JERVIS, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani (2016)

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JERVIS, Giovanni

Matteo Fiorani

JERVIS, Giovanni (Gionni)

Nacque a Firenze il 25 aprile 1933 da Guglielmo (Willy) e Lucilla Rochat.

La famiglia, la guerra

La famiglia aveva radici estere e un solido retroterra protestante. Il nonno paterno Tommaso, di origini inglesi, era ingegnere, legato a Gaetano Salvemini e impegnato nella chiesa valdese; sua moglie, Bianca Quattrini, apparteneva a una famiglia di medici e pastori evangelici. Nel ramo materno dei Rochat, provenienti dalla Svizzera e residenti a Firenze dal 1807, il nonno Luigi era un medico socialista, tra i promotori di Italia libera, antifascista attivo nella diffusione del foglio clandestino Non mollare e fratello del pastore valdese di Firenze; la nonna Leocadia Oberlé di origini francesi, era divenuta evangelica quando aveva conosciuto il suo futuro marito.

Willy Jervis, cresciuto tra Milano e le valli valdesi, era ingegnere. Dopo un primo impiego presso un’industria di frigoriferi, nel 1934 fu assunto alla Olivetti come direttore della filiale di Bologna; l’anno seguente venne chiamato a Ivrea assieme a un nutrito gruppo di brillanti tecnici voluti da Adriano Olivetti. Laureata in letteratura inglese con una tesi su The Piligrim’s Progress di John Bunyan, Lucilla si divideva tra l’attività di traduttrice e la cura dei tre figli.

Entrambi attivi nel movimento giovanile valdese, sul finire degli anni Venti si erano accostati alle posizioni del teologo Karl Barth. Willy, agendo nei gruppi di Torino, Milano e Firenze, si legò alla rivista Gioventù cristiana diretta dal pastore Giovanni Miegge (1931). Lucilla, invece, si distaccò gradualmente dalle attività della chiesa e in seguito si dichiarò non credente.

Giovanni (Gionni per familiari e amici) passò l’infanzia a Ivrea con la famiglia che viveva serenamente, economicamente agiata anche se messa a dura prova dall’infermità totale fin dalla nascita di Letizia, nata nel 1936 e presto scomparsa, cui seguì la nascita di Paola nel 1939. Nonostante il risaputo antifascismo dei genitori e l’arrivo della guerra, nella cittadina piemontese il fronte e i pericoli sembravano lontani: Gionni si divertiva a cucinare con la mamma, leggeva Kipling, Verne, e molti fumetti.

Con l’8 settembre 1943 tutto cambiò: Willy decise di partecipare alla Resistenza. Una scelta lucida, basata su un’etica concreta guidata da una profonda fede religiosa su cui aveva formato gran parte del suo carattere. L’attività come partigiano nella 5a divisione Giustizia e libertà Sergio Toja, capeggiata da Giorgio Agosti, divenne sempre più coinvolgente. L’antifascismo culturale si era rapidamente trasformato in qualcosa di tangibile e molto pericoloso.

A novembre tutta la famiglia fu costretta a partire improvvisamente; prima si trasferirono in una casa degli Olivetti a Ivrea e poi, grazie a un gruppo di amici antifascisti della borghesia valdese, a Torre Pellice in una villa disabitata della famiglia Decker.

I Jervis vissero uniti a Torre Pellice dalla fine del 1943 ai primi mesi del 1944. Willy fu arrestato la mattina dell’11 marzo in località Ponte di Bibiana e incarcerato a Le Nuove. Lucilla con Giovanni di 11 anni si trasferirono perciò a Torino, dove rimasero fino alla fine di giugno. Gionni non andava più a scuola, dormiva male e per un periodo sviluppò piccole fobie; leggeva molto, in particolare Jack London e Herbert George Wells, e frequentava la biblioteca circolante della Pro cultura femminile. Gli adulti, affinché gli eventi non lo schiacciassero, gli stavano accanto amorevolmente. Lui si adeguò alle regole della clandestinità, cercando di dare conforto alla madre e svolgendo anche alcune missioni.

Willy fu fucilato la sera del 5 agosto del 1944 a Villar Pellice, impiccato sulla piazza del paese per poi essere trascinato fra le vie e nuovamente impiccato.

Dopoguerra e formazione, 1945-1966

Lucilla e i bambini erano tornati a Torre Pellice, a luglio, in una casa messa a disposizione da Mario Alberto Rollier e da sua moglie Rita Isenburg, dove rimasero per poco più di un anno e dove Jervis frequentò la seconda media.

Nell’autunno 1945 Lucilla si trasferì con i figli a Firenze presso i genitori. In questo periodo Giovanni ebbe una guida in Giorgio Agosti, che lo aiutò a non dimenticare i valori per i quali il padre era morto. Agosti discuteva con lui di politica; lo riforniva di libri – in particolare sulla guerra partigiana o sulle vicende delle truppe italiane in Russia – e lo indirizzò alla lettura del settimanale Il Mondo di Mario Pannunzio, per molti anni un suo riferimento politico-culturale.

