GIOVANNI da Rimini

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 56 (2001)

GIOVANNI da Rimini

Mauro Minardi

Non si conosce la data di nascita di questo pittore riminese, operoso nella sua città tra lo scorcio del XIII secolo e il primo trentennio del XIV.

Il primo documento che lo ricorda risale al 22 marzo 1292, data in cui "Iohannes pictor suo nomine et fratrum" (Delucca, 1992, p. 49) saldava con tre paia di capponi il canone enfiteutico, relativo agli ultimi tre anni, di un terreno di proprietà dell'ospedale di S. Lazzaro, sito nella parrocchia di S. Ermete. Grazie alle ricerche svolte da O. Delucca si è in grado di associare a questa attestazione altre testimonianze analoghe: il 15 dicembre dello stesso anno G. appare come testimone della concessione di altri terreni posti in S. Ermete e in S. Paolo, e il 26 dicembre è nuovamente registrato un suo pagamento enfiteutico all'ospedale di S. Lazzaro per l'appezzamento sopra citato. Lo "Zagnonus pictor" (ossia Giovannone), abitante "in contrata Sancti Iohannis Evangeliste", ricordato in questi due ultimi documenti è infatti sempre da riconoscersi in G., in quanto locatario dello stesso terreno, di cui si specificano i confinanti. Al pagamento di altri canoni annuali si riferiscono un versamento erogato nel 1295, noto già a Tonini (1864), e un secondo del 27 dic. 1299, di cui si rendeva responsabile tale "Zanutius consanguineus Zagnoni pictoris". Un importante documento datato 4 genn. 1300, di cui diede breve notizia ancora Tonini (1862), oltre a registrare il rinnovo di una locazione relativa a una casa situata nella parrocchia di S. Eufemia, segnala la presenza, in qualità di testimoni dell'atto, dei fratelli di G., Zangolo e Giuliano, genericamente citati nel 1292.

L'atto chiama in causa, a tutta evidenza, quel "magistrum Zangolum pictorem filium quondam Martini", menzionato negli archivi riminesi dal 1316 al 1342, quando appare già defunto (Delucca, 1992, pp. 74-86), e certifica parimenti il rapporto di parentela che lega a G. quel "Magister Iulianus depintor de contrata Sanctis Iohannis Evangeliste" che il 25 marzo 1323 erogava una somma come canone enfiteutico al convento di S. Giuliano a Rimini (ibid., p. 88). Si tratta del pittore noto come Giuliano da Rimini, documentato in questa città dal 1307 al 1323 e già morto nel 1346. Al contrario, non si hanno tracce dell'attività artistica di Zangolo, per il quale è da segnalare la cauta ipotesi di Benati (Disegno…, 1995, p. 45) che ne tenta l'identificazione con il Maestro del coro di S. Agostino.

G. morì probabilmente prima del 1338, quando il terreno in S. Ermete venne locato ad altri.

Sulla base di queste attestazioni, relative per la maggior parte a investimenti fondiari, Delucca (1992, p. 46) ha prospettato l'ipotesi di una sua duplice attività di pittore e agricoltore, svolta almeno per un certo periodo, e nel contempo ha potuto dimostrare come G., Zangolo e Giuliano, figli di un tale Martino, appartenessero a una stessa famiglia dedita alla pittura. Meno certa appare invece la possibilità (ibid., p. 135) di riconoscere in Foscolo e nei suoi fratelli, pure figli di un non ben specificato Martino, altri membri dello stesso nucleo familiare.

