GUIDICCIONI, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 61 (2004)

GUIDICCIONI, Giovanni

Simona Mammana

Nacque a Lucca, da Alessandro di Giovanni e da Lucrezia, figlia del medico Antonio Nocchi. Il battesimo risulta registrato il 25 febbr. 1500.

Il padre, più volte anziano della Repubblica nel periodo 1492-1501 e gonfaloniere di Giustizia nel maggio-giugno 1503, morì tra il luglio 1503 e il marzo 1505. Suoi fratelli furono Antonio (anziano della Repubblica nel 1546, gonfaloniere nel 1551 e 1557), Nicolao (la cui morte, all'inizio del 1531, il G. ricordò nella canzone Spirto gentile, che ne' tuoi verdi anni), Baldassare, Caterina (andata in sposa a Nicolao di Piero Fatinelli), Isabetta (sposò Ludoviso Arnolfini).

Ricevuta la prima educazione in patria, il G. attese in seguito allo studio delle lettere e della filosofia a Bologna, dove si trovava nel 1515. Lo zio paterno Bartolomeo, influente prelato, si impegnò (con atto notarile del 3 sett. 1516) a provvedere al suo mantenimento agli studi giuridici per un periodo di otto anni, con obbligo per il nipote di restituzione della somma percepita in caso di mancato conseguimento della laurea nel tempo stabilito. Il G. si diede pertanto allo studio del diritto civile e canonico, dapprima a Pisa, poi a Padova, e infine a Ferrara, dove si addottorò il 18 genn. 1525. In questi anni strinse importanti relazioni d'amicizia con alcuni tra i più noti esponenti della cultura del tempo, tra cui Pietro Bembo, Trifone Gabriele, Giovanni Brevio. Fin dal 10 giugno 1514 aveva intanto ricevuto gli ordini minori; nel 1518 era già in possesso del beneficio ecclesiastico di S. Maria del Colle, ottenuto per cessione dallo zio Bartolomeo.

Conclusi gli studi e rientrato in patria, nel giugno del 1525 ottenne il canonicato della cattedrale, quasi certamente per intercessione dello zio, allora vicario del cardinale Alessandro Farnese (il futuro papa Paolo III) nel vescovato di Parma. Svariati benefici ecclesiastici si susseguirono negli anni successivi: fra settembre e ottobre 1526 la rettoria di S. Pietro de Copernulis, il beneficio e vicariato di S. Bernardino de Terenzio, la chiesa di S. Andrea di Castelgualterio nella diocesi di Parma, e poi ancora la chiesa di S. Senzio a Lucca nel 1529 e quella di S. Michele di Colognara nel 1535. Sempre grazie all'influente familiare, il G. si introdusse nella famiglia del Farnese, al cui servizio entrò come auditore sul finire del 1527. Nella scelta di diventare uomo di chiesa si scorge il segno evidente dell'adesione alla volontà dello zio (Le lettere, XXXII, 3, a Thomas Wolsey, datata 1525 da Graziosi, 1526-27 da Dionisotti). Con il Farnese lo troviamo ancora a Parma nel dicembre 1527, a Roma per tutto il 1528, a Genova nel 1529 (quando il suo protettore vi si recò come legato presso Carlo V), e poi a Piacenza e a Bologna, ove assistette all'incoronazione di Carlo V. Rientrato a Roma, il 1° giugno 1530 scriveva a Bartolomeo Cenami descrivendogli i tormenti inflittigli da "gotte crudeli" (ibid., 8, 1). Probabilmente per curarsi la salute, si allontanò per qualche tempo dalla corte pontificia ritirandosi, in settembre, a Gradoli, castello del Ducato farnesiano di Castro. Qui, abbandonate "tutte le altre cure", si diede "con tutto lo spirito a contemplare le singulari bellezze e l'opere egregie di Platone" e alla poesia (ibid., LV, 5, a G. Vallato, 3 sett. 1530).

