FANTUZZI, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 44 (1994)

FANTUZZI, Giovanni

Giorgio Tamba

Secondo figlio di Fantuzzo e di Antonia Compagnoni, nacque in Bologna nel 1391 o poco dopo. Il padre morì prima dell'aprile del 1393. Il F. crebbe quindi affidato alle cure della madre Antonia ed a quelle del fratello Pietro, molto più anziano di lui.

Sotto il profilo economico, nonostante il padre fosse stato colpito negli ultimi anni della sua vita da un provvedimento di bando quale aderente ad una congiura in favore di Gian Galeazzo Visconti, la situazione del F. e del fratello Pietro era più che solida. Lo zio paterno Giovanni, celebre dottore dello Studio, morendo nel maggio del 1391, li aveva infatti istituiti suoi eredi. Questa successione, unitamente alla fama dello zio e alla precoce scomparsa del padre, possono spiegare perché in alcuni atti, molto tardi, il nome dello zio Giovanni abbia sostituito quello del padre Fantuzzo. I beni dello zio e del padre erano venuti così a confluire in un unico patrimonio, secondo un procedimento che per vari motivi si ripeteva ormai da oltre un secolo nelle vicende di questo ramo della famiglia Fantuzzi. Un ulteriore incremento tale patrimonio lo ebbe nel 1396 con l'eredità di Nicolosa Malapresi, vedova dello zio Giovanni, la cui scomparsa dette inoltre ai due fratelli e alla madre l'intera disponibilità della grande casa nella "cappella" di S. Michele dei Leprosetti.

Il fratello Pietro, su cui ricadeva la maggior responsabilità dell'amministrazione del patrimonio comune, sembra abbia dato l'avvio ad un progressivo disimpegno dagli investimenti terrieri che, ad opera del padre e dello zio, erano giunti a formare una estesa proprietà fondiaria nei Comuni di San Marino e di Santa Maria in Duno. Non è invece chiaro per quali investimenti siano state utilizzate le forti somme ottenute con le vendite. La vita di Pietro ebbe peraltro breve durata. Morì infatti nel 1401, lasciando eredi, in parti eguali, la giovanissima figlia Caterina ed il F., affidati entrambi alla tutela della madre Antonia. A favore del F. veniva così a ricomporsi una larghissima parte dell'antico patrimonio familiare. E fu questo patrimonio, molto consistente, la base che sostenne l'attività e gli ambiziosi disegni politici del Fantuzzi.

Infrangendo una lunga tradizione familiare, il F. si mostrò ben presto attratto più che dagli studi giuridici da un crescente interesse per le lotte di fazione che segnarono profondamente la vita cittadina fino alla metà del sec. XV. Le prime testimonianze che restano della sua vita ne rivelano, infatti, i legami coi Bentivoglio. Significativo è a tale proposito il fatto che nel marzo del 1415, dovendo richiedere un curatore per addivenire ad una vendita, il F. indicasse un membro della famiglia Malvezzi, da sempre legata ai Bentivoglio. Ma ancora più rivelatrice è la circostanza che nel febbraio del 1419 egli sposò Maddalena Sampieri, figlia di Floriano, dottore dello Studio. Ella gli recava in dote non solo 1.000 ducati d'oro, ma uno stretto rapporto di parentela - ne era cugina - con i figli del primo Bentivoglio che aveva raggiunto la signoria su Bologna, Giovanni.

Il nuovo vincolo familiare dovette stringere ancora di più i legami del F. con i Bentivoglio e, in particolare, con il pressoché coetaneo Anton Galeazzo, attorno al quale si erano ben presto raccolti i partigiani della prima fazione bentivolesca. Quando, nel gennaio del 1420, Anton Galeazzo, riprendendo il disegno dei padre, cercò di imporre la propria supremazia sulla città, il F. quasi certamente lo appoggiò. Fu infatti tra coloro che, fallito il tentativo per l'opposizione del papa, accompagnarono Anton Galeazzo nel feudo di Castel Bolognese, ottenuto quale contropartita dell'allontanamento da Bologna.

