GIOVANNI di Crescenzio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 56 (2001)

GIOVANNI di Crescenzio

Tommaso Di Carpegna Falconieri

Figlio di Crescenzio Nomentano, il dominatore di Roma che fu fatto uccidere da Ottone III nel 998, e di una non meglio conosciuta Teodora, fu patrizio di Roma dal 1002 ovvero, come ritengono alcuni, dal 1006, fino al 1012.

Il ripetersi dei medesimi nomi in seno all'aristocrazia romana del X secolo ha creato difficoltà nelle ricostruzioni genealogiche, che ancora non sono state del tutto risolte, specialmente per quanto riguarda il gruppo individuato per comodità con il cognome "Crescenzi". Le ricerche più recenti hanno tuttavia mostrato che non è corretto concepire la struttura di queste famiglie come informata a criteri propriamente dinastici o patrilineari. Molto più che di lignaggi, si trattava di gruppi parentali estesi, che possedevano un incerto grado di coesione interna e che attribuivano un peso rilevante alla discendenza per via femminile.

G., di cui è ignota la data di nascita, compare alla storia solamente al momento della sua elevazione al patriziato. Manca infatti ogni informazione precedente a quel periodo: anche una sua ambasceria a Costantinopoli, che egli avrebbe portato a termine nel 996, ricordata da G. Bossi (1915) sulla scorta di una notizia riportata dal cronista veneziano Giovanni Diacono, è in realtà da ascriversi a un altro Giovanni, il figlio del doge Pietro (II) Orseolo. La rivolta romana antimperiale del 1001 e la morte improvvisa dell'imperatore, avvenuta al principio dell'anno successivo, consentirono a G. di appropriarsi del titolo e delle prerogative che già erano state del suo omonimo zio e di suo padre. In realtà, la prima volta che G. è ricordato con il titolo di patrizio è nell'ottobre del 1006, e soltanto Ugo di Farfa propone un nesso cronologico tra la morte dell'imperatore e l'ascesa di Giovanni. Tuttavia, il medesimo Ugo racconta di fatti che accaddero due anni dopo l'elevazione al patriziato, fatti che possono collocarsi nel 1004. Inoltre, Thietmar di Merseburgo tramanda il ricordo di ricchi doni offerti dal patrizio al re Enrico II, e si può ritenere che essi fossero stati inviati al momento dell'incoronazione di quest'ultimo a Pavia (1004). Pertanto, la data di inizio del suo patriziato, solitamente ritenuta coincidente con il 1002, è abbastanza attendibile. In seconda istanza, facendo propri i dubbi di G. Bossi e di P. Brezzi, si può credere che G. avesse cominciato a governare la città nel 1002, ma che avesse atteso alcuni anni prima di portare il titolo di patrizio.

Per carenza di fonti, i dieci anni del dominio di G. sono quasi del tutto ignoti. Si possono tuttavia individuare alcune caratteristiche generali, che permettono di attribuire a questo periodo un duplice significato. Il patriziato di G. va considerato prima di tutto in un'ottica di continuità, poiché esso è perfettamente coerente con la concezione politica di papato aristocratico, che informa di sé il X e la prima metà dell'XI secolo. Questo sistema di governo si configurò, nel periodo compreso tra il principato di Alberico (II) e il governo di G., secondo un regime diarchico, ponendosi allora a capo della città sia il pontefice, sia un signore laico; di questo esperimento istituzionale il patriziato di G. rappresentò fra l'altro l'ultima esperienza compiuta a Roma. Dopo di lui, infatti, i conti di Tuscolo, nuovi dominatori di Roma, concentrarono il governo della città nelle mani del solo pontefice, dando vita a un tipo di istituzione più marcatamente monarchica. Il secondo significato attribuibile al suo governo possiede invece un carattere di novità, poiché allora si inaugurò un lungo periodo di assenza da Roma degli imperatori; in questo modo la città, a partire dalla dominazione di G., si trovò non condizionata dalla presenza materiale dell'imperatore.

G. fu patrizio nel periodo immediatamente seguente la morte di Ottone III e precedente l'incoronazione romana di Enrico II (1014). Per questa ragione, il suo governo fu visto, per esempio da F. Gregorovius, come una fase di intervallo. In realtà, come ha sottolineato P. Toubert, la parentesi di governo non fu quella di G., bensì l'episodio costituito dalla permanenza a Roma di Ottone III, che andò a incunearsi nel consolidato sistema di governo aristocratico cittadino. Non è neppure lecito ipotizzare, nella Roma dell'epoca, l'esistenza di saldi partiti filo o antimperiali, poiché, al contrario, si trattava di raggruppamenti instabili, legati alla presenza dell'imperatore e del suo esercito e motivati, tra l'altro, da un'ostilità xenofoba. Questa considerazione può aiutare a comprendere come l'assenza da Roma dell'autorità imperiale abbia permesso l'esistenza di un governo che, a differenza di quello dei diretti antecessori, fu molto lungo e non ostacolato da rivolte; evidentemente, mancando l'imperatore, venivano a mancare anche i suoi seguaci. Ma la medesima suggestione permette anche di capire perché G., che pure aveva avuto suo padre trucidato proprio dall'imperatore, non disdegnasse di intrattenere rapporti abbastanza amichevoli con il re Enrico II. Nel momento in cui egli salì al patriziato, dopo la rivolta del 1001 che aveva obbligato Ottone III ad allontanarsi dalla città e che però non era stata scatenata dai Crescenzi, i rapporti fra Roma e l'Impero erano pacifici.

