1385, da Clemente VII, pontefice dell’obbedienza avignonese, canonicato e arcidiaconato della Chiesa di Elne. Nel settembre del 1387, quindicenne, fu raccomandato al papa dal re Giovanni I d’Aragona per un canonicato nella chiesa di Lerida. Era ancora studente di diritto canonico nel giugno del 1389, quando fu difeso dal re perché l’arcidiaconato di Elne gli era conteso da un ecclesiastico straniero, in contrasto con il privilegio ricevuto al momento dell’adesione aragonese al pontefice. Nel luglio del 1390 fu raccomandato a Clemente VII dal re e dalla regina Violante, perché avesse la precedenza nel conseguimento dei due canonicati, che il pontefice gli aveva riservato a Valenza e a Maiorca.

I suoi tre fratelli, cavalieri del Regno di Valenza, Olfo (che ne fu il governatore), Tommaso e Gilberto, parteciparono nel marzo del 1392 alla spedizione condotta in Sicilia dal fratello del re, duca Martino, mentre Giovanni, divenuto doctor decretorum, fu nominato rector studii dell’universitas di Perpignano e canonico della cattedrale di Maiorca, con dispense di Clemente VII e del successore Benedetto XIII, perché non ancora sacerdote, il 12 ottobre 1394.

Nel marzo del 1398 era rettore nella diocesi di Elne della chiesa parrocchiale di Santa Maria del Mare, quando Martino, divenuto re d’Aragona, cercò di fargli avere l’arcidiaconato di Lerida, tenuto dal cardinale Nicolò Brancaccio, d’obbedienza avignonese. Il re ne lodò la particolare applicazione allo studium licterarum, paragonandolo ad Anassagora, nonostante la giovane età. In maggio Martino progettò di destinarlo a ricoprire un’importante diocesi siciliana e lo fece indicare dal camerlengo Berengario Cruilles a Benedetto XIII in una terna di candidati per l’arcidiocesi di Monreale, richiesta che fu ripetuta nel luglio 1399.

La scelta di nominarlo arcivescovo di Palermo, dopo la morte, il 13 ottobre 1399, di Asberto de Vilamarí e la designazione da parte del re di Sicilia del palermitano Francesco Vitali, fu concordata dal re d’Aragona con l’arcivescovo di Messina Filippo Crispo, il quale si trovava alla corte aragonese in veste di nunzio apostolico di Bonifacio IX, il pontefice dell’obbedienza romana, con il quale faceva da intermediario nella doppia veste di ambasciatore aragonese. Il 17 gennaio 1400 Martino il Vecchio ordinò da Saragozza al figlio di non prendere provvedimenti, evitare ogni elezione dell’arcivescovo palermitano e impedire a chiunque di prendere possesso della diocesi in attesa di sue disposizioni. Il 14 maggio il re d’Aragona comunicò la nomina al re di Sicilia, suo figlio, e al capitolo della cattedrale di Palermo. Procida, il quale ancora una decina di giorni prima si trovava alla Curia di Benedetto XIII per conto del re d’Aragona, per prendere possesso dell’arcidiocesi e riscuoterne i redditi nominò tre procuratori, tra i quali un siciliano, Rainaldo da Sciacca, che chiese al capitolo di eleggere anche come vicario, in sostituzione di uno di quelli già eletti, Simone Rosso. La nomina del nuovo vicario fu annullata in agosto dal re di Sicilia, il quale non ottenne però il ripensamento dei canonici che lo avevano eletto, i quali resistettero fino alla fine di ottobre.

A metà giugno del 1400 Martino re di Sicilia era stato costretto ad assicurare che il nuovo arcivescovo sarebbe stato consacrato da Bonifacio IX, in conformità con le promesse fatte ai palermitani dopo la loro resa nel 1397, e che della questione si sarebbe interessato a Roma l’arcivescovo Crispo, al suo ritorno dalla Spagna. Dalla Sicilia fu invece chiesta al re d’Aragona la nomina di un palermitano come arcivescovo, il provinciale dei domenicani fra Giuliano Milito. A metà luglio Martino re d’Aragona ordinò al secreto di Palermo di consegnare redditi e amministrazione dei beni dell’arcidiocesi al mercator barcellonese che era uno dei procuratori di Giovanni da Procida e continuò a insistere fino al marzo del 1401, ordinando al re di Sicilia di perfezionare la nomina dell’arcivescovo, di non toccare i redditi episcopali e di annullare concessioni di appalti e ogni altro contratto, perché Procida non poteva essere considerato assente dalla sede episcopale, se si trovava al servizio della Corona. Dall’inizio dell’anno si era programmata la sua partecipazione con Crispo all’ambasceria aragonese destinata a Bonifacio IX. Poi fu invece deciso che gli ambasciatori andassero prima in Sicilia, per conferire con re Martino il Giovane e riceverne le direttive.

