MORA, Giovanni Giacomo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 76 (2012)

MORA, Giovanni Giacomo

Ermanno Paccagnini

MORA, Giovanni Giacomo. – Non si conosce la data di nascita di questo barbiere milanese figlio di Cesare, che uscì dall’anonimato, bruscamente, mercoledì 26 giugno 1630 allorché il commissario di sanità Guglielmo Piazza, dopo aver resistito a più interrogatori con tanto di torture del canapo prima e dell’eculeo poi, «estragiudicialmente» (Processo agli untori, 1988, p. 198) fece il nome di Mora quale «fabricatore degl’unguenti» (ibid., p. 198).

Piazza era stato arrestato il 22 giugno come sospetto untore, in seguito alla denuncia di due donne che avevano dichiarato di averlo riconosciuto ungere alcune case della Vedra de’ Cittadini nelle ore antelucane del 21 giugno. Di persona Mora entrò dunque in scena quello stesso 26 giugno, quando gli inquirenti si recarono nella sua «barbaria, qual è su l’altro cantone della detta strada della Vedra de’ Cittadini verso il Carobbio» (ibid., p. 184), in Milano, per effettuare una minuziosa perquisizione. A tale perquisizione seguirono: le perizie fatte sostenere da lavandaie e fisici sulla pericolosità del ranno e la composizione dello ‘smoglio’ utilizzato dalla moglie di lui, Clara Brippia (figlia di Giovanni Giacomo Brippia); l’arresto di uno stralunato Mora e di suo figlio Paolo Gerolamo; l’interrogatorio di quest’ultimo e della madre e, soprattutto, di Giovanni Giacomo. Sono proprio gli interrogatori a fornire gli sparuti riferimenti biografici sulla famiglia Mora: residente in una casa fatta di tre locali («la bottega, una camera di sopra, una canepa», ibid., p. 207) e un cortiletto, nella quale Giovanni Giacomo abitava con la moglie, il figlio e una figlia piccola, allora malata, per la quale egli dichiarò di avere appunto preparato l’unguento medicinale. Di una composizione familiare più ampia dà invece conto Pietro Verri in una nota alle Osservazioni sulla tortura, sulla base dei Libri parrocchiali di S. Lorenzo, in cui «si vedono battezzate quattro figlie di Messer Gio. Giacomo Mora e di Clara»: il 31 gennaio 1616 Anna; il 29 gennaio 1618 Clara Valeria; il 12 gennaio 1623 Teresa, il 5 giugno 1624 un’altra Teresa «onde è verosimile che l’antecedente fosse morta» (Verri, 1993, p. 52).

Quanto a Mora dichiarò: «Io ho nome Gio. Giacomo Mora, mio padre aveva nome Cesare, ed è morto, e sono milanese nato in quella casa, dove sono stato tolto» (Processo agli untori, 1988, p. 204). E aggiunse: «son nato barbiero, e son figliolo d’un barbiero» e «ho fatto ancora il tessitore» (ibid., p. 228), particolare, quest’ultimo, di tessitore di seta, cui fece cenno anche il delatore Cesare Regna in una lettera nella quale disse anche che lavorava per i francesi, intendendo così aggravare la sua posizione, a supporto della circolante teoria che le unzioni fossero un complotto ordito dai francesi. In un successivo interrogatorio di un altro testimone, ci fu pure chi ricordò che «andava ad insegnare la dottrina cristiana» (ibid., p. 454).

Sono le date dei verbali a scandire gli ultimi giorni di Mora e del suo accusatore Piazza, che indicò in Mora colui che, due giorni prima delle unzioni ritrovate, gli avrebbe consegnato il «vasetto dell’onto» (ibid., p. 217) per ungere le muraglie, dietro promessa d’un compenso. Un calvario, quello dei due presunti untori, fatto di interrogatori spesso accompagnati da tortura: 14 furono alla fine quelli subiti da Mora, alcuni persino dopo l’emissione della sentenza di morte e almeno due drammatici confronti con Piazza – tra reciproche accuse (Piazza) e difese (Mora) – il primo dei quali proprio il 27 giugno. Dai verbali emerge una situazione di impotenza: le confessioni furono estorte sotto l’effetto delle torture e provocarono dinieghi non appena queste cessarono, gli interrogatori si susseguirono ora in modo ravvicinato, anche con due sedute in un giorno, ora più diluiti, inframmezzati da pause durante le quali vennero concessi ai due imputati alcuni giorni per la preparazione delle difese, dopo essere stati messi a conoscenza di quanto emerso dagli atti processuali a loro carico. Nel caso di Mora, però, il notaio criminale Mauro, nominato il 2 luglio quale suo difensore, rifiutò preventivamente il patrocinio, pur accettando di andare comunque a sentire l’imputato, riferendo poi quanto gli aveva detto, ossia «che non ha fallato, e che quello l’ha detto per i tormenti» (ibid., p. 246). Fu solo il 21 luglio che, datogli nuovamente copia degli atti processuali, Mora riuscì a nominare quali difensori «il signor Galeazzo Dotto con li prottettori de’ carcerati» (ibid., p. 308). A quella data però le confessioni e le delazioni avevano portato in carcere tutto un gruppo.