Nel decennio successivo le testimonianze sull'attività del F. si riducono alla sua proposta di nominare Alberto Bianchetti cappellano di un altare in S. Maria della Mascarella, dedicato a s. Giacomo e sul quale la famiglia Fantuzzi aveva il diritto di patronato (14 luglio 1428). L'atto documenta non solo la presenza del F. in città, ma anche la sua immutata adesione alla fazione dei Bentivoglio: Alberto Bianchetti doveva essere infatti un deciso sostenitore di questo se due anni dopo venne compreso nella lista dei più accesi bentivoleschi, banditi dalla città. Fu peraltro proprio in questa circostanza che il legame del F. con Anton Galeazzo Bentivoglio apparve in tutta evidenza. Nel marzo del 1430 un tentativo dei Bentivoglio di rientrare in città e di riprendervi una posizione di potere venne frustrato dall'opposizione dei Canetoli. In conseguenza i principali fautori dei Bentivoglio, tra i quali il F., vennero banditi, pena la morte.

Se e quando il bando sia stato revocato non si sa. Le cronache attestano la presenza del F. in Bologna nel dicembre del 1435, nel momento più tragico della vicenda di Anton Galeazzo Bentivoglio. Fu infatti uno degli ultimi amici a vederlo vivo, prima che i sicari del governatore pontificio, Daniele da Treviso, lo assalissero a tradimento, uccidendolo. Il governatore pontificio, che aveva già indotto Battista Canetoli e i suoi partigiani a fuggire dalla città, dovette pensare di aver eliminato, con l'uccisione di Anton Galeazzo Bentivoglio e con la cattura avvenuta in Firenze di un altro esponente di spicco delle fazioni cittadine, l'abate Zambeccari, qualunque opposizione interna. A differenza di tante altre circostanze non si ebbero pertanto provvedimenti di bando nei confronti dei fautori dei Bentivoglio o delle altre fazioni. È quindi probabile che il F. non sia stato costretto ad allontanarsi da Bologna in questo periodo, anche se occorre giungere al 1438 per avere testimonianze precise a suo riguardo.

La prima di queste è particolarmente interessante poiché dà un'idea del livello della sua ricchezza. Per le spese del concilio, che Eugenio IV lasciava intendere di voler trasferire in Bologna, il papa aveva imposto una tassa straordinaria del 7,5% sull'ammontare degli affitti percepiti in Bologna. Dagli elenchi redatti per la sua esazione risulta che il F. era uno dei più ricchi proprietari di immobili in città, superato soltanto da pochissime persone e gruppi familiari, tra cui i Canetoli, i Pepoli e i Malvezzi. La seconda testimonianza ci porta invece nuovamente nel vivo delle lotte di fazione. Nel maggio del 1438, con l'aiuto determinante dei partigiani dei Bentivoglio, Niccolò Piccinino si impadroniva della città in nome del duca di Milano Filippo Maria Visconti. Il F. fu tra coloro che agevolarono tale conquista. Nel settembre successivo rientrò in città Annibale Bentivoglio, figlio naturale di Anton Galeazzo. Rientrarono poco dopo anche i Canetoli. Per il predominio sulla città prese così l'avvio un complicato e feroce gioco, con i Bentivoglio ed i Canetoli pronti a disputarsi, spesso con le armi, una supremazia più fittizia che reale, il Piccinino che assumeva volentieri la figura dell'arbitro nell'intento di imporre un suo personale dominio e, sullo sfondo, Filippo Maria Visconti, Eugenio IV e Cosimo de' Medici che cercavano di reggere le fila delle varie contese.

In un primo tempo gli avvenimenti volsero a favore dei Bentivoglio. Sull'onda di queste affermazioni il nome del F. cominciò ad apparire con una certa frequenza nelle varie Balie o gruppi ristretti chiamati a gestire quella parte di potere reale che in una situazione di questo tipo poteva ancora essere propria di organi collegiali cittadini. Nel novembre del 1438 egli fece parte del Collegio dei riformatori dello stato di libertà, composto da dieci membri, cui gli Anziani avevano trasmesso ogni potere loro concesso dal Consiglio dei seicento. Fu ancora tra i Riformatori, eletti questa volta in numero di sedici, nel marzo del 1440. Una delle prime delibere di quest'ultimo Collegio, adottata il 18 marzo, fu l'affidamento dell'ufficio di Tesoreria ad una società di privati. L'atto costituì il segno del ripiegare dell'aristocrazia cittadina su interessi prettamente amministrativi, ma al tempo stesso fu lo strumento che consentì la trasformazione di tale aristocrazia nel ceto senatorio dei secoli XVI-XVIII. Il F., uno dei Riformatori in carica al momento, non entrò in questa società, che vide tuttavia la partecipazione di ben tre membri della famiglia Fantuzzi.

