ROSSI, Giovanni Girolamo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 88 (2017)

ROSSI (De' Rossi), Giovanni Girolamo

Letizia Arcangeli

ROSSI (De’ Rossi), Giovanni Girolamo. – Secondogenito dei maschi di Troilo, marchese di San Secondo, e di Bianca Riario, nato il 19 maggio 1505, fu avviato alla carriera ecclesiastica, nella quale (come pure nella sua agitata esistenza) ebbero grande peso famiglia materna (Riario, Medici) e affini (Gonzaga di Mantova).

Nel 1517 fu tonsurato dallo zio monsignor Cesare Riario e il giorno stesso nominato protonotario apostolico. Un cugino della madre, il cardinale Raffaele Sansoni Riario, gli resignò la commenda dell’abbazia cistercense di Chiaravalle della Colomba, nel Piacentino, riservandosi una pensione annua di 2000 ducati (quasi tre volte il reddito stimato dalla Camera apostolica). Troilo affermò di avere speso 20.000 ducati per i benefici ecclesiastici dei figli Ettore e Giovanni Girolamo, il quale, secondo un altro fratello, Pietro Maria, nel 1539 ne deteneva per 25.000 scudi: l’abbazia, un chiericato di camera, e il ricco vescovato di Pavia cedutogli dal precedente titolare, il cardinale Giovanni Maria Del Monte (poi papa Giulio III) nel 1530.

La sua formazione umanistico-giuridica fu coerente con la scelta: ebbe a precettore e maestro di grammatica Cristoforo Vandino di Parma, studiò a Bologna e poi con Francesco Burla a Padova, dove entrò in contatto con Andrea Navagero e allacciò un duraturo rapporto con Pietro Bembo, che sollecitò il suo interessamento per procurare letture ai propri protetti (1525) e ne ottenne cospicui prestiti. Studente influente, nobile e molto ricco, circondato da un seguito armato, in più occasioni (almeno 1522 e 1527) fu oggetto di provvedimenti della Repubblica di Venezia. L’episodio meglio noto, attraverso concordi testimonianze processuali di quindici anni posteriori, fu il ferimento a morte, a Venezia nella basilica di S. Marco il Venerdì santo del 1522, di un ghibellino piacentino, Fantino Rampini, che aveva tacciato di guelfi e traditori Rossi e i suoi servitori che si trovavano nel seguito dell’ambasciatore di Francia, durante la guerra che vedeva Venezia e i Rossi di San Secondo schierati con i francesi contro l’Impero, la Chiesa e il duca di Milano.

Come suo fratello Pietro Maria, Giovanni Girolamo trascorse gran parte della sua vita lontano da San Secondo e da Parma, ma come lui rimase partecipe delle dinamiche politiche e fazionarie familiari e locali. Tentò (1525-27) di acquistare il vescovato di Parma, fallendo per l’opposizione (fomentata dal parente Bernardo Rossi, allora governatore di Roma) di Clemente VII e della città, che paventavano la conseguente ‘tirannia’ dei Rossi nel Parmense. Secondo una delle già ricordate testimonianze processuali, Rossi e suo fratello Bertrando ordirono nel 1527 un’imboscata andata a vuoto contro Bernardo; di loro si sospettò all’improvvisa morte di lui, di poco successiva. Certo è che dopo la scomparsa del cugino Rossi, appoggiato forse dagli zii materni Cesare Riario e Agostino Spinola, dal 1527 cardinale e dal 1528 camerlengo, si trasferì a Roma, dove divenne chierico di camera.