Visse un’adolescenza «piena di falle e di fantasticherie» e percorse il liceo svogliato e senza consapevolezza; leggeva cose tecniche e scientifiche, ma anche Topolino e il Corriere dei piccoli. A interessarlo era soprattutto la filosofia (Il buon rieducatore. Scritti sugli usi della psichiatria e della psicanalisi, Milano 1977, p. 9). Si avvicinò alla psicoanalisi – che percepiva come un interesse culturale e non come una possibile professione – attraverso il libro di Enzo Bonaventura La psicoanalisi (Milano 1938), al quale seguirono lunghe letture di Freud.

Era rimasto legato alla comunità valdese, non per fede ma per affinità di valori etici. Partecipò, assieme all’amico Mario Miegge (figlio del pastore Giovanni), alla costruzione nelle valli valdesi del Centro ecumenico Agàpe, cominciata nel 1947 e ultimata nel 1951. Non particolarmente portato per i lavori manuali, Jervis prese parte anzitutto alle attività di studio, alle quali aderì per un decennio. In Agàpe riconobbe un luogo di scambio e dibattito politico-culturale aperto, con una connotazione «religiosa e laica al tempo stesso» (La psicoanalisi non è una religione laica, intervista a Jervis di P. Egidi, in Confronti, 1992, XIX (1992), 5, pp. 30-32).

Nel 1951, con motivazioni incerte, decise di iscriversi alla facoltà di medicina dell’Università di Firenze. Ebbe l’impressione di essere inondato da nozioni inutili. Per la tesi frequentò l’Istituto di clinica medica diretto da Enrico Greppi e l’Istituto superiore di sanità di Roma. Si laureò con lode il 6 luglio 1957, avendo svolto una ricerca neurologica sperimentale sulla cefalea degli ipertesi. Dopo un iniziale tentativo di integrarsi nell’ambiente universitario fiorentino, prevalse in lui il rifiuto e comunicò al relatore Greppi di non voler avviare la carriera accademica.

La sua aspirazione era tuttavia continuare a studiare. Per il perfezionamento scelse l’ambito psichiatrico, che a suo parere permetteva di coniugare interessi medici e filosofici (ibid., p. 31). Un primo contatto con la psichiatria lo aveva avuto nel 1954, quando era stato ospite dello zio George Jervis, neuropatologo che viveva con la famiglia in una villetta interna all’ospedale psichiatrico di Letchworth Village (New York), specializzato nel trattamento dei ritardi mentali. La «malinconia di un grande medico», l’amato Anton Čechov, lo aveva intanto spinto a riprendere in mano Freud (Il buon rieducatore, cit., p. 12).

La scarsa passione suscitatagli dalle lezioni del cattedratico di psichiatria Filippo Cardona a Firenze e il desiderio di vivere in una grande città, lo fecero guardare a Roma dove la clinica neuropsichiatrica era diretta dal 1951 da Mario Gozzano, autore di un libretto sul cervello che Jervis aveva apprezzato. Nel 1957 perciò si trasferì a Roma e si iscrisse alla scuola di specializzazione in clinica delle malattie nervose e mentali.

Si era intanto sposato con Letizia Comba, anche lei proveniente dalla comunità protestante valdese, laureata in filosofia e formatasi come psicologa negli Stati Uniti alla Cornell University. Ebbero tre figli: Stefano nel 1958, Anna Valeria nel 1960 e Leonardo nel 1963. Trovò l’ambiente della clinica romana frustrante, ancor più corrotto e arretrato di quello fiorentino. Le lezioni si fermavano ad una psichiatria dell’Ottocento e la novità maggiore presentata da Gozzano era la Psicopatologia generale di Karl Jaspers, un’opera del 1913. Anche i suoi tentativi di autoformazione, in biblioteche poco fornite e malfunzionanti, furono deludenti. Iniziò così a farsi venire libri dall’estero e a guardare alla dimensione internazionale. Per guadagnarsi da vivere, faceva traduzioni dall’inglese e dal francese e prestava servizio di guardia notturna presso alcune cliniche private.

Ma nonostante l’approccio biomedico, prevalentemente neurologico, attorno alla cattedra di Gozzano circolavano idee, anche con la presenza di analisti freudiani (Luigi Frighi, Isidoro Tolentino) e junghiani (Mario Moreno, Gianfranco Tedeschi). Jervis cominciò a confrontarsi con altri giovani specializzandi interessati ad una visione più ampia della psichiatria e a vivere i fermenti e le discussioni che attraversavano Roma in quegli anni, soprattutto in tema di psicoanalisi. In questo periodo la lezione più importante gli venne da Ernesto De Martino, incontrato nel 1959. L’antropologo era alla ricerca di uno psichiatra per un’indagine interdisciplinare riguardante il tarantismo nel Salento. Scelse lo sconosciuto specializzando Jervis, che aveva letto i suoi scritti di etnologia e storia delle religioni. In qualità di psicologa, anche sua moglie Letizia partecipò alla spedizione. Ne nacque La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud (Milano 1961), al quale ciascuno dette un saggio. Jervis scrisse le sue