Già prima di Mora, il 25 giugno, era stato arrestato Gaspare Migliavacca, di professione arrotino; il 26 giugno lo raggiunse in carcere suo padre Gerolamo; il 27 giugno Pietro Girolamo Bertoni; il 2 luglio si presentò spontaneamente Giovanni Stefano Baruello; l’8 luglio toccò a Giacinto Maganza. Infine l’immagine del complotto prese corpo nella figura d’un nobile spagnolo, identificato nel ventottenne don Giovanni Gaetano de Padilla, figlio del Castellano di Milano don Francesco de Padilla, terza autorità spagnola dello Stato, contro il quale – sentito prima a Casale il governatore Ambrogio Spinola – il 15 luglio venne emesso un ordine di arresto, eseguito il 25. La cerchia poi si allargò col riferimento ai presunti finanziatori, identificati nei banchieri e loro aiutanti Giovanni Battista Sanguinetti, Gerolamo Turconi, Benedetto Lucino, Giovanni Battista Cinquevie.

Nei confronti di Mora e Piazza la giustizia procedette celermente: il 26 luglio fu loro comunicata la sentenza emessa dal Senato. Promulgata il 27 luglio e procrastinata di giorno in giorno, fu eseguita finalmente giovedì 1° agosto 1630 nei modi previsti.

La sentenza di morte di Piazza e Mora prevedeva che «questi vengano tormentati anche mediante legatura del canape ad arbitrio del presidente intorno agli altri punti e ai complici; avuti per ripetuti e confrontati, collocati sopra un carro, siano condotti al solito posto del patibolo; per via siano morsi con tenaglie infuocate nei luoghi dove peccarono; ad entrambi si tagli la mano destra davanti la barbieria del Mora; spezzate le ossa secondo il costume, (siano messi sulla ruota) e la ruota si levi in alto e si intreccino vivi in quella; dopo sei ore siano strozzati e subito i loro cadaveri siano bruciati e le ceneri gettate nel fiume. La casa del Mora sia rasa al suolo e sulla sua area si alzi una colonna che si chiami infame con un’iscrizione del fatto e a nessuno più in perpetuo sia concesso di rifabbricarla. […]; i beni del Mora e del Piazza si confischino. Nel tradurli al patibolo si tenga questa forma: precedano due banditori che annuncino al popolo la causa della loro condanna e del loro supplizio. Vi sia bastante scorta, affinché non avvenga tumulto nel popolo, e perciò si chiudano le case dei sospetti e si proclami che ciascuno stia in casa e si guardi. Il luogo dove si avrà a far giustizia sia cinto di steccati di legno, i quali, per evitare che piano infetti con quell’unguento pestifero, siano custoditi da uomini idonei e a quel luogo si faccia un coperchio, in modo che i frati possano assistere con minor incomodo ai morituri. E di tutto si dia avviso al vicario di giustizia» (ibid. p. 317). A nulla valsero le proteste di innocenza ripetutamente pronunciate dai due presunti untori, come attestano, nelle Defensiones approntate dagli avvocati di don Giovanni de Padilla, le numerose testimonianze di addetti alle carceri e degli scolari di S. Giovanni alle Case Rotte (la compagnia della Buona Morte), in un caso anche orecchiando di nascosto quanto essi avevano confessato ai due padri cappuccini. Proclamazioni d’innocenza che, il giorno precedente l’esecuzione, Mora e Piazza consegnarono anche a una dichiarazione scritta, pressoché analoga. Mora affermò quanto segue: «In nomine Iesu il 31 luglio 1630. Io Giacomo Mora barbiero, mi protesto, che essendo condannato a morte, e perché io non voglio, et protesto di non partirmi da questo mondo con carico della mia conscienza, e perciò con la presente scrittura, e protesta mi dechiaro, et dico sopra la mia conscienza, che tutti quelli, li quali sono statti nel proceso incolpati da me, […] li ho incolpati al torto, et questo in quanto a me, et questo lo protesto avanti li padri capucini, et altri assistenti alla cura dell’anima mia» (Defensiones, 1633, pp. 417 s.; Processo agli untori, 1988, p. 569). Alla morte seguì l’immediato abbattimento della casa di Mora (con vertenza di risarcimento ancora aperta nel 1778), sulle cui rovine fu innalzata una colonna infame (abbattuta di nascosto la notte del 24-25 agosto 1778), con iscrizione muraria oggi conservata al Castello Sforzesco descrittiva del reato commesso, il cui testo fu ripreso in un foglietto volante di quattro facciate intitolato Sentenza data a Guglielmo Piazza e Gio. Giacomo Mora quali con onto pestifero hanno appestato la città di Milano l’anno 1630, che porta quali riferimenti «Firenze-Napoli-Bologna, 1631».