Nei confronti della corte pontificia, alla quale dopo i rari periodi di libertà doveva pur far ritorno, il G. ebbe sempre un atteggiamento di lucido disincanto nonché di risoluto biasimo del suo "corrotto vivere"; in una lettera dell'aprile 1531 sconsigliava al compatriota Giovanni Battista Bernardi di venire a Roma, nuova "Babilonia", ricettacolo di vizi che le avevano attirato il sacco del 1527 a opera dei "barbari" e che le sarebbero stati causa di ben "maggior flagello". Ottenuta nel maggio 1533 un'altra licenza, ritornò a Lucca, ove scrisse con probabilità la lettera a Vincenzo Buonvisi, premessa l'anno seguente all'Orazione per la pace di Claudio Tolomei (Roma, A. Blado, 1534), al quale si era legato di profonda amicizia sin dai tempi del suo primo soggiorno romano e che gli aveva affidato le cure della pubblicazione "come a non ultimo […] degli amici suoi" (Le lettere, 27, 10).

La lettera contiene un'importante presa di posizione teorica in favore dell'uso dell'italiano in luogo del latino nelle orazioni e negli atti di governo. L'orazione volgare infatti, avvalendosi della "lingua nostra e viva", risulterà accresciuta in efficacia e utilità sociale rispetto a quella in latino, lingua che ormai si può definire "straniera", accessibile pienamente ai soli dotti, ma non compresa da un più vasto pubblico. Inoltre, essendo la nuova lingua meno ricca del latino, sarà "necessario […] che noi ci sforziamo di cavare altissimi sentimenti e quelli di illustrare con nuove figure e con apparenti e luminose parole" (ibid., 3). Lo stesso Tolomei dichiarava di avere scritto l'Orazione a dimostrazione di come la lingua toscana fosse in grado di esprimere altamente grandi concetti; ma mentre gli interessi del Tolomei sono più sbilanciati sul versante linguistico-formale del dibattito sulla lingua di quegli anni, il G. è avvinto dalla questione della "trasfusione della nuova lingua nei generi, nelle forme solenni della letteratura classica" (C. Dionisotti, Introduzione a G. Guidiccioni, Orazione…, p. 33). Secondo il G., inoltre, l'orazione volgare consente di rimproverare i malvagi, lodare i buoni, incitare alla salute pubblica, smorzare le discordie civili, in quanto essa, "fortificata da' bei presidi della esperienza e delle dottrine, senza le quali è un aggiramento vano di parole, non è dubbio alcuno ch'ella porta seco utilità maravigliosa" (Le lettere, 4-5).

L'applicazione di questa precettistica è l'Orazione ai nobili di Lucca, probabilmente scritta dal G. nel periodo maggio-luglio 1533, quando, trovandosi a Lucca all'epoca dell'atto conclusivo del cosiddetto moto degli straccioni, assistette alla sua finale e durissima repressione.

Il G. levò la propria voce contro le misure repressive prese dagli Anziani, indicando, sulla scorta dell'esempio offerto dagli avi, la via da percorrere per la salute della patria. Tre fattori mettono in pericolo l'esistenza stessa della Repubblica: la politica vessatoria e le avide usurpazioni dei nobili ai danni della moltitudine; le discordie interne alla stessa classe nobiliare; la diffusione dell'eresia, che a Lucca, avamposto della propagazione di idee riformate, era problema di scottante attualità. Per "pacificare tutto quello che è di sedizioso […] sanare quello che è d'infermo e di corrotto" (Orazione, p. 129), i reggitori della Repubblica dovrebbero, secondo il G., ricondursi alla magnanimità e alla sanità etica, politica e religiosa dei padri, i quali erano un tempo tutori delle classi bisognose. Anzi il G. si spinge a dichiarare necessaria la partecipazione di "alcuno popolare" al governo della Repubblica (ibid., p. 132).