Assunse lo stile di vita curiale, collezionando statue e medaglie antiche, che più tardi avrebbe sottratto alla confisca interrandole nella sua vigna romana, intrecciando legami con altri curiali letterati, come Giovanni Guidiccioni, e incrementando la propria produzione poetica, iniziata già negli anni padovani e attestata sino alla morte, articolata in due filoni, uno «in linea con la più divulgata poesia d’amore del periodo» (Bramanti, 1995, p. XLIII), l’altro di componimenti indirizzati ad amici letterati e politici. Nel 1530 ebbe dal titolare cardinal Giovanni Maria Del Monte il vescovato di Pavia, diocesi e città che si sarebbero rivelate particolarmente aperte alle idee riformate (1541). Fu un tipico vescovo (o meglio eletto, in quanto privo degli ordini maggiori) rinascimentale non residente (ma a tratti presente, come nel 1533-34, quando si muoveva tra il Pavese, Parma e Roma), per nulla interessato alle attività pastorali (restano però frammenti di una visita alle chiese cittadine del 1531-32 a opera di uno dei suoi vicari, Ludovico Ardizzoni da Reggio), ma vigile sulle temporalità della diocesi (che includevano diverse giurisdizioni feudali e che vennero amministrate dai pavesi Bernardo e Scipione Sacco). La confisca al conte Alessandro Langosco di beni in Rosasco, feudo della mensa vescovile, originò un conflitto durato sino all’omicidio del conte (1534).

Nell’agosto del 1532, sfuggito fortunosamente a un attentato a Parma, Rossi seguì in Ungheria il cardinale Ippolito de’ Medici. Come molti altri vescovi, ma in misura minore, fu impiegato nel governo temporale dello Stato pontificio. Nell’aprile del 1532, pochi mesi prima della soppressione delle libertà di Ancona, vi fu inviato come commissario per la Marca sulla nuova imposizione di un ducato per fuoco e sulle fortificazioni di Ancona, Ascoli e Fano. Forse a questo incarico Rossi si riferì nella dedica del suo Discorso [...] della guerra contra ’l Turco (1545-1555), asserendo di aver riparato, «essendo io mandato da papa Clemente VII soprintendente della Marca, in Ascoli e in Romagna», a congiure ordite dai «più principali» ispirati da Niccolò Machiavelli (cit. in Bramanti, 1995, p. XLII). Nel gennaio del 1536 Paolo III lo inviò per «riparare a’ disordini locali» (p. XVII) ad Ascoli, dove Rossi progettò di restaurare la fortezza, ma «avendo sin paura dell’ombra sua partì senza far nulla» (Marcucci, 1766, p. CCCLXXV). Dopo l’uccisione del duca Alessandro de’ Medici (1537), Paolo III lo inviò a Firenze, latore di un breve diretto al Senato dei quarantotto invitante all’unione e alla concordia, ma anche di un altro ad Alessandro Vitelli, comandante delle fortezze, non tanto, come si ritenne, per indurre la città a porsi sotto la protezione del papa, quanto per sostenere il ripristino di un regime repubblicano non legato a filo doppio all’Impero e aperto alle istanze dei fuoriusciti fiorentini. Il fallimento della missione e i rivolgimenti di quell’anno alla corte pontificia non ebbero immediate ripercussioni nei rapporti tra Rossi e Paolo III, che pare lo inviasse nuovamente a Firenze, di nuovo inutilmente, per promuovere un’alleanza matrimoniale Farnese-Medici e che lo incaricò di rivedere i conti della legazione cispadana del cardinale Giovanni Salviati (1524-37) e il 27 aprile 1537, vista la pace con i cugini, confermò a sua istanza tutti gli antichi privilegi della casa.

Gli impegni curiali non lo avevano allontanato da Parma, dove dopo la morte di Bernardo Rossi il ramo di San Secondo accrebbe notevolmente la sua influenza: di grande peso politico e simbolico fu la committenza di Rossi di un monumento funebre per il fratello Bertrando, da collocarsi nella nuova basilica della Steccata, fino allora immune da infiltrazioni feudali (1531). Nel 1532 ottenne dalla città un prestito di 6000 ducati per comprare il cappello cardinalizio, sua costante e sempre delusa aspirazione. Al tempo stesso si trovava coinvolto nell’inimicizia tra il fratello Pietro Maria e Ludovico Rangoni, con reciproche accuse di tentati omicidi e pesanti strascichi nel disordine pubblico parmense. Rossi intervenne a difesa degli ‘amici’ della casa: a lui il governatore di Parma chiese di tenere a freno il fratello minore e troppo fazioso Giulio (1534); nel 1537 venne scelto dalla maggioranza dei feudatari parmensi per rappresentare a Roma i loro interessi di ceto contro la città. Nel 1538 il papa si affidò a Rossi per l’organizzazione logistica del proprio viaggio verso Nizza, durante il quale passò per Parma, dove però si verificarono gravi disordini.

