DORIA, Giovanni Gerolamo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 41 (1992)

DORIA, Giovanni Gerolamo

Carlo Bitossi

Figlio di Stefano di Gian Domenico di Stefano e di Brigida Doria di Stefano di Lazzaro, nacque ad Oneglia il 21 nov. 1523.

Apparteneva al ramo onegliese della casata: a quello, per precisione, che aveva acquistato a fine Quattrocento i diritti sulla signoria dell'Onegliese dai familiari del più celebre Andrea Doria, ricostituendo un possedimento diviso in molti "carati". E nonostante il titolo altisonante di principato si trattava di un feudo periferico, trampolino di lancio per carriere militari che valessero a consolidare la fortuna personale. Non a caso primo principe era stato il nonno Gian Domenico (soprannominato Domenicaccio), condottiero di ventura avvantaggiatosi dall'aver servito papa Innocenzo VIII (un Cibo: genovese, o meglio ligure del Ponente) come comandante delle guardie dei palazzo pontificio: un incarico che gli servi per procacciare impiego a parenti più giovani, come Andrea Doria. Ma, nonostante le affinità di origine, nel giro di un secolo le due branche esemplificarono i destini alternativi della feudalità ligure dell'estremo Ponente.Testando il 9 dic. 1537 (poco prima di morire, se è esatta la notizia che scomparve nel 1537; un'altra fonte lo dà morto nel 1548) il padre Stefano provvide a istituire erede universale il D., maschio primogenito: "eius intentio semper fuit et est firmissima quod primogenitus succedat in signoria ne accideret quod per divisionem predicte valles [le due valli, la superiore e l'inferiore, di Oneglia] ad nihilum vel ad paucum reducerentur". In quel momento la moglie Brigida era incinta di Stefano, nato l'anno seguente; venivano citate nel testamento anche le figlie Peretta, Anna, Catetta e Barbara (o Elisabetta, secondo altra fonte); gli alberi recano inoltre notizia di un altro figlio (illegittimo?), Domenico, già morto nel 1570. Il testamento affidava la tutela del minore e del nascituro alla madre e a un gruppo di parenti del clan Doria, Sebastiano di Opizzino, Geronimo di Geronimo, Domenico di Stefano.

I rapporti tra i due fratelli non dovettero essere del tutto tranquilli, ritenendosi Stefano danneggiato dalle ultime volontà del padre e dalla circostanza che la madre era morta intestata. Egli rivendicò quindi la legittima, minacciando di iniziare una causa legale. I parenti si intromisero per scongiurare l'eventualità; e il 3 nov. 1559, a Genova, i due fratelli stipularono davanti a Giobatta Gabbo, vicario del podestà., una transazione convalidata tre giorni dopo dal magistrato degli Straordinari (un tribunale, composto da patrizi, abilitato a discutere cause civili). In omaggio alla volontà del padre, Stefano rinunciava ad ogni diritto sulla signoria contro 6.300 scudi d'oro dei sole, da versare entro sette anni, corrispondendo nel frattempo a titolo di interesse 300 scudi d'oro di stampa d'Italia all'anno, in rate semestrali (tra i testimoni della transazione figura il pittore Ottavio Semino). Non è tuttavia certo che il D. rispettasse i patti; nel 1576, al momento della vendita di Oneglia ai Savoia, un agente della Repubblica affermò che Stefano aveva inteso rivedere l'accordo e che solo la morte prematura gli aveva impedito di farlo; la vedova Apollonia Grimaldi di Nizza, che viveva a Zuccarello col figlio Carlo, vantava nei confronti del D. un credito di 12-14.000 scudi.