Il 30 agosto Martino il Vecchio informò Benedetto XIII di avere fatto dare in commenda la Chiesa palermitana a Giovanni da Procida, il quale non aveva voluto intitolarsi arcivescovo e aveva chiesto di essere autorizzato dal papa alla riscossione dei redditi e allo scambio dei benefici e che lo dispensasse dalla scomunica, nella quale sarebbe incorso per la frequenza con gli scismatici palermitani. Ancora nell’agosto del 1403 il fratello Gilberto ne sollecitava le richieste presso la Curia avignonese. La partenza di Giovanni per l’isola, in compagnia dei fratelli, di qualche ecclesiastico e di un certo numero di uomini armati, prevista inizialmente per la primavera del 1400 e a lungo annunciata, sembrò imminente nel settembre del 1401. Benché fosse stato eletto dal capitolo della cattedrale di Palermo, il re d’Aragona dispose che non ricevesse più il titolo di arcivescovo eletto, ma solo quello di amministratore dell’arcidiocesi, perché evidentemente le trattative con Bonifacio IX per la sua consacrazione come arcivescovo non erano andate in porto. Comunicò la nuova nomina ai canonici e alla città il 30 settembre, e rinnovò la disposizione di revocare ogni assegnazione che il re di Sicilia aveva fatto sulle rendite episcopali, perché altrimenti i redditi rimasti sarebbero stati per lui insufficienti. Il 26 maggio 1402 era ormai in Sicilia, dove fu accompagnato da ecclesiastici catalani e fu considerato ufficialmente come arcivescovo eletto di Palermo.

Verso l’aprile del 1403 il re di Sicilia chiese a Bonifacio IX che divenisse vescovo di Catania, irritando vivamente il re d’Aragona, il quale ne ritenne responsabili i consiglieri del figlio, perché a Roma erano avvenute delle trattative a sua insaputa. Approfittando dell’assenza dall’isola del cardinale di obbedienza avignonese Pietro Serra, che governava la diocesi, Giovanni da Procida si installò nel palazzo episcopale di Catania, ma il 27 aprile Martino il Vecchio lo avvertì minacciosamente che, quand’anche fosse stato provvisto mille volte da Bonifacio IX, non avrebbe consentito a nessuno di togliere la diocesi al cardinale, suo stretto collaboratore e consigliere, e gli ingiunse di sgombrare immediatamente dal palazzo. In ottobre il re d’Aragona chiese tuttavia per lui dei benefici a Benedetto XIII.

Rimase a Palermo, dove nel marzo del 1404 ebbe un conflitto con l’arcidiacono Andrea Argento, il quale lo accusò di avergli usurpato la giurisdizione, mentre nel luglio del 1406 compì un’operazione finanziaria con un genovese. Fu pure accusato di approfittare dell’imposizione della decima triennale per tassare il clero oltre misura, senza peraltro versare quanto dalla diocesi era dovuto al pontefice dell’obbedienza romana, Gregorio XII, sicché nel giugno del 1408 il re di Sicilia ordinò un’inchiesta. Anche il monastero benedettino di San Martino delle Scale lamentò che non ne rispettasse privilegi e immunità.

Nel luglio del 1407 Benedetto XIII gli inviò da Marsiglia delle istruzioni orali attraverso un prete di Barcellona. Il 18 agosto ebbe il perdono del papa dell’obbedienza avignonese per la sua elezione a Palermo, considerata de facto, ma non de iure, perché compiuta da parte di un capitolo scismatico. Per giustificarsi, aveva affermato – falsamente – di non avere consentito all’elezione e di non averne curato la conferma e di avere assunto soltanto l’amministrazione de facto, percependo i redditi. Benedetto XIII gli ingiunse la rinuncia all’amministrazione della diocesi, ma gli donò i redditi già percepiti a Palermo e lo riconobbe come arcidiacono di Elne.

