GIOVANNI IX

Enciclopedia dei Papi (2000)

Giovanni IX

Claudia Gnocchi

Figlio di Ramboaldo, non si conoscono né la data né il luogo della nascita, si sa però che era originario di Tivoli e che fu ordinato sacerdote da papa Formoso. Dopo la deposizione di Romano e la morte di Teodoro II, il cui pontificato era durato meno di un mese, furono eletti al pontificato contemporaneamente Sergio e G., ma solo quest'ultimo fu consacrato, tra la fine dell'897 e il mese di gennaio dell'898, mentre Sergio (che sarebbe poi diventato papa nel 904 col nome di Sergio III) fu costretto all'esilio. Una delle prime preoccupazioni del nuovo pontefice fu quella di riabilitare papa Formoso, condannato da Stefano VI nel cosiddetto "sinodo del cadavere", e di restituire validità a tutte le sue ordinazioni, proseguendo in questo senso l'opera dei predecessori Romano e Teodoro II. L'opera di pacificazione ecclesiastica voluta da G. fu affiancata dal ristabilimento dell'alleanza con l'Impero, ovvero con Lamberto di Spoleto (892-898).

Secondo Flodoardo, e secondo l'epitaffio di G., questi tenne tre concili. Del primo non si conoscono né la data né il luogo; il secondo si sarebbe svolto a Roma; il terzo si riunì nella città di Ravenna nel luglio dell'898; in questa sede sarebbero stati ripresi e ribaditi in forma più solenne i canoni stabiliti dal precedente concilio romano. Secondo alcuni studiosi, all'interno della documentazione, in cui i canoni dei due concili si "confondono materialmente", sarebbe possibile rintracciare i decreti emanati a Roma e quelli emanati a Ravenna.

All'inizio degli anni Trenta, però, questa tesi venne messa in discussione da J. Duhr. Lo studioso sostenne che il concilio romano dovesse essere attribuito non a G. ma al suo predecessore Teodoro II, e che gli atti che sono giunti fino a noi - il verbale delle due sessioni in cui fu riesaminata la questione formosiana; la serie di capitoli relativi alla medesima questione e il verbale della seduta conclusiva del concilio, nel corso della quale furono sanciti i termini dell'accordo tra il papa e Lamberto - fossero quelli di Ravenna. Il concilio di Ravenna si svolse poco dopo la consacrazione di G., alla presenza dell'imperatore Lamberto, del clero romano e di settantatré vescovi provenienti da tutte le province del Regno. Il concilio condannò il "sinodo del cadavere", disponendone la distruzione degli atti, ma concesse il perdono ai vescovi che vi avevano partecipato, accogliendo le loro preghiere, nonché la loro affermazione di essere stati costretti ad approvarne le decisioni; furono condannati soltanto i presbiteri Sergio (il futuro papa Sergio III), Benedetto e Marino, i diaconi Leone, Pasquale e Giovanni, insieme con coloro che avevano profanato la tomba di Formoso e ne avevano gettato il corpo nel Tevere. Il concilio stabilì inoltre che il caso di Formoso, che si era trasferito da Porto a Roma, non dovesse essere mai più preso ad esempio e che chi avesse osato contravvenire all'antica regola (il XV canone di Nicea) che vietava il trasferimento di un vescovo da una sede ad un'altra, sarebbe stato scomunicato. Tutti gli atti di Formoso, le ordinazioni e l'incoronazione di Lamberto dell'892, furono di nuovo considerati validi; fu invece considerata illegittima l'incoronazione di Arnolfo, avvenuta nell'896, quando questi, chiamato dal papa, era giunto a Roma per cacciarne Lamberto e sua madre. Formoso infatti temeva l'ingerenza degli Spoletini nell'Italia meridionale, in seguito alla decisione della madre di Lamberto, l'imperatrice Ageltrude, figlia del duca di Benevento, di aiutare la sua famiglia a riconquistare il Ducato sottrattole dai Bizantini nell'891 chiedendo al cugino Guido IV di muovere dalla Marca di Spoleto, di cui era reggente, su Benevento.

Per evitare che la Chiesa potesse subire violenze nel periodo di vacanza del seggio pontificio, il concilio stabilì che per il futuro la consacrazione del pontefice si sarebbe svolta alla presenza dei "missi" imperiali, secondo una prassi - che però riguardava l'elezione del pontefice, e non la consacrazione - stabilita dalla Constitutio Romana dell'imperatore Lotario, emanata nell'824, ed ora ripresa; venne inoltre stabilito che sarebbero stati colpiti non solo dalla censura ecclesiastica ma anche imperiale coloro che, durante la vacanza del seggio papale, avessero osato depredare il patriarchio - una "consuetudine" cui si intendeva porre fine. I vescovi dovevano tornare a giudicare le cause di loro pertinenza nelle proprie diocesi; mentre i Romani, laici o ecclesiastici, avrebbero potuto appellarsi all'imperatore per ottenere giustizia. La Chiesa romana sarebbe stata protetta e difesa, secondo un patto stabilito "in tempi antichi da imperatori religiosissimi", dalle empietà commesse nei territori pontifici, nonché dagli illeciti patti che Romani, Longobardi e Franchi stringevano contro la volontà apostolica e imperiale. Fu quindi decretata la restituzione alla Chiesa dei patrimoni confiscati dopo l'incoronazione di Guido di Spoleto.