L'atto che apparentemente componeva le "differenze" tra il D. e Stefano venne stipulato nella casa di Cristoforo De Fornari di Bartolomeo che, se già non lo era, sarebbe diventato cognato dei due fratelli, sposandone la sorella Anna (gli alberi chiamano erroneamente questo personaggio Cristoforo De Ferrari: ma i documenti non lasciano dubbi in proposito); fu l'unico matrimonio genovese delle sorelle del D.: Peretta sposò infatti Filiberto Del Carretto, marchese di Zuccarello, altro esponente della feudalità ponentina; Catetta il conte Pensa di Cigliè; Elisabetta il marchese Faletti: questi ultimi di nobiltà piemontese. Il D. dal canto suo sposò Ippolita Doria di Agostino di Giobatta, dalla quale gli nacquero: Stefano, battezzato il 16 ott. 1560; Domenico, nato nel 1558 e morto l'anno seguente; Alessandro, battezzato l'11 maggio 1562; Imperiale, nato nel 1563 e morto nel 1635; forse un Innocenzo; Diana, che andò in sposa al conte Salomone di Serravalle; ebbe anche due figli naturali, Flaminio e Fabrizio.

I rapporti tra i principi di Oneglia e i loro sudditi non erano mai stati facili. Domenicaccio Doria era stato ucciso nel 1505. Quanto a Stefano Doria, il 30 luglio 1537 aveva emanato un proclama che vietava, sotto pena di forte ammenda, di fare "conventicule, né qualunque coniuratione ne conspiratione". I sudditi rivendicavano di non essere tenuti al pagamento del focatico (che era stato accettato da un certo numero di capifamiglia al momento dell'investitura delle valli a Domenico Doria, e che il successore aveva esteso a tutta la popolazione) e lamentavano la cattiva amministrazione della giustizia da parte del principe, tenuto a mantenere ad Oneglia un podestà, assistito da un vicario nella valle superiore. La controversia si trascinò nei decenni seguenti.

In un memoriale dell'agosto 1572 gli "huomini della valle d'Oneglia" si dichiaravano "molto gravati ... in molti modi" dal D.: "perciò che egli prima non si cura di osservare i loro statuti, i quali però ha promesso di osservare nelli instrumenti della fedeltà a lui prestati; ançi fuori d'ogni lor forma impone et fa pagare pene eccessive, e gravi, e fa decreti e cride direttamente contra di essi statuti, et non lascia che la giustitia secondo i patti e conventioni sia administrata per il podestà, et spedisce le cause massime criminali senza ordine di giuditio, et condanna chi le piace nel bando, et altre pene d'importanza senza processo". 1 sudditi ricorrevano perciò al governatore di Milano, come rappresentante del successore del duca di Milano, al quale secondo gli instrumenti di fedeltà era ammesso il ricorso "se qualche forza, ingiuria od ingiustizia fosse tentata o fatta a gli huomini di detta valle". Il D. ribatteva, in un contromemoriale, che la valle d'Oneglia era stata acquistata dai suoi antenati dalla Chiesa nel 1295; che secondo l'investitura sforzesca del 1468 il duca di Milano non doveva intromettersi tra fi sìgnore di Oneglia e i suoi sudditi; che glì Onegliesi si erano dimostrati sempre riottosì, uccidendo il nonno del D. e rendendo difficile la vita al padre.

Il governatore di Milano nell'agosto 1574 convocò davanti a sé tanto i rappresentanti delle Comunità (che avevano nel frattempo costruito a proprie spese un carcere fuori del castello, per impedire l'estradizione o la reclusione in segreta dei prigionieri) quanto il signore. In un nuovo memoriale del 1575, che i notai della valle rifiutarono di ficevere e convalidare, i "padri del comune, sindici et uficiali et altri particulari" dell'Onegliese lamentarono che il D. fosse assente da dieci mesi dalle sue terre senza aver provveduto all'amministrazione della giustizia, e che il castello signorile fosse un ricettacolo di bravi protetti dal podestà in carica. Nel settembre di quell'anno la causa era stata ormai trasmessa dal governatore di Mìlano al re di Spagna, del quale occorreva attendere la risposta. I rappresentanti delle Comunità si rallegrarono, come se il governatore avesse dato loro ragione. In quel frattempo, però, il D. verosimilmente stava già meditando la cessione del feudo.