Se questo poté esserne il reale motivo, ostensibilmente i Rossi caddero in disgrazia soltanto nel 1539 a causa dell’occupazione violenta di Colorno rivendicato da Giulio come bene dotale della moglie: di qui inquisizioni, esami e torture di testimoni alla ricerca di prove della complicità dei fratelli detentori di appetibili feudi e benefici. Rossi fu citato a Roma e imprigionato in Castel Sant’Angelo (dove entrò in rapporto con Benvenuto Cellini) con l’imputazione di essere stato mandante dell’omicidio Langosco, a dispetto delle attestazioni di buona fama fornitegli dalla città e dal clero di Pavia e delle argomentazioni del giurista milanese Egidio Bossi. Grazie alle protezioni politiche di cui godeva, venne infine rilasciato (1541), confinato a Città di Castello presso la sorella Angela, moglie di Alessandro Vitelli, privato dei benefici e condannato a pagare 5000 scudi.

Solo nel 1544 gli fu concessa libertà di movimento. Dapprima visse alla corte di Cosimo de’ Medici (come la sorella Costanza che aveva sposato uno stretto collaboratore del duca, Gerolamo di Luca Albizzi) e fu cooptato nel 1545 su proposta di Benedetto Varchi nell’Accademia Fiorentina; poi, discostandosi come il fratello Pietro Maria dai parenti di fazione imperiale, cercò fortuna a Parigi, forse al servizio del principe Enrico di Valois come elemosiniere, per tornare infine in Toscana alla corte di Cosimo, che gli assegnò una provvisione di 100 scudi al mese. Dal gennaio 1548 si trasferì presso il parente Ferrante Gonzaga, governatore dello Stato di Milano, che aveva occupato Piacenza rimettendolo armata manu in possesso della ricca abbazia di Chiaravalle della Colomba.

Morto Paolo III, il nuovo papa Giulio III Del Monte gli restituì il vescovato di Pavia (1550), a quanto si disse in cambio della chiusura, con una formale pace, di un’inimicizia più che decennale con Laura Pallavicino Sanvitale, capo del partito antirossiano di Parma, imprigionata a Milano da Ferrante Gonzaga. Dopo la rottura con i Farnese, esplicitamente alleatisi con la Francia (maggio 1551), il papa dispose la revisione del processo, conclusa con sentenza assolutoria (ottobre 1551), e lo nominò governatore di Roma (22 novembre 1551-55); in questa veste appare in una novella di Matteo Bandello. Per due volte (1553 e 1554) Rossi (ancora provvisionato di Cosimo I, a cui forniva condannati come forzati per le navi) credette sicura la porpora, ma i suoi nemici Farnese riuscirono a impedire la nomina: circolarono «polizze» anonime che lo screditavano, anche con accuse di eresia. Il suo nome talvolta compare in rapporto a personaggi coinvolti più o meno alla lontana in processi di eresia di Giampietro Carafa, come Bartolomeo Della Pergola.

Certo Rossi ritenne poco salubre per sé il clima romano, per non parlare della «Lombardia» (lettera cit. in Bramanti, 1995, p. XXXI), con la minacciosa inimicizia dei Farnese (che nel 1554 avevano fatto uccidere suo fratello Giulio). Si rifugiò nuovamente a Firenze alla corte di Cosimo, ma nel 1557 acquistò la villa del Barone presso Prato, avviandone la decorazione con committenze a Giorgio Vasari e Giovanni di Bartolomeo Lippi. Lì trascorse tra gotta, timore di sicari, educazione di due dei nipoti ex fratribus, poesia e opere letterarie e storico-politiche (in parte già abbozzate per lo più a partire dagli anni Quaranta, in parte nuove come la Storia generale) i suoi ultimi anni, dopo aver venduto a Cosimo il suo palazzo romano ed essersi lasciato convincere a sollecitare la riconciliazione con il cardinal Farnese (lettera del 2 marzo 1560, ibid., p. XXXV). Dopo l’imposizione ai vescovi dell’obbligo di residenza nelle diocesi (1559) ottenne di dispensarsene nominando coadiutore e successore il nipote Ippolito Rossi.