Thietmar ci informa che G. inviò a Enrico, considerato dal cronista come signore feudale del patrizio perché designato con il vocabolo di "senior", preziosi doni, tra cui quello dell'olio miracoloso scaturito dal pavimento di una chiesa romana. Ma Thietmar, che traccia un efficace confronto morale tra il clemente Enrico e il lascivo G. chiamando quest'ultimo "distruttore della sede apostolica", ritiene che il patrizio, pur sempre prodigo di doni e di parole, temendo che Enrico potesse divenire imperatore, tentasse in ogni modo di impedirglielo. Benché la testimonianza sia profondamente avversa, essa coglie nel segno: infatti pare molto probabile che G., negli anni del suo governo, avesse riconosciuto formalmente il re, ma avesse altresì tentato in ogni modo di tenerlo lontano da Roma, forse addirittura (ma le informazioni in merito sono scarse) stringendo accordi con Boleslao di Polonia e con Arduino d'Ivrea.

Secondo Toubert, la differenza maggiore tra la dominazione di Alberico (II) e il patriziato dei Crescenzi è che i papi da protetti divennero protettori: ne è indizio fondamentale la ricomparsa del titolo di patricius che, sotto i Crescenzi, si presenta nella sua formula completa come patricius domini apostolici. Il titolo, pertanto, era attribuito dal papa e chi lo portava era il rappresentante laico del pontefice. Anche G., dunque, dovrebbe aver ricevuto da questo l'investitura (Silvestro II se si accoglie la data del 1002, Giovanni XVIII se si accetta quella del 1006), probabilmente in seguito a un accordo tra il potere formale, rappresentato dallo stesso pontefice, e le istanze dell'aristocrazia cittadina con le quali Silvestro II, una volta morto l'imperatore che lo sosteneva, dovette scendere a patti. Non è azzardato pensare che la scelta fosse caduta su G. proprio in quanto figlio di Crescenzio, che con la sua morte era assurto a simbolo eroico. È invece da escludersi un'investitura da parte imperiale. Comunque stiano le cose, è certo che i rapporti tra G. e i pontefici regnanti durante i suoi anni di governo non si informarono a una sudditanza del primo rispetto ai secondi. A differenza degli altri patrizi, il titolo completo portato da G. è quello di patricius Romanorum. In un'occasione (Regesto sublacense, doc. 85), egli fu anche detto Senatus Romani patricius, a dimostrazione che, se anche G. era stato inizialmente ordinato dal papa, il suo potere si fondava sul consenso dell'oligarchia urbana.

Dopo la morte di Silvestro II (1003), seguirono due pontefici il cui governo "è avvolto nella tenebra profonda" (Gregorovius). Sia Giovanni XVII, sia Giovanni XVIII furono, molto probabilmente, creature di G., anche se non vi sono elementi sufficienti per stabilire un'eventuale loro appartenenza al gruppo parentale dei Crescenzi. Contrariamente a Giovanni XVII (che però ebbe un brevissimo pontificato), Giovanni XVIII mostrò la volontà di ristabilire contatti con Enrico II, inviando legati e ricevendo ambascerie nel 1004 e nel 1007, ma dovette essere ostacolato dal patrizio, tanto da non riuscire nello scopo di condurre il re a Roma. Probabilmente proprio la divergenza di vedute nella politica imperiale fu il motivo della sua deposizione, avvenuta nel 1009. Il successore, Sergio IV, forse parente dei Crescenzi per via materna, continuò la politica filoimperiale di Giovanni XVIII, ma senza risultati. In definitiva, i papi succedutisi nel corso del governo di G. non dovettero godere di un'ampia autonomia politica, e probabilmente la loro azione concreta dovette limitarsi all'ambito ecclesiastico.

Per quanto si può desumere dalle fonti, i rapporti di G. con l'aristocrazia romana furono improntati a un sistema tradizionale. Il patrizio esercitò il potere fondandosi sul consenso della burocrazia pontificia (i giudici ordinari) e di una larga parte dell'aristocrazia. Egli amministrava la giustizia nella sua domus, che doveva trovarsi nella zona dell'odierno palazzo Madama, e ricorse senza dubbio alla collaborazione di parenti nel governo della città: dal 1006 al 1012 è attestato con il titolo di prefetto un suo cugino Crescenzio, figlio di Benedetto. Non sono noti, ma certamente dovettero essere numerosi, i legami di parentela tra i più alti dignitari del palazzo lateranense e la famiglia egemone. L'uso di coinvolgere nel governo l'intero clan familiare, un sistema che favoriva il controllo capillare delle istituzioni e del territorio, è ben chiarito da Ugo di Farfa che, riferendosi alle vicende della Sabina, sottolinea l'amore nutrito da G. per i suoi congiunti Giovanni e Crescenzio. Certamente con il suo aiuto essi furono in grado di riottenere il controllo dell'intera contea di Sabina, caposaldo del loro potere familiare, che era sfuggita di mano per un breve periodo. Nel 1006 G. dovette essere il primo responsabile di un avvicendamento nel governo della Sabina, che passò dal ramo detto degli "Stefaniani" (rappresentato appunto da Giovanni e Crescenzio) al ramo detto degli "Ottaviani", del quale erano capostipiti la sorella di G., Rogata, e il marito di questa, Ottaviano.