Il più tenace impedimento alla comprensione della vicenda biografica e della personalità artistica di G. è stato rappresentato nella prima metà del XX secolo, in un'epoca per molti versi pionieristica nello studio del Trecento riminese, dall'iscrizione apposta sul Crocifisso della chiesa di S. Francesco a Mercatello sul Metauro recante la firma dell'artista, "Iohannes pictor" e la data di esecuzione. Tale firma venne a lungo associata alla già nota personalità del pittore Giovanni Baronzio documentato tra il 1343 e il 1345, e la data letta come 1344 o 1345; un'interpretazione, che ha generato un considerevole slittamento cronologico rispetto ai tempi concreti di realizzazione dell'opera, gravando non poco sull'esatta scansione dei fatti artistici riminesi e obliando per decenni la figura di G., oggi posta agli esordi della civiltà pittorica di Rimini, agli albori del Trecento. Un tale fraintendimento, sotteso al significato altrimenti focale del Crocifisso di Mercatello, che figurava, infatti, sotto il nome di Baronzio all'importante mostra riminese del 1935 (Brandi, 1935, pp. 88 s.), parve inverosimile già a Longhi, che propose (in Brandi, 1937, p. 193) di svincolare la personalità di questo "Iohannes" da quella del più giovane pittore riminese. La distinzione di un diverso, autonomo artista - cui Brandi (1937), sempre sulla scorta di Longhi (1934-35), collegava la valva di dittico in quegli anni nel Palazzo di Venezia a Roma, la Madonna e santi della Pinacoteca di Faenza, il Crocifisso di Rimini (Museo della città), allora nella collezione Diotallevi e quello ad Amsterdam in collezione Goudstikker - non condusse tuttavia a infirmare l'errata lettura della data del Crocifisso di Mercatello, che Volpe, per primo, giudicò incongruente in sede di risistemazione critica della cultura trecentesca locale (La pittura…, 1965, pp. 14, 62 s.). Il restauro, cui il dipinto fu in seguito sottoposto, confermò l'intuizione dello studioso, avallando l'esame paleografico condotto parallelamente da Augusto Campana (1995): la data iscritta venne sciolta in 1309 o, più difficilmente, 1314, aprendo un nuovo corso alla ricostruzione storica del percorso di Giovanni da Rimini. Questo affonda le proprie radici nel tardo Duecento, presumibilmente in un humus di cultura bizantina le cui tracce permangono, in una tornitura icastica e fortemente incisa delle forme, nel Crocifisso già nella chiesa degli agostiniani a Poggiolo, ma da lungo tempo in S. Lorenzo a Talamello. Si tratta di un dipinto generalmente posto ad apertura del catalogo di G. dopo l'ineccepibile rivendicazione alla sua mano operata da Volpe in un volume ancora oggi alla base di ogni ricognizione scientifica sull'argomento (La pittura…, 1965, p. 17).

La presenza di Giotto a Rimini, che in tempi recenti è stata ancorata con un buon margine di sicurezza a una data intorno o anteriore al 1300 (A. Volpe, in Neri da Rimini…, 1995, pp. 62-65), conosce un primo impatto in questo testo figurativo già segnato da una profonda individuazione naturalistica rispetto alle croci duecentesche e da precise derivazioni iconografiche; queste ultime rimandano al Crocifisso realizzato dal maestro toscano per la chiesa di S. Francesco a Rimini (l'attuale Tempio Malatestiano, dove è conservato) o, secondo il giudizio di Boskovits (1988, p. 136), a un prototipo affine al Crocifisso di S. Maria Novella a Firenze. I terminali della croce di Talamello rappresentano probabilmente un riflesso di quelli, tuttora dispersi, della croce malatestiana di Giotto; e alla sua cimasa con il Redentore benedicente, rintracciata già nella collezione Jekyll a Londra (Zeri, 1957), G. si attenne costantemente in diverse figurazioni dello stesso tipo, canoniche per i pittori delle successive generazioni. Nel Cristo di Talamello, dunque agli inizi del secolo, precoci sono infatti le desunzioni giottesche nel perizoma fasciato in pieghe affastellate e consistenti, nel tipo facciale, solcato da palpebre allungate entro le profonde fessure sopraccigliari, nella barba e nei capelli su cui indugiano i valori mimetici della pittura; tratti costanti nelle opere di G., a partire dal Crocifisso già Goudstikker (ora, in deposito presso il Museo di Maastricht), che le cattive condizioni di conservazione rendono di non piana lettura, fino a quello di Mercatello.

Nel primo decennio del XIV secolo G. fu anche impegnato nella realizzazione delle Storie della Vergine - rivendicategli da Bottari (1958) - affrescate a Rimini nella cappella a cornu epistolae della chiesa di S. Agostino ovvero di S. Giovanni Evangelista, nella cui contrada il pittore e i suoi fratelli erano domiciliati.

L'intero ciclo decorativo di questa chiesa, che si estendeva lungo la superficie del coro e dell'arco trionfale, tornò alla luce nel 1917, a seguito del terremoto che ne rivelò la consistenza sotto le antiche scialbature (F. Filippini, Gli affreschi nell'abside della chiesa di S. Agostino in Rimini e un ritratto di Dante, in Bollettino d'arte, I [1921-22], pp. 3-21; G. Nave, Newly discovered frescoes at Rimini, in The Burlington Magazine, XLVI [1925], pp. 3-7, 72-82, 133 s.).

Il lascito ordinato nel 1303 da Umizolo di Neri (Delucca, 1992, p. 22), col quale si disponeva circa l'abbellimento di un altare consacrato alla Vergine in S. Agostino, è stato messo in relazione con le Storie (Benati, Pietro da Rimini…, 1992), presupponendo che a tale data essi fossero già stati eseguiti (Pasini, 1990, p. 53). Questi dipinti costituiscono la prima testimonianza dell'impatto esercitato a Rimini dalla pittura narrativa del Giotto assisiate - che in questa città aveva lasciato affreschi in S. Francesco, forse raffiguranti scene del santo eponimo (Id., Disegno…, 1995, p. 37) - e una fra le più precoci in Alta Italia.