Morì il 5 aprile 1564 nella sua villa nelle vicinanze di Prato. Il corpo fu deposto in un monastero di agostiniane in città, in attesa di istruzioni per la sepoltura da parte di Cosimo de’ Medici, cui pervenne gran parte delle sue collezioni.

Fu in rapporto con molti poeti e letterati del suo tempo, tra cui spiccano Bembo, Guidiccioni, Francesco Mario Molza e Varchi, nonché il parmense e rossiano Gerolamo Garimberti, e fu partecipe di scambi epistolari violentemente antifarnesiani («anticacchici»; Bramanti, 1995, p. XXXVI) con i cardinali Benedetto Accolti ed Ercole Gonzaga, i cui temi tornano nel feroce sonetto per la morte del papa (Affò, 1793, p. 88) e negli affreschi della rocca di San Secondo, e verosimilmente autore di libelli contro papa Farnese (la Lettera di fra Bernardino Ochino). Della sua ampia produzione rimangono sette manoscritti non autografi, talvolta postillati dall’autore, talaltra in bella copia e con dedica. L’opera poetica è costituita prevalentemente da sonetti, «tutti [...] composti da quartine a rima incrociata» (Bramanti, 1995, p. XLIII), una cinquantina dopo il 1557. Delle Vite di uomini illustri pare avessero circolazione separata quelle di Giovanni dalle Bande Nere, dedicata al duca Cosimo, e di Federico da Montefeltro, che «rispondono ai canoni della biografia contemporanea» (ibid.). Nella sua riflessione storico-politica un punto di riferimento costante, spesso ma non sempre polemico, è il Machiavelli del Principe, dei Discorsi e dell’Arte della guerra. Nei manoscritti superstiti abbondano i giudizi negativi sulla fede dei principi (non tanto i principi di modeste dimensioni quali gli amici e protettori Gonzaga, ma papi, imperatori e re di Francia) e (nel Frammento di storia) sul governo dei pontefici, accusati di interesse privato e nepotismo (tutti sino a Paolo III), ingiuste persecuzioni a spirituali come il cardinale Reginald Pole e a dotti come Cesare Flaminio (il pur amico pontefice Giulio III) e rovinose iniziative come l’Indice (Paolo IV); né manca qualche accento critico sul governo del parente e protettore Cosimo de’ Medici principe nuovo.

Opere inedite. Vite di uomini illustri antichi e moderni; Discorso [...] Tratto da diversi storici a proposito della guerra contra ’l Turco (1545-1555, con dedica al duca Cosimo); Discorsi e ragionamenti [...] fatti in guisa di dialoghi dove intervengono il signor don Ferrante Gonzaga, il Marchese di Marignano, il signor Pirro Colonna, il signor Lodovico Vistarino, l’autore (1557-1559, con dedica cancellata a Ferrante Gonzaga); Frammenti di storie fiorentine del Varchi che include Frammento di storia del medesimo [Rossi] (1559, cc. 110r-123v); Poesie (1563, più ampia della raccolta edita); Storia generale (presso privati, in parte edita in P. Pallassini, Una fonte inedita per la «guerra di Siena», in Bullettino senese di storia patria, CXIV (2007), pp. 97-213), forse identificabile con Notizie e cose memorande de’ miei tempi, opera perduta citata da Rossi. Perduti anche: Vita di re Alfonso d’Aragona; Sui Commentarii di Giulio Cesare; Libro degli usi diversi; Centiloquio; Discorso sulle medaglie; Delle differenze delle età.