Manca la contabilità del feudo di Oneglia; ma in esso avevano conservato interessi alcuni parenti Doria abitanti a Genova, come Giorgio Doria, del quale si conoscono ripetuti sollecitì di pagamento di somme a lui dovute. E dal seguito degli eventi risulta chiaro che il D. non riteneva un buon affare conservare il riottoso dominio voluto dall'avo.

Nel 1575 Genova fu teatro dell'ultima delle sue guerre civili: i nobili "vecchi", tra i quali i Doria, esularono momentaneamente dalla città, dove i nobili "nuovi" (le famiglie già populares incluse nella nobiltà con le leggi del 1528, ma danneggiate politicamente dalla riforma del 1547, il "garibetto", voluta dagli oligarchi dopo la congiura dei Fieschi) si erano alleati al popolo grasso e agli artigiani per ottenere, tra l'altro, l'abolizione del "garibetto". Per far fronte alle necessità della guerra i "vecchi" si autotassarono: nell'apposito elenco stilato nel gennaio 1576 al D. era attribuito l'imponibile di 20.000 scudi (per un confronto: Stefano Doria di Dolceacqua era valutato 70.000 scudi; Giovanni Andrea Doria 200.000): è questa la sola stima della sua fortuna che possediamo, e attesta una posizione di riguardo, anche se non di primissimo piano, nella nobiltà genovese. Nel marzo 1576 la situazìone politica cittadina tornò alla normalità, con la promulgazione delle Leges novac di Casale, destinate a fissare l'intelaiatura istituzionale della Repubblica sino alla sua caduta. Ma i governanti genovesi, pur interessati a stabilire la continuità territoriale del dominio nel Ponente, dove esistevano varie enclaves feudali, e dove le Comunità rivierasche più che suddite si consideravano "convenzionate", avendo patteggiato la loro sottomissione a Genova in cambio del rispetto degli statuti, non poterono o non vollero concludere rapidamente la trattativa: il prezzo chiesto dal D. sembrava eccessivo; e per molti mesi i problemi interni della Repubblica assorbirono le attenzìonì del Senato. Dal canto suo Emanuele Fìliberto, che già possedeva le dipendenze nell'Onegliese (Maro, Prelà e Montegrosso) della contea di Tenda acquistata dalla contessa Renata, contava di costituire nel Ponente ligure, con l'incorporazione di Oneglia e di altri feudi minori, una forte enelave suscettibile in seguito di ulteriori ingrandimenti.

Per parte del duca trattarono col D. Andrea Provana di Leinì, generale delle galee sabaude, il vicario del duca nel Maro, Lazzaro Baratta, e Stefano Doria di Dolceacqua, esponente di un altro ramo feudale ponentino dei Doria e veterano delle guerre di Corsica degli anni '60. Da una lettera di quest'ultimo al duca risulta che il 29 nov. 1575 il D. era gìà stato sondato; nel febbraio fu il Provana di Leini a recarsi a Dolceacqua; e le trattative proseguirono poi segretamente a Oneglia e al Maro, dove lo stesso Emanuele Filiberto pensò per un momento di incontrare i due Doria.

Il 21 aprile il D. consegnava i castelli di Oneglia e Bestagno a Stefano Doria come rappresentante del duca, contro deposito di 10.000 scudi di anticipo. Quattro giorni dopo i Collegi proponevano al Minor Consiglio della Repubblica di autorizzare l'acquisto di Oneglia, esprimendo preoccupazione per una trattativa che il duca di Savoia conduceva senza badare a spese, visto che il prezzo pattuito superava il valore (1.000 scudi annui) del feudo.