L'Orazione fu pubblicata per la prima volta soltanto nel 1557 (a cura di L. Domenichi, Firenze, senza indicazioni di tipografia [ma L. Torrentino]). La critica si è lungamente interrogata se essa sia stata realmente pronunciata (A.P. Berti) o meglio, dato che pare certo che non lo fu, se sia stata concepita per esserlo (M.A. Benincasa; E. Chiorboli) o se sia nata invece come puro esercizio retorico (C. Lucchesini). Nell'edizione del 1561 curata da Francesco Sansovino (Orazioni volgarmente scritte da molti uomini illustri, Venezia, F. Sansovino, parte seconda, cc. 45v-53r) a c. 45v si afferma che fu recitata in Consiglio, ma la notizia cade nella successiva edizione (Delle orazioni volgarmente scritte, Venezia, A. Salicato, 1584, libro primo, cc. 237-245r), ove anzi si dichiara il contrario ("non fu recitata", c. 237v). Si può concludere, con Dionisotti, che pur non trattandosi di una "esercitazione a freddo", il G. compose l'orazione ormai a moto concluso, dunque non per dire la sua nel pieno del tumulto, ma "a cose fatte per esprimere un giudizio sul passato e un monito per l'avvenire" (Orazione…, p. 85; a questa edizione si rimanda per l'elenco delle precedenti).

Tornato a Roma già nell'agosto 1533, è probabile che nei mesi di ottobre-dicembre il G. seguisse A. Farnese a Marsiglia, dove papa Clemente VII si recò per celebrare le nozze della nipote Caterina de' Medici con Enrico duca d'Orléans, secondogenito di Francesco I di Francia. Divenuto pontefice nell'ottobre 1534 con il nome di Paolo III, l'antico patrono del G. lo avrebbe in breve tempo innalzato a svariate cariche di grande prestigio: governatore di Roma il 20 ott. 1534, il 18 dicembre il G. ricevette il vescovato di Fossombrone, mentre il 24 genn. 1535 fu nominato nunzio apostolico presso Carlo V. L'imperatore si preparava allora a combattere i corsari del Barbarossa: il G., al suo seguito, assistette all'espugnazione di Tunisi e alla presa della Goletta.

Gli anni della nunziatura di Spagna (1535-37) non furono facili per il G., tormentati dai "travagli, i pericoli, le excessive spese", sopportati con "sincera e diligente servitù" (Le lettere, 78, 3, al cardinale A. Farnese, 3 marzo 1537). Il sostentamento in Spagna fu faticoso e il G. avvertì dolorosa la contraddizione tra una carica prestigiosa e un salario inadeguato. Nelle lettere lamenta una cronica difficoltà economica, "miseria" aggravata da "tanti debiti alle spalle quanti non poteva sostenere" (ibid., 50, 1), i cui "interessi gli mangiavano l'anima, nonché le facultà" (ibid., 91, 11). Non molto pare alleviasse questo stato di cose la pensione di 500 ducati annui riconosciutagli da Carlo V nel maggio 1537. Inoltre, il G. si vide sminuire le prerogative del suo incarico, in un clima di sospetto che lo ridusse, com'ebbe a dire, a "un'ombra di nuncio" (ibid., 72, 2). A monsignor Giovanni Poggio, sostenuto da Ambrogio Recalcati, capo della Cancelleria apostolica e tra i consiglieri più ascoltati di Paolo III, ostile al G., era stata assegnata la collettoria degli spogli dei benefici delle Chiese vacanti in Spagna, incarico che di norma era di pertinenza del nunzio di residenza. Il G. chiese la revoca delle facoltà attribuite al Poggio e nell'epistolario sono accorate le richieste di "reintegrazione dell'onor suo" e di poter essere "nuncio come sono stati li altri" (ibid., 8). Ma le proteste per il suo "mal fortunato officio" (ibid., 90, 2) suscitarono in Curia dubbi e sospetti agitati ad arte dai suoi avversari: Poggio lo accusò di imporre "tasse […] troppo ingorde" (ibid., 94, 15) e fu richiamato da Paolo III a Roma per non avere fatto presente all'imperatore che il papa avrebbe gradito l'assegnazione di Novara a Pierluigi Farnese, cosa della quale il G. sostenne di non essere stato mai informato (ibid., 97).