Nella Presentazione al tempio la disposizione paratattica dei personaggi emula la rigorosa scansione geometrica delle architetture "finte come in un avorio rosato e ornate di ghirlande" (Id., 1986, p. 199). Le colonne sottilissime ripartiscono la scena come quelle della Guarigione del ferito di Lérida ad Assisi, mentre lo scorcio della nicchia centrale ricorda quello cui sono sottoposte le volte a botte nella Pentecoste. Anche l'uso delle colonne tortili perimetrali, brani di architettura-scultura illusiva, sono un espediente del Giotto assisiate, come la dovizia delle stoffe decorate e traforate (in rapporto, per esempio, con L'apparizione a Gregorio IX). Ma è soprattutto la levigatura luminosa delle pieghe colonnari, prossima a un sintetismo proprio solo della scultura classica, a dar ragione di un'intensa esperienza consapevolmente maturata su Giotto, senza riduzioni nell'adesione ai suoi valori di razionale ricomposizione pittorica del visibile, tale pertanto da essersi spinta forse in anticipo sulla stessa presenza del maestro a Rimini, verso Assisi o Roma (Boskovits, 1993, p. 96). È questa una verifica attuata in tempi recenti, successiva alla prima lettura in chiave cavalliniana dell'opera di G. (Van Marle, 1921-22, pp. 248-261) e al suggerimento di un suo rapporto specifico con il Giotto padovano (Volpe, La pittura…, 1965, p. 19). Nella lacunosa Natività, costruita su un vertiginoso equilibrio spaziale, le donne che attendono al primo bagno di Gesù sono colte ancora dagli affreschi assisiati e inaugurano un repertorio di figure incurvate che sortirà un'enorme fortuna nella pittura riminese fino a Pietro da Rimini.

La datazione di questo ciclo deve tener conto anche della parentela, pur nella diversità delle proporzioni e della tecnica, con le figurine slanciate delle due tavolette compagne conservate a Roma (Galleria nazionale d'arte antica - palazzo Barberini, inv. 1441) e Alnwick Castle (collezione del duca di Northumberland, inv. 648). Esse raffigurano rispettivamente Storie di Cristo e Storie della Vergine e di altri santi e - secondo l'ipotesi di A. Tambini (1996, p. 468) - potrebbero rappresentare le ante laterali di un trittico con al centro la piccola Madonna Pelagonitissa e cinque santi della Pinacoteca comunale di Faenza (inv. 134), la quale allo stesso modo associa due santi francescani a s. Agostino, titolare di una chiesa nella città romagnola.

Nonostante la parziale consunzione della superficie, in parte responsabile della "pittura a tocchi impressionistici" di queste opere, le loro eleganti silhouettes, "ispirate ai più begli avori bizantini" (Longhi, 1934-35, p. 68), si atteggiano di tre-quarti o di spalle in un tentativo di progressiva conquista dello spazio entro i piccoli riquadri scenici e appaiono dolcemente fasciate in bozzoli di materia luminosa che, stilisticamente, conducono alla pittura sfilacciata, "pari alla purezza dei più arcani recuperi ducceschi" (Volpe, 1979, p. 23), ai ritmi lenti delle Crocifissioni di Rimini e Mercatello sul Metauro.