In questo periodo il F. venne più direttamente tentato dal gioco politico, tanto che andò prendendo forma una sua personale posizione, caratterizzata dal raffreddamento dei rapporti con Annibale Bentivoglio e da una adesione abbastanza scoperta alle posizioni di Niccolò Piccinino. Da questo rapporto privilegiato col Piccinino il F. trasse concreti benefici sul piano economico, come quello dell'attribuzione dell'esazione del dazio sulle merci che transitavano nei canali del territorio di Medicina. Ma che vi fossero anche implicazioni più strettamente politiche si manifestò in occasione dell'arresto di Annibale Bentivoglio da parte del figlio del Piccinino, Francesco, il 17 ottobre 1442. Il F. e Romeo Pepoli, con il quale doveva essersi stabilita da qualche tempo una comunanza di disegni e di interessi, accompagnarono Annibale Bentivoglio a San Giovanni in Persiceto, dove avvenne l'arresto. Ad essi quindi Francesco Piccinino volle spiegare i motivi della sua azione rendendoli così propri portavoce di fronte alla città. Su questa stessa linea si colloca, nel dicembre successivo, il diretto, personale intervento del F. perché venisse soddisfatta la richiesta del luogotenente del Piccinino, Cervatto Sicco, di disporre di una maggior quantità di soldati onde prevenire gli attacchi dei bentivoleschi.

Agli inizi di giugno del 1443 Annibale Bentivoglio venne liberato con un colpo di mano da Galeazzo e Tideo Marescotti e, rientrato in Bologna, ne prese il controllo. Non è chiaro se, a questo punto, il F. si sia spontaneamente riavvicinato ad Annibale o se questi abbia ritenuto prudente ed utile coinvolgerlo nel nuovo regime. Di fatto, dopo il ritorno di Annibale, il F. fece parte pressoché costantemente dei più ristretti Collegi direttivi cittadini. Fu dei Dieci di balia, nominati il 13 genn. 1443 ed il 15 dicembre venne inserito in un Collegio di venti membri, incaricati di assegnare gli uffici cittadini. Fu degli Anziani nei primi mesi del 1444, gonfaloniere di Giustizia e membro dei Riformatori dello stato di libertà agli inizi del 1445.

L'uccisione di Annibale Bentivoglio ad opera dei Canetoli il 24 giugno 1445 gettò nuovamente la città in preda alle più sfrenate lotte di fazione. La sconfitta dei Canetoli non dette tuttavia ai partigiani dei Bentivoglio, guidati da un gruppo ristretto del quale faceva parte il F., la sicurezza di riuscire a mantenersi al potere contro le opposte mire di Filippo Maria Visconti e di Eugenio IV. Essi avevano bisogno di un nuovo Bentivoglio e lo trovarono in Sante, supposto figlio naturale del fratello di Annibale, Ercole, che viveva a Firenze. Nel novembre del 1446 Sante entrò in Bologna. Venne creato un nuovo Collegio dei riformatori, cui furono attribuiti i pieni poteri. Tra i suoi componenti vi furono il F. e Romeo Pepoli. Anche negli anni seguenti essi fecero parte di quel ristretto gruppo che con Sante Bentivoglio resse la città; ma nel 1449 in questo gruppo si produsse una frattura.

La decisione e la capacità politica stavano trasformando il primato nominale di Sante in una vera signoria. Ciò andava ben oltre gli intendimenti di coloro che ne avevano provocato l'ingresso in Bologna. Nel maggio il F. e Romeo Pepoli decisero di passare all'azione. Usciti dalla città con il pretesto di sfuggire un'epidemia, che in realtà vi stava mietendo numerose vittime, si radunarono a Castel San Pietro con l'intento di impadronirsene e quindi, giovandosi dell'aiuto di truppe aragonesi e degli altri vecchi fuorusciti, di riconquistare la città in nome del papa.

Il progetto riuscì solo in parte. Il F. e il Pepoli, ai quali si erano uniti i familiari e non pochi amici, poterono impadronirsi di Castel San Pietro e fortificarvisi, ma il tentativo di penetrare in città fallì per la scoperta del piccolo gruppo che, dall'interno, doveva aprire le porte ai fuorusciti. Per più di un anno essi tennero Castel San Pietro. Alle richieste delle autorità bolognesi, ispirate da Sante, di cedere il castello e alle minacce di un assalto da parte di Astorre Manfredi, assoldato da Bologna, essi replicarono proclamando la propria fedeltà alla Chiesa, nella convinzione che il papa avrebbe sostenuto la loro azione. Ma Niccolò V, ritenendo probabilmente troppo forte la posizione di Sante in Bologna, non accettò di appoggiarli.