Non senza umorismo Emanuele Filiberto scrisse da Nizza il 26 aprile alla Signoria giustificando l'acquisto anche per "poter pigliare talvolta qualche diporto et passatempo in questa aria maritima senza havere da passare per montagne aspere come queste del contado di Nizza". E proprio a Nizza il 30 aprile venne rogato l'atto di permuta, che il D. motivò con le "molte spese che gli conveneva fare in liti con li suoi sudditi", i "molti debiti, che per tal conto haveva fatti, et altri maggiori conosceva dover fare, quando non vendesse la predetta signoria, et ritardasse il pagamento a suoi creditori", le "spese straordinarie della fortezza et luoghi, oltra l'ordinarie che è forzato fare, per mantenersi in quel stato et grado che è dovuto alla qualità sua, et de suoi predecessori, massime trovandosi carico di buon numero di figliolanza".

Il 4 maggio 1576 Negrone Di Negro, inviato di Emanuele Filiberto a Genova, ebbe udienza dal doge e dai "Due di casa" (i senatori che a turno affiancavano il doge in tutte le sue funzioni pubbliche) per comunicare l'acquisto di Oneglia: "da poi che'l negotio restava fornito doveano pigliarlo in buona parte, et accettare la buona mente" del duca. Il 28 maggio, ancora a Nizza, fu conclusa la permuta: in cambio di Oneglia il D. ottenne 41.000 scudi d'oro d'Italia in contanti (10.000 dei quali già anticipati) e l'investitura, con primogenitura per maschi e femmine, del marchesato di Ciriè "e terre di sua castellata" (San Maurizio, Nole, Robassomero), della contea di Cavallermaggiore e della signoria di Murazzano, che assicuravano una rendita annua superiore ai 1.500 scudi previsti inizialmente dall'instrumento. Il D. si era inoltre riservato "un giardino al Pontedassio e un terreno al Bestagno", e la suprema signoria su Testico e Cesio nell'Onegliese. Era stata prevista una commenda per uno dei figli del D., che dovette rinunciarvi perché il reddito delle terre investite superava 11.500 scudi; ma nel 1590, al momento della successiva permuta, il D. ottenne la commenda di Ripaglia per il secondogenito Alessandro.

La Repubblica di Genova cercò di correre ai ripari, inviando Nicolò Spinola come ambasciatore all'imperatore (che era stato nel frattempo sollecitato anche da Emanuele Filiberto) e Giambattista Senarega al duca di Savoia, e appellandosi al re di Spagna anche per tramite di Giovanni Andrea Doria. In un memoriale indirizzato a quest'ultimo il governo genovese ricapitolava le sue ragioni: Oneglia era stata convenzionata con Genova prima che i Doria la acquistassero dal vescovo di Albenga, e comunque il D. doveva chiedere licenza al re di Spagna come erede dei duchi di Milano; l'alienazione in un principe straniero era nulla perché fatta senza licenza della Repubblica, tanto più vista la condizione di cittadino genovese del D.; altri Doria avevano parte nella giurisdizione di Oneglia e diritto di prelazione sul feudo; infine, e soprattutto, "non è conveniente né pare ragionevole per ragion di stato che un prencipe acquisti stato nel mezo del dominio di un altro, poscia che queste cose sogliono spesse volte apportare disgusti et inconvenienti, et prencipi tanto congionti come è la Republica et Sua altezza devono più presto favorirsi l'un l'altro per reintegrare li stati". Inutilmente. Oneglia avrebbe da allora seguito le vicende dello Stato sabaudo, che del resto da allora in poi non avrebbe più cessato di premere per espandersi nel Ponente ligure.

Il D., punito dalla Repubblica con un'inefficace condanna al bando e alla confisca dei beni, dovette tuttavia mutare di lì a qualche anno una parte dei suoi titoli. La Comunità di Cavallermaggiore rivendicò un antico privilegio ad essere infeudata soltanto a principi di casa Savoia; perciò il 9 genn. 1590 il D. ricevette in cambio di Cavallermaggiore il marchesato del Maro, nell'Onegliese, con le terre annesse (Prelà e altre). Primo scudiere e gentiluomo ordinario di Camera di Carlo Emanuele I, il D. fu creato dallo stesso gran maestro di guardaroba. Dovette morire negli anni '90 del Cinquecento.