In questo stesso frangente trova posto il trittico con la Madonna con il Bambino tra s. Giovanni Evangelista e s. Paolo di Venezia (Civico Museo Correr, inv. 1018), commentato inizialmente da Volpe (Sul trittico riminese…, 1965), che ne ipotizzava una provenienza da S. Agostino a Rimini. Lo studioso lo riteneva altresì un punto d'appoggio per l'isolamento di una personalità da lui definita Maestro dell'Arengo, dipendente "dall'ineffabile archetipo giottesco del più arcaico Giuliano, come dalla progressione classicheggiante che Johannes persegue e perseguirà per lunghi anni" (ibid., p. 8). Il collegamento, come per altre opere, con lo stesso G. spetta invece a Boskovits (1993, pp. 96 s.), che in esso ha scorto la possibilità di una sua attività nel Veneto. La vicinanza del s. Paolo qui raffigurato con il Redentore del Crocifisso di Mercatello e della Madonna centrale con quella di Faenza non rende plausibile una sua datazione oltre il primo decennio; mentre richiede una temperie figurativa più matura il grandioso Giudizio universale affrescato nell'arco trionfale di S. Agostino a Rimini, all'ingresso del coro. Staccato nel 1917 dopo il suo rinvenimento, l'affresco fu depositato nel palazzo dell'Arengo (prima di passare al Museo della città), da cui ha preso nome questo maestro che oggi la critica concordemente individua in momenti diversi dell'attività di Giovanni da Rimini. La recente revisione critica condotta da Boskovits (1988; 1993) in merito al ruolo sostenuto da G. in S. Agostino ha indicato infatti in questo affresco una prova della sua evoluzione formale, in tempi immediatamente anteriori o prossimi al 1318, quando il capitolo generale dell'Ordine agostiniano tenutosi a Rimini rese probabilmente necessaria l'ampia campagna decorativa che trovò spazio lungo le pareti del coro (cfr. Lugato, 1995, pp. 82-93). Nel Giudizio è dato leggere un'amplificazione volumetrica e un'intensificazione del chiaroscuro che accentuano l'espressività marcata dei personaggi e anticipano le qualità distintive dell'artista operoso nel coro, personalità emergente all'interno della bottega gestita da G. (Volpe, 1965), o, piuttosto, come sostenuto nella rilettura di Boskovits (1993), immagine più evoluta dello stesso Giovanni da Rimini.

Gli affreschi del coro, raffiguranti tra gli altri Storie di s. Giovanni Evangelista, anziché presupporre l'intervento di un diverso artista, potrebbero dunque rappresentare l'esito più maturo della poetica solenne e naturalistica di G., qui oramai proiettata in una concezione più gotica dell'umano in immediato anticipo sugli esordi di Pietro da Rimini. L'evidenza di simili presupposti è nella verifica di vari elementi morfologici, di chiaroscuro, di definizione dei panneggi, che rendono plausibile postulare continui accrescimenti nello stile del pittore. In tale accezione va letta la possibilità di annettere alla sua attività in S. Agostino, che viene a scandire quasi completamente l'iter della sua carriera, il grandioso Crocifisso generalmente accreditato al cosiddetto Maestro del coro di S. Agostino e quello decisamente affine di Princeton (University Museum, nn. 62-70: Boskovits, 1988, pp. 41 s.).

La seriazione fra il primo e il secondo decennio del secolo di molte opere di G. e l'omogeneità stilistica del raggruppamento sopra esposto rendono particolarmente ostico seguire la sua attività nella Crocifissione affrescata in S. Marco a Osimo e nel Crocifisso in S. Francesco a Sassoferrato, secondo la diversa lettura di Boskovits (1988, pp. 40 s.), propenso a includere nel catalogo di G. anche una Madonna del Latte già a Roma in collezione Paolini (Boskovits, 1993, p. 176 n. 46). Le pessime condizioni di conservazione ostacolano anche il riferimento a G. della S. Apollonia affrescata in un'edicola nel chiostro di S. Francesco a Ravenna (A. Corbara, Il ciclo francescano di Francesco da Rimini, in Romagna arte e storia, IV [1984], 12, fig. 4), secondo le ipotesi di Benati (1986, p. 199) e della Faietti (1993). Più interessante, nonostante le disastrose perdite, è il collegamento alla bottega di G. del Crocifisso già in S. Francesco a Sassocorvaro (ora presso la Rocca Ubaldinesca, sede delle raccolte civiche: Tambini, 1996, pp. 461 s.), che effettivamente trova nello stretto giro dell'artista il riferimento culturale più favorevole.

Al di là delle impostazioni che hanno diversamente modellato i termini della carriera artistica di G., la critica recente, a seguito peraltro dell'esposizione riminese del 1995, si mostra concorde nel restituirgli un ruolo propulsore nell'elaborazione di un linguaggio autonomo e basilare - "quasi sostegno dorsale e linfa poetica di tutta la scuola" (Volpe, La pittura…, 1965, p. 13) - per gli sviluppi della pittura locale nel Trecento: ciò avvenne all'interno di una dinamica realtà professionale che, concepita nella forma di una bottega a probabile conduzione familiare, coinvolse altri maestri, fra i quali Giuliano da Rimini. L'odierno riferimento a quest'ultimo di tavole e affreschi, nei quali è stata rintracciata anche la mano di G., o di altre opere che mantengono tangenze non casuali con lo stile di quest'ultimo (significativo appare il caso del trittico già presso il duca di Norfolk a Carlton Towers, acquisito di recente dalla Fondazione Cassa di risparmio di Rimini), conferma le condizioni fluttuanti di questa realtà, distinta dalla condivisione e dal passaggio di modelli, di prerogative formali lungo più generazioni di artisti.

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