Sotto il peso "così di questa, come di qualche altra falsa imputazione" che lo attirava in disgrazia presso Paolo III "per la congiurazione di alcuni" (ibid., 2-3), sul finire dell'agosto 1537 il G. si mise in viaggio alla volta di Roma per dimostrare la sua lealtà. Nell'ufficio di nunzio gli subentrò monsignor Poggio. Rientrato a Roma, riuscì a convincere della propria innocenza il papa, il quale gli accordò nuovamente l'affezione di prima e con una bolla del 17 dic. 1537 rammentò i suoi buoni servigi e innumerevoli meriti, ricompensandolo con una serie di privilegi quali la libera collazione di tutti i benefici della sua diocesi, l'esenzione da qualsiasi gravezza sui benefici posseduti, la facoltà di testare dei beni di chiesa fino a 2000 scudi, di inquartare i gigli di casa Farnese nella sua arma gentilizia, di conferire lauree, legittimare figli illegittimi ecc. Inoltre, Paolo III lo volle con sé, nell'aprile-maggio 1538, a Nizza, dove Carlo V e Francesco I si incontrarono per trattare la pace. Non è certo se il G. vi restasse fino alla conclusione dei negoziati, in giugno. Da luglio a settembre soggiornò nella sua villa di Carignano, nel Lucchese, desideroso di abbellirla.

Da qui inviò al più caro dei suoi sodali, Annibal Caro, una lettera sull'"onestissimo ozio" che quel luogo gli concedeva, dopo essersi lungamente "consumato nei viaggi e ne' servigi", lieto di poter "viver modestamente" lungi dalla corte che non desiderava ormai più, specie dopo le "persecuzioni […] avute" (Le lettere, 101, 4-5). Nell'ottobre 1538 tornò tuttavia a Roma e vi si trattenne fino all'agosto dell'anno seguente. Dopo si recò, per la prima volta da quando ne aveva assunto la guida, nel vescovato di Fossombrone. Qui ritrovò, come poeticamente si espresse nel sonetto Al bel Metauro, a cui non lungi fanno (ed. Chiorboli, n. CXXV), nella solitudine arricchita dai "sacri studi", lungi da "odio", "inganno" e dagli "affamati morsi / de l'invidia", la capacità di correggere gli errori in cui si era avvolto per undici anni seguendo la corte, "maga perfida e ria" che spesso gli aveva "cangiato il volto e la favella". Sempre da Fossombrone scrisse una importante lettera allo zio Bartolomeo (Le lettere, 103), il quale sempre aveva ricusato l'andar in corte, ma si trovava allora costretto a obbedire alla chiamata del pontefice che lo voleva a Roma come vicario generale della diocesi.

Tornato a Roma, il papa gli affidò l'incarico di presidente della travagliata provincia di Romagna, ove si recò, accompagnato da Annibal Caro, che gli fece da segretario, nel dicembre 1539. La Romagna era allora sconquassata da numerosi disordini, che il G. riuscì a ricomporre: costrinse con la forza delle armi gli abitanti di Savignano, insorti, a restituire quel castello ai Rangoni, cui era stato assegnato a titolo di feudo della Chiesa da Clemente VII; sventò i piani dei Malatesta che, spodestati da Rimini a opera del duca Valentino, erano riparati a Ferrara, da dove tentavano di recuperare la signoria perduta. Provvide inoltre al riassetto economico e tributario della provincia. Per garantire una pace durevole istituì il Collegio dei novanta pacifici, organo che comprendeva 90 cittadini di proba reputazione, con i quali redasse una sorta di statuto intitolato Ordini, leggi, concessioni e privilegi dei Novanta pacifici (poi pubblicati a Venezia, N. Bevilacqua, 1559).

Riordinata la Romagna, nell'ottobre 1540 il G. ritornò a Roma, dove lo attendevano nuovi incarichi. Nel marzo 1541 il papa lo inviò quale commissario generale di campo al fianco di Pierluigi Farnese, comandante l'esercito della Chiesa contro i Colonna che si erano ribellati alle esose gabelle sul sale imposte dalla Camera apostolica e avevano preso a fare scorrerie dai castelli di Paliano e Rocca di Papa fin sotto Roma. Le due rocche, nel giro di due mesi, si arresero e vennero rase al suolo: i Colonna furono privati di tutti i loro domini nel territorio della Chiesa.