Quanto agli altri coimputati, fu un succedersi di esecuzioni per Maganza (5 agosto), i due Migliavacca (21 agosto il padre, 23 dicembre il figlio), Bertoni (23 dicembre), mentre Baruello, pur condannato alla pena capitale, morì in carcere per peste (18 settembre). Altra la sorte dei banchieri coinvolti, tutti quanti prosciolti il 28 giugno 1633 nella sentenza che dichiarò «innocente di questo delitto» (ibid. p. 98) Padilla; il quale avrebbe comunque a sua volta conosciuto una fine tragica qualche anno dopo, nel 1648, lasciandosi morire di fame dopo esser stato coinvolto e condannato per partecipazione a una congiura contro Filippo IV re di Spagna insieme al fratello don Carlos e a don Pietro de Silva, decapitati per questo a Madrid.

Il processo lasciò però diverse questioni aperte: la correttezza procedurale (tale per Cordero, al contrario di Manzoni); la contrapposizione tra innocentisti (Manzoni) e colpevolisti (Niccolini); la realtà delle unzioni (o non piuttosto uno scherzo di cattivo gusto che la psicosi indotta dall’alta mortalità tradusse in crimine e complotto); l’efficacia o meno delle stesse; il ruolo stesso dei monatti quali reali «untori».

Fonti e Bibl.: Processus contra nonnullos reos de unctionibus pestiferis in hac civitate Mediolani [1633] (riedito da C. Cantù con una Introduzione e un Esito col titolo Processo originale degli untori nella peste del MDCXXX, Milano 1839); Defensiones don Ioannis de Padilla, equitis Sancti Iacobi a Spata, ducis equitis pro S.M. in Dominio Mediolani [Milano 1633]; A. Lampugnano, La pestilenza seguita in Milano l’anno 1630, Milano 1634 (ora a cura di E. Paccagnini, Milano 2002); G. Ripamonti, De peste quae fuit anno MDCXXX libri quinque, Milano 1641 (ora a cura di C. Repossi, premessa di A. Stella, Milano 2009); A. Tadino, Raguaglio dell’origine et giornali successi della gran peste contagiosa, venefica, et malefica seguita nella città di Milano, et suo Ducato dall’anno 1629 sino all’anno 1632, Milano 1648; F. Borromeo, La peste di Milano, a cura di A. Torno, Milano 1987; Processo agli untori. Milano 1630: cronaca e atti giudiziari, a cura di G. Farinelli - E. Paccagnini, Milano 1988 (con bibliografia specifica); P. Verri, Osservazioni sulla tortura, a cura di G. Barbarisi, Milano 1993; A. Manzoni, Appendice storica su La colonna infame, a cura di E. Paccagnini, in Id., I romanzi. Fermo e Lucia, a cura di S.S. Nigro, Milano 2002; Id., Storia della colonna infame, a cura di E. Paccagnini, in Id., I romanzi. I promessi sposi (1840), a cura di S.S. Nigro, Milano 2002; C. Cantù, Gli untori, in la Perseveranza, 8 aprile 1880; A. Porati, L’abbattimento della colonna infame raccontato da un testimone oculare, Milano [1892] (ora a cura di G. Lopez, Milano 1986); F. Nicolini, Peste e untori nei “Promessi sposi” e nella realtà storica, Bari 1937; P. Preto, Untore, in Lingua nostra, XLIV (1983), 1, pp. 1-3; F. Cordero, La fabbrica della peste, Roma-Bari 1984; R. Canosa, Tempo di peste. Magistrati ed untori nel 1630 a Milano, Roma 1985; A. Pastore, Dal lessico della peste: untori, unzioni, unti, in Acta Histriae, XV (2007), 1, pp. 127-138.