Il figlio Stefano sposò Cristiana de Silliers, dei baroni imperiali di Liechtenberg; ma la discendenza si inseri pienamente nella nobiltà subalpina. Il nipote partecipò alla guerra sabauda del 1625, da fedele vassallo di Carlo Emanuele I; e la Repubblica fece' occupare il suo feudo del Maro. I figli del D., e ancora il nipote Giovan Francesco (quest'ultimo nel 1630), furono tuttavia ascritti al Libro d'oro del patriziato genovese. L'ultimo dei Doria di Ciriè fu ferito mortalmente il 4 nov. 1918, poche ore prima dell'armistizio che poneva fine alle ostilità sul fronte italiano.

Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Genova, Archivio segreto 15, 2791; Ibid., Manoscritti, 437, 493; Ibid., Manoscritti Biblioteca, Legum VII; Genova, Collezione privata, Albero genealogico della famiglia Doria; Archivio di Stato di Torino, Casa Reale. Registri delle lettere della corte, prot. 236, ff.218, 228, 230 s., 237, 252 s.; prot. 242, ff. 1, 16; Ibid., Materie politiche, Lettere ministri (Genova), mazzo 1; Materie politiche, Lettere di particolari (D), 22, 23; Principato di Oneglia, mazzo 4; Patenti controllo finanze, reg. 1576in '77, ff. 15, 24, 70; Sezioni Riunite, Arch. Doria di Ciriè: si tratta di 254cartelle (nell'elenco di consistenza ne risultano circa 300, un certo numero delle quali mancano) che documentano le vicende patrimoniali e genealogiche della famiglia; particolarmente utili le cartelle 44, 50, 192, 241, 279, 281; Roma, Bìbl. d. Ist. d. Enc. Ital.: A. Manno, Il patriziato subalpino [datt.], XVIII, pp. 87 s. (s. v. Oria, d'); F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova del secolo decimosesto, IV, Genova 1800, p. 98; N. Battilana, Genealogie delle famiglie genovesi, Genova 1828- 1833, Alberi Doria, tav. 8; C. Varese, Storia della Repubblica di Genova..., VI, Genova 1843, p. 175; F. Guasco, Diz. feudale degli antichi Stati sardi e della Lombardia, Pinerolo 1911, I, p. 498; II, pp. 64, 441; III, p. 118; F. Poggi, Le guerre civilidiGenova in relazione con un documento economico-finanziario dell'anno 1576, in Atti della Soc. ligure di storia patria, LIV (1926), 3, p. 123; A. Segre, Riacquisto e ingrandimento dei dominii, in Emanuele Filiberto. IV centenario di Emanuele Filiberto e X anniversario della vittoria, Torino 1928, p. 105; A. Bonino, Cavallermaggiore sotto il ducato di Emanuele Filiberto, in Lo Stato sabaudo al tempo di Emanuele Filiberto, Torino 1928, pp. 103-122; G. Guelfi Camajani, Il Liber nobilitatis Genuensis, Firenze 1965, pp. 159-162; A. Mela, La valle del Maro. Paesi e famiglie nel Sei e Settecento, Francavilla al Mare 1972, pp. 30; G. Molle, Oneglia nella storia, Milano 1972, I, pp. 217, 231-240; E. Genta, Vicende feudali di Cavallermaggiore dal secolo XIV, in Boll. della Soc. di studi storici, arch. e art. della provincia di Cuneo, LXXIII (1975), 2, pp. 37-41; G. Giacchero, Il Seicento e le compere di S. Giorgio, Genova 1979, p. 98; E. Genta, IDoria di Ciriè, in La storia dei Genovesi. Atti del Convegno di studi sui ceti dirigenti nelle istituzioni della Repubblica di Genova, Genova 1985, pp. 305-317.

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