Ai primi di luglio 1541 il G. fu creato governatore generale della Marca, ma non poté espletare il nuovo incarico. Già indebolito da una malattia contratta nel campo di Paliano, morì a Macerata, di febbre malarica, il 26 luglio 1541.

La salma fu tumulata nella chiesa di S. Francesco a Lucca; il sepolcro, per il quale egli aveva lasciato disegni di propria mano, è decorato da una statua che ne raffigura le fattezze. A un ritratto in medaglia del G., perduto, realizzato dal senese Pastorino di Giovanni Michele de' Pastorini, si fa riferimento in una lettera a G.B. Bernardi (Le lettere, 115, 3, dicembre 1539). La dipartita del G. fu pianta in versi e prosa da vari letterati. Francesco Robortello compose un'orazione latina commemorativa, probabilmente pronunciata nella cattedrale di Lucca in occasione di un suffragio. Ad Annibal Caro, che si era proposto di scrivere una vita del G. - ma rimase solo un'intenzione -, si deve invece una bella consolatoria alla sorella del G., Isabetta, nella quale egli si duole di aver perduto "un padrone, che gli era in loco di padre, un signore che lo amava da fratello, un amico e un benefattore" (Caro, Lettere familiari, I, p. 240).

Del G. ci è giunto il canzoniere (119 sonetti, 6 madrigali, 4 canzoni, 1 satira in terza rima), che egli non si curò di pubblicare unitariamente. Le rime apparvero, lui vivente, in varie raccolte antologiche (un elenco è in G. Guidiccioni, Opere, a cura di C. Minutoli, Firenze 1867, pp. 3-9), poi nella prima edizione esclusivamente guidiccioniana nel 1557, per le cure di L. Domenichi: Oratione di monsignor Guidiccione alla Repubblica di Lucca, con alcune Rime del medesimo (Firenze, senza indicazioni di tipografia [ma L. Torrentino]), e nel 1567 le sole rime in Rime di tre de' più illustri poeti dell'età nostra cioè di mons. Bembo, di mons. Della Casa, e di mons. Guidiccione, alle quali si sono aggiunte quelle di m. Buonacorso Montemagno da Pistoia coetaneo del Petrarca, nuovamente raccolte insieme (Venezia, senza indicazioni di tipografia [ma F. Portonari]).

Il G. fu molto stimato e celebre in vita come poeta. I suoi versi risentono dell'influsso delle tendenze classiciste dell'ambiente romano. Le rime del G. si distinguono in civili, amorose e varie. Nei 14 sonetti d'argomento patriottico, dedicati al lucchese Vincenzo Buonvisi, in cui forte è il senso di partecipazione alle vicissitudini politiche contemporanee, il G. delinea con vibrante concitazione oratoria il contrasto tra la passata grandezza di Roma e dell'Italia e il presente di decadenza e miseria. Oltre che variamente datati dagli studiosi (tra 1526-30 per Minutoli, in G. Guidiccioni, Opere, p. LX; tra il 1525 e il 1530 secondo Benincasa, p. 65; cfr. Chiorboli, 1907, pp. 25 s.), questi sonetti sono stati anche differentemente interpretati: Viva fiamma di Marte, onor de' tuoi ad esempio, che Berti e Minutoli ritengono riferito all'assalto dei Colonnesi a Roma, andrebbe, secondo Benincasa e Chiorboli, ricondotto al sacco, a cui sono dedicati anche altri sonetti (V-XI, secondo l'ed. Chiorboli). I componimenti a contenuto amoroso si allineano al petrarchismo e al bembismo imperanti con l'adesione allo schema consueto di celebrazione della bellezza-virtù della donna, cui seguono la resipiscenza e la preghiera a Dio e alla Vergine perché guidino il poeta sulla via della salvezza. Tratto peculiare del G è l'accentuazione dei contenuti di ascendenza neoplatonica: la donna e la bellezza appaiono allora come fattori beatificanti, l'uomo saggio deve considerare l'amore per la donna (come quello in generale per le cose terrene) "un'esperienza spirituale necessaria, ma da superare, una volta compresa, anche per suo tramite, l'essenza divina del reale, da cui la condotta dell'uomo deve trarre norma" (Sole, pp. 36 s.). Tra le rime varie si inseriscono numerose poesie di corrispondenza e di encomio, che consentono di tracciare una mappa dei rapporti amicali del G. che conferma o integra quella offerta dall'epistolario. Tra i nomi presenti: Vittoria Colonna, Ercole Gonzaga, Annibal Caro, Bernardino Ochino, Francesco Venier, Francesco Maria Molza, Antonio Francesco Raineri, Pietro Aretino, Dionigi Atanagi e molti altri.