Anche nelle contrastate vicende avvenute nel corso del patriziato di G., la rinuncia all'abbaziato di Farfa da parte di Ugo e la conseguente nomina dell'abate Guido, il ruolo di G. dovette essere notevole, benché quasi sconosciuto. Ugo di Farfa racconta di aver rinunciato spontaneamente alla carica e di essere stato favorevole all'elezione di Guido che fu voluta da Giovanni. Tuttavia, il fatto che Ugo riprendesse il governo nel 1014, con l'arrivo di Enrico II seguito alla morte del patrizio, fa pensare che la questione fosse più complessa. A differenza di Ugo, Guido doveva infatti essere un abate malvisto dal re e vicino alle posizioni di G.: lo dimostra il fatto che, subito dopo la scomparsa di questo, i Crescenzi furono attaccati dal papa in Sabina, ma i monaci farfensi, ancora capeggiati da Guido, si schierarono con loro, provocando lo sdegno del pontefice. La nomina dell'abate Guido, pertanto, andrebbe considerata come una mossa attuata da G. e dal suo congiunto Ranieri rettore di Sabina per insediare un loro alleato e spodestare un avversario.

L'ultima attestazione di G. risale all'11 dic. 1011 (Regesto di Farfa, n. 657). Egli morì in una data compresa tra il 12 maggio 1012 (morte di Sergio IV) e il luglio successivo, quando la sorella Rogata elargì doni all'abbazia di Farfa per la sua anima (ibid., n. 659). Non si ha memoria di un suo matrimonio, né sono ricordati dei figli.

Il giudizio storico su questo personaggio è controverso: sia lui, sia il padre furono tacciati di essere dei despoti che trascinarono il Papato nel punto più basso della sua storia, ma anche dei veri e propri difensori della patria. Gregorovius ne esaltò gli spiriti virili, mentre Bossi lo considerò un uomo debole e Brezzi ne apprezzò le capacità di mediazione. Effettivamente egli dovette essere in grado di coalizzare l'aristocrazia o di tenere a freno l'animosità dei Romani, dal momento che la sua morte ebbe un effetto dirompente: essa scatenò immediatamente la guerra, permise il ritorno del re a Roma, impose sulla scena politica i conti di Tuscolo e fece precipitare le fortune dei Crescenzi.

Fonti e Bibl.: Thietmarus episcopus Merse-burgensis, Chronicon, a cura di R. Holtzmann, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, n.s., IX, Berolini 1935, ad indicem; Il regesto di Farfa compilato da Gregorio da Catino, e pubblicato dalla Società romana di storia patria, a cura di I. Giorgi - U. Balzani, I-V, Roma 1879-88, docc. nn. 471, 504, 616, 618 s., 657, 659; Il regesto sublacense dell'XI secolo, a cura di L. Allodi - G. Levi, Roma 1885, doc. n. 85; Hugo Farfensis, Exceptio relationum, in Il Chronicon Farfense di Gregorio da Catino, a cura di U. Balzani, in Fonti per la storia d'Italia, XXXIII, Roma 1903, pp. 64-67; Id., Quaerimonium…, ibid., pp. 73-77; Gregorius Catinensis, Chronicon, a cura di U. Balzani, ibid., XXXIV, ibid. 1903, pp. 34, 82 s., 88; S. Hirsch, Jahrbücher des deutschen Reichs unter Heinrich II., II, Berlin 1864, pp. 381-385; G. Bossi, I Crescenzi. Contributo alla storia di Roma e dintorni dal 900 al 1012, in Dissertazioni della Pontificia Accademia romana di archeologia, s. 2, XII (1915), pp. 108-125; Id., I Crescenzi di Sabina Stefaniani e Ottaviani (dal 1012 al 1106), in Archivio della Società romana di storia patria, XLI (1918), pp. 111-114; O. Gerstenberg, Studien zur Geschichte des römischen Adels am Ausgang des 10. Jahrhunderts, in Hist. Vierteljahrsschrift, XXXI (1937-39), pp. 1-26; C. Cecchelli, I Crescenzi, i Savelli, i Cenci, Roma 1942, pp. 15-17; P. Brezzi, Roma e l'Impero medievale (774-1252), Bologna 1947, pp. 167, 179, 184-188; F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, II, Torino 1973, pp. 801-806; P. Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du Xe siècle à la fin du XIIe siècle, Rome 1973, pp. 998-1030; C. Romeo, Crescenzio, in Diz. biogr. degli Italiani, XXX, Roma 1984, pp. 657-659; Id., Crescenzio Nomentano, ibid., pp. 661-664.

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