Opere attribuite a Rossi. Lettera di fra Bernardino a P.P. Paolo III (circolante nel 1549); Dubia centum theologica feliciter enodata attribuitogli da F. Ughelli, Italia sacra, t. I, seconda ed., Venezia 1717, p. 1107.

Opere edite. Rime, a cura di P. Bottazzoni, Bologna 1711; Vita di Federico da Montefeltro, a cura di V. Bramanti, Firenze 1995; Vita di Giovanni de’ Medici detto delle Bande Nere, a cura di V. Bramanti, Roma 1996.

Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, Carteggio universale, ad ind.; Città del Vaticano, Biblioteca apostolica Vaticana, Archivio Salviati, b. 210, ff. Caccia Alessandro, 166, 168, 178; Roma, Biblioteca dell’Accademia nazionale dei Lincei e Corsiniana, Fondo corsiniano, 2408, Archivio Rossi di San Secondo, s. I, b. 26; s. III, bb. 7, 187; per le altre fonti edite, collocazione delle opere inedite e completa bibliografia rinvio a V. Bramanti, Introduzione a G.G. Rossi, Vita di Federico da Montefeltro, cit., pp. IX-LIII.

Si vedano inoltre F.A. Marcucci, Saggio delle cose ascolane..., Teramo 1766, p. CCCLXXV; I. Affò, Vita di monsignor Giangirolamo de’ R. vescovo di Pavia, Parma 1785; Id., Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, IV, Parma 1793, pp. 81-96; A. Peruzzi, Storia di Ancona, II, Bologna 1847, p. 441; G. Fabiani, Ascoli nel Cinquecento, Ascoli Piceno 1957, p. 238; F. Chabod, Lo stato e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V, Torino 1971, p. 320; Nove. Diario di un paese dell’Ap-pennino. 1544-1577, a cura di G. Petrolini, Parma 1980, pp. 284, 288, 290; X. Toscani, La chiesa di Pavia in età moderna, in Diocesi di Pavia, a cura di A. Caprioli et al., Brescia 1995, pp. 267-295; M. Firpo, Gli affreschi di Pontormo a Firenze, Torino 1997, p. 277; R. Zapperi, La leggenda del papa Paolo III, Torino 1998, pp. 19, 132; R. Lasagni, R., G.G., in Dizionario biografico dei parmigiani, IV, Parma 1999; V. Bramanti, I Discorsi e ragionamenti di Giovangirolamo de’ R.: un episodio della discussione cinquecentesca su Machiavelli, in Medioevo e Rinascimento, XIX (2005), pp. 115-130; L. Firpo, Scritti sul pensiero politico del Rinascimento e della Controriforma, Torino 2005, pp. 54, 117; P. Simoncelli, Fuoriuscitismo repubblicano fiorentino, 1530-54, Milano 2006, ad ind.; F. Piovan, Maestri pavesi nello Studio di Padova nel terzo e quarto decennio del Cinquecento. Schede per Giovanni Francesco Burla, Branda Porro, Matteo e Franceschino Corti, in Università, umanesimo, Europa. Giornata di studio..., Pavia... 2005, a cura di S. Negruzzo, Milano 2007, p. 74; G. Bertini, Giangirolamo R., un protagonista della vita politica parmense al tempo del Correggio, in Aurea Parma, XCIII (2009), pp. 133-146; M.P. Paoli, Giangirolamo De’ R., vescovo di Pavia, e il suo processo: un caso giudiziario del secolo XVI, in Varchi e altro rinascimento. Studi offerti a Vanni Bramanti, a cura di S. Lo Re - F. Tomasi, Manziana 2013, pp. 551-578; P.L. Poldi Allaj, La “Storia” ritrovata, in Da 150 a 600 - San Secondo dalla nascita di Pier Maria de’ Rossi a Comune parmense, a cura di P.L. Poldi Allaj, San Secondo 2013, pp. 83-97; E. Bonora, Aspettando l’imperatore, Torino 2014, pp. 149 s., 197 s., 238-242, 250, 262.

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