Dopo l'eclisse secentesca, è soprattutto con il Settecento che si avvia il recupero dell'opera lirica del G., con almeno sette edizioni: a cura di A. Gobbi, Bologna 1709 (rist. ibid. 1727); Napoli 1720; a cura di G. Gozzi, Parma 1729; a cura di G. Rosati, ibid. 1729; a cura di G. Rota, Bergamo 1753; Nizza 1782; con un'attenzione che si estende già all'intera sua produzione: Rime e prose, a cura di F.T. Alfani, Napoli 1720 (con un ritratto); Opere, a cura di A.P. Berti, Genova 1749; Opere, Genova 1767; Opere, Venezia 1780. Dopo l'edizione parziale ottocentesca delle rime in Sonetti di Agnolo Allori detto il Bronzino ed altre rime inedite di più insigni poeti, a cura di D. Moreni, Firenze 1823, pp. 209-231; e nelle Opere, a cura di C. Minutoli, Firenze 1867, l'ultima edizione a cura di E. Chiorboli (G. Guidiccioni - F. Coppetta Beccuti, Rime, Bari 1912, pp. 3-89), oltre a vedere le liriche del G. "maltrattate e male accoppiate" (C. Dionisotti, Introduzione, cit., p. 20), è decisamente da ridiscutere nell'ordinamento dei testi e nella lezione.

Una stampa bolognese del 1547 (Novella di m. Giovanni Guidiccione vescovo di Fossombruno, Bologna, senza indicazioni di tipografia) attribuisce al G. una novella che narra un'avventura amorosa tragica a sfondo licenzioso. Inclusa senza nome dell'autore e lettera di dedica e con alcune modifiche da F. Sansovino fra le Cento novelle scelte (Venezia 1562), la novella ha suscitato non pochi dubbi sull'effettiva paternità del G. e la questione attributiva è ancora aperta. È edita modernamente in Tre novelle rarissime del secolo XVI, a cura di F. Zambrini, Bologna 1867, pp. 3-45; Novelle del Cinquecento, a cura di G. Salinari, I, Torino 1955, pp. 231-245.

L'Orazione ai nobili di Lucca è edita a cura di C. Dionisotti, Roma 1945 (riedita Milano 1994). Il folto epistolario edito da ultimo da M.T. Graziosi (Le lettere, Roma 1979, a cui si rimanda per le edizioni precedenti; divide tra Lettere a diversi suoi amici, con numerazione romana, e Lettere a diversi, con numerazione araba), si presenta copioso di informazioni attinenti alla dimensione privata, ma anche al versante pubblico della vita del G., ben delineando il suo percorso negli uffici. Alcune lettere contengono precise dichiarazioni di poetica. Importante la lettera 10, ad Antonio Minturno, del 1531, in cui il G. così rivendica il suo ideale di libertà dai modelli, nelle "voci" così come nello "stile": "esser viltà lo star sempre rinchiuso nel circolo del Petrarca e del Boccaccio […] perché noi dobbiamo pensare che essi non dissero ogni cosa, e che se più lungamente o d'altre materie avessero scritto, averiano usato altre locuzioni e altre parole" (par. 8). Piuttosto che imitare un solo autore ritenuto ottimo, occorre considerare, per ciascun genere, una molteplicità di buoni autori, da cui attingere il meglio avvalendosi della guida del "giudicio": questo criterio eclettico, lucidamente teorizzato, produce uno "stil misto", ben al di fuori della linea bembesca, che torna a "laude grande" di chi lo adotta (par. 11).

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