Il concilio aveva dunque conseguito il duplice scopo di riabilitare Formoso e di "ristabilire [sottolinea J. Duhr] l'intesa tra il papato e il potere imperiale", rinnovando un patto concluso - come ricordato negli atti del concilio - da "Lamberto e da suo padre Guido, all'epoca della sua incoronazione imperiale" (891), con quello stesso papa che ora si riabilitava completamente; un'intesa che, se difficile da rispettare sul piano dei rapporti di "vicinato" tra Roma e Spoleto, era tuttavia possibile nella prospettiva - più ampia e meno compromessa - dei rapporti tra le due istituzioni, tra "i due capi della cristianità", e tanto più desiderata in un momento in cui la situazione di Roma e dei dintorni era diventata drammatica, come testimoniano, oltre al passo del canone conciliare, le difficoltà incontrate da G. nel procurarsi il materiale per la ricostruzione della basilica lateranense, da lui iniziata ma mai portata a termine, dato che dei "malitiosi homines" impedivano agli operai la raccolta della legna nei boschi. A determinare un simile stato di emergenza erano non solamente le incursioni dei Saraceni, che dal Garigliano si muovevano a saccheggiare le regioni dell'Italia centrale, ma anche le irrequiete forze locali, che tendevano a sottrarsi ad ogni autorità e che avrebbero finito col prevalere dopo la morte di Lamberto - vittima di un incidente di caccia nell'ottobre dell'898 - e di G., tra il gennaio e il maggio del 900.

L'opera pacificatrice di G. non si limitò all'Occidente. Negli anni del pontificato di G. era ancora in corso, in Oriente, la disputa riguardante il patriarca Fozio. Questi era stato eletto una prima volta patriarca di Costantinopoli nell'854, in modo irregolare, essendo egli un laico e non essendo ancora la sede vescovile vacante, dato che Ignazio rifiutava di abbandonarla; contro Fozio si era pronunciato il pontefice Niccolò I nell'860, ma la questione non fu risolta fino al settembre dell'867, quando l'imperatore Michele III, sostenitore di Fozio, fu assassinato ed Ignazio tornò al suo posto (novembre). L'VIII concilio ecumenico, svoltosi tra l'869 e l'870, aveva condannato Fozio. Nell'ottobre dell'877, dopo la morte di Ignazio, Fozio assunse di nuovo il patriarcato. A questo punto si pone la questione di un secondo scisma di Fozio, apertosi con il suo reinsediamento. L'atteggiamento di Giovanni VIII e dei papi successivi (Marino I, Adriano III, Stefano V e Formoso) nei confronti di Fozio è stato oggetto di studi non sempre concordi. Secondo la prospettiva tradizionale (J. Hergenröther, Ch.J. Hefele), i papi da Niccolò I a G. furono concordi nel condannare il patriarca di Costantinopoli. Secondo A. Lapôtre, al contrario, tutti i pontefici da Giovanni VIII a G. riconobbero il secondo patriarcato di Fozio (877-886), salvo Formoso e Marino. Successivamente altri studiosi, sebbene con alcune divergenze, soprattutto in merito all'atteggiamento tenuto da Formoso, hanno ritenuto impossibile che ci sia stato un "secondo scisma di Fozio" sostenuto da tanti pontefici.

Nella raccolta di scritti antifoziani, risalente all'ultimo decennio del IX secolo e annessa in alcuni manoscritti greci agli atti dell'VIII concilio ecumenico, raccolta che costituisce un documento fondamentale per lo studio delle relazioni tra Roma e Bisanzio durante il secondo patriarcato di Fozio, è contenuta una lettera di G. a Stiliano Mapa, metropolita di Neocesarea, e agli altri capi del partito degli antifoziani intransigenti. Nella lettera - che all'interno della raccolta è seguita da un commento che tende ad interpretarla, erroneamente, in senso antifoziano - il pontefice afferma che dovranno essere osservate le decisioni prese dai suoi predecessori Niccolò I, Giovanni VIII e Stefano V, quindi conferma la validità dei patriarcati di Ignazio, Fozio, Stefano e Antonio Cauleas e le loro ordinazioni. La lettera costituisce un esempio della "tattica" adottata dal papato nei confronti degli ignaziani, ai quali doveva essere riconosciuta l'opportunità della condanna del primo patriarcato di Fozio, mentre, nello stesso tempo, venivano scoraggiati dal continuare le ostilità.

Oltre a svolgere un'opera di pacificazione sia in Occidente che in Oriente, G. tentò di recuperare all'autorità di Roma la diocesi di Moravia. La Moravia era stata cristianizzata nella seconda metà del IX secolo da Cirillo e Metodio, inviati da Bisanzio. Cirillo e Metodio iniziarono con successo l'opera di evangelizzazione, ricevettero l'approvazione di papa Adriano II, che nominò Metodio arcivescovo, ma dovettero affrontare l'ostilità del clero tedesco che, in virtù del dominio politico che la Germania aveva sino ad allora esercitato, e che voleva rafforzare, sulle tribù slave, non intendeva lasciarsi sottrarre i territori compresi nella provincia ecclesiastica assegnata a Metodio. Il conflitto tra i vescovi tedeschi e Metodio continuò fino alla morte di questi, nell'885; l'amministrazione dell'arcidiocesi fu allora assunta dal suo suffraganeo e nemico Vichingo, che aveva ottenuto da Stefano V una lettera in cui si condannava l'uso della lingua slava nella liturgia, praticato da Cirillo e Metodio sin dal loro arrivo in Moravia. I discepoli di Metodio dovettero lasciare la Moravia e si rifugiarono per la maggior parte in Bulgaria, passando così sotto l'autorità della Chiesa di Bisanzio. Quando G. volle riprendere la politica di Giovanni VIII, se non tornando sulle decisioni relative all'uso della lingua slava, nominando però un nuovo arcivescovo, i vescovi bavaresi non mancarono di protestare con una lunga mémoire, ma la risposta di G. a questa lettera è purtroppo perduta.

fonti e bibliografia

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