Il 19 marzo 1450 il cardinale Bessarione, appena entrato in Bologna, faceva avvertire gli occupanti di Castel San Pietro che, per espressa disposizione del papa, essi dovevano consegnare il castello ed abbandonare il territorio bolognese. Il F., rendendosi conto del definitivo fallimento del proprio tentativo, cedette e si ritirò nel territorio di Imola. A differenza dei suoi tre figli, che ne avevano condiviso l'azione, sembra che da questo momento egli non abbia più preso parte ai vari tentativi dei fuorusciti di rientrare con la forza in Bologna. Una cronaca parla di un accordo tentato dal F. nel 1453 con gli abitanti di Medicina - ove, come si sa, egli aveva interessi economici - in funzione antibentivolesca. Ma questo tentativo, se mai vi fu (del che è lecito dubitare), non ebbe alcun effetto.

Il provvedimento di bando, da cui il F. era stato colpito fin dall'agosto del 1449, non venne mai revocato ed egli trascorse il resto della sua vita lontano da Bologna, quasi sempre a Massa Lombarda (od. prov. Ravenna). Da qui rilasciò nel 1453 alla moglie una procura per regolare i suoi affari in Bologna e qui morì nel febbraio del 1460.

Nel testamento, redatto pochi giorni prima della morte, aveva espresso il desiderio di essere sepolto nell'arca di famiglia nella chiesa di S. Giacomo a Bologna. Aveva stabilito alcuni legati a favore delle due figlie, Elena e Minocia, e di un certo Battista Scandellari che lo aveva seguito e curato negli anni dell'esilio. Aveva infine designato eredi i tre figli, Giacomo, Pietro e Antonio, ma aveva imposto loro di non cedere mai la grande casa nella "cappella" di S. Michele dei Leprosetti: un modo, forse, per ancorare a qualcosa di solido e di tangibile la speranza di un ritorno della famiglia a Bologna.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Bologna, Archivio Fantuzzi-Ceretoli, b. 6, docc. 21 s.; bb. II, LL, MM; S. Trinità, b. 1/3612, docc. 35, 50; Comune, Ufficio dei Provvisori, serie pergam., b. 57, reg. di Giovanni Maroni, 5 febbr. e 14 apr. 1398 e b. 58, reg. di Giovanni Castagnoli, 2 mag. 1401; Ufficio dei Provvisori, serie cart., reg. 587, 12 apr. 1393; reg. 592, 13 ott. 1395; reg. 596, 30 ott. 1396; reg. 685, 8 febbr. 1419; reg. 778, 9 febbr. 1442; reg. 821, 5 dic. 1450; Governo, Liber Fantini, cc. 197 s.; Lettere al Comune, b. 1, docc. 67, 72; Instrumenti diversi, b. 2, doc. 28; Estimi, serie I, vol. 9, c. 322; vol. 12, c. 95 v; vol. 14, c. 31; Notarile, Rolando Castellani, reg. 17, cc. 50-52v; Corpus chronicorum Bononiensium, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XVIII, 1, t. IV, a cura di A. Sorbelli, ad Indicem; G. Nadi, Diario bolognese, a cura di C. Ricci - A. Bacchi della Lega, Bologna 1886, pp. 10, 16; C. Ghirardacci, Della historia di Bologna, II, Bologna 1669, pp. 653-678; Id., Della historia di Bologna, parte terza, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XXX, 1, a cura di A. Sorbelli, ad Indicem; P. S. Dolfi, Cronologia delle famiglie nobili di Bologna, Bologna, 1670, p. 300; M. Longhi, Nicolò Piccinino in Bologna (1438-43), in Atti e mem. della Deputaz. di storia patria per le prov. di Romagna, s. 3, XXIV (1906), pp. 145-238, 461-507; XXV (1907), pp. 109-162, 273-377 passim; G. Orlandelli, Note di storia economica sulla signoria dei Bentivoglio, in Atti e mem. della Deputaz. di storia patria per le prov. di Romagna, n.s., III (1953), 1, pp. 253-273 passim; C. M. Ady, I Bentivoglio, a cura di L. Chiappini, Milano 1967, p. 52; A. Sorbelli, I Bentivoglio signori di Bologna, a cura di M. Bacci, Bologna 1969, pp. 27-53.

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