Il 23 febbraio 1408, un giorno prima che sul presupposto della vacanza della sede episcopale (era morto da tempo l’ultimo arcivescovo d’obbedienza romana, Gilforte Riccobono) i canonici del capitolo della cattedrale affiancati dal capitano della città dichiarassero di assumere l’amministrazione dei beni della loro Chiesa, affidò al vicario e ad alcuni mercanti il recupero di beni e crediti, nominando un amministratore e realizzando una serie di atti di disposizione di beni episcopali, una vendita di legname il 24 stesso, alcune vendite di acque e di frumento nella seconda metà di marzo. Il 25 marzo per far valere i suoi diritti come arcivescovo eletto, malgrado l’impegno assunto con papa Benedetto a rinunciare all’episcopato, protestò contro i canonici che lo avevano esautorato e donò al fratello Tommaso una annualità dei redditi episcopali. Preparandosi forse a lasciare il Regno di Sicilia, concluse fino alla fine di maggio una serie di operazioni finanziarie, con contratti di cambio marittimo e trasferimento di somme di denaro a Pisa, Firenze, Genova e Barcellona. Lamentando l’insufficienza dei propri benefici ecclesiastici, benché fosse divenuto decano della Chiesa di Valenza, ottenne da Benedetto XIII, che pare avesse raggiunto in Liguria, l’11 giugno 1408 di poter godere ancora per un biennio dei redditi palermitani, in considerazione della vacanza della sede e dell’impossibilità di nominarvi un arcivescovo, perché la popolazione era scismatica.

Il 26 maggio del 1409 da Cagliari fu autorizzato da Martino il Giovane a lasciare il Regno di Sicilia, per andare eventualmente al Concilio di Pisa, ovvero presso il collegio dei cardinali, e all’esportazione di due muli, probabilmente a quello scopo. Morto il re in Sardegna, il 28 settembre era comunque a Catania, alla corte della Vicaria, la regina Bianca, la quale lo incaricò di tornare a Palermo, per intervenire sulla violazione del divieto di imposizione di nuove gabelle, affinché le somme percepite dalla città fossero versate al tesoriere del Regno, fosse disarmata la galea che i palermitani avevano armato con quel denaro e fosse dimezzato il numero degli ambasciatori nominati per andare alla corte aragonese.

Mantenne ancora per qualche tempo il titolo di arcivescovo palermitano, con il quale figura in un documento del 30 marzo 1410 del Papato della linea avignonese. Il 2 giugno di quell’anno ottenne da Benedetto XIII altri cinque mesi di proroga della concessione sui redditi episcopali. L’11 giugno a Barcellona gli fu conferita dal papa aragonese, come notaio apostolico, una prepositura vacante nella Chiesa di Valenza. Privato ormai del titolo episcopale, restò definitivamente nella Curia di Benedetto XIII, nella quale ricoprì l’ufficio di protonotaro apostolico. A Palermo la regina Bianca nel giugno del 1411 designò in sua sostituzione il provinciale dei frati minori fra Giovanni da Termini, ma poi gli preferì Ubertino de Marinis.

Nel 1415 i suoi redditi annui raggiungevano i 1500 fiorini aragonesi. Cancellata ogni precedente macchia di infedeltà, era ormai considerato un familiaris antiquus del papa, il quale ne ricordò a titolo di merito la presenza ad Avignone, durante l’assedio che il papa vi aveva sofferto. Prese l’abito regolare dei cavalieri di san Giacomo della Spada, in attesa di ricevere una precettoria dell’ordine. Non sappiamo quando sia morto. Un documento del 1455 del pontificato di Callisto III ci informa che un miles valenciano defunto, del suo stesso nome, aveva lasciato alla cattedrale di Palermo 44.000 soldi per una custodia corporis Christi e che all’esecuzione del legato era tenuto il figlio Nicolò.

Fonti e Bibl.: R. Moscati, Per una storia della Sicilia nell’età dei Martini (Appunti e documenti: 1396-1408), Messina 1954, pp. 121, 127; C. Trasselli, G. da Procida, in Id., Note per la storia dei banchi in Sicilia nel XV secolo, II, I banchieri e i loro affari, Palermo 1968, pp. 77-81; F. Giunta, Sull’arcivescovo di Palermo G. da Procida (1400-1411), in Id., L’ultimo medioevo, Roma 1981, pp. 88-94; S. Fodale, L’arcivescovo G. da Procida, in La Fardelliana, I (1982), pp. 25-34; Id., Alunni della perdizione.Chiesa e potere in Sicilia durante il grande scisma (1372-1416), Roma 2008, pp. 459, 522-525, 527, 531-533, 570, 617, 625, 627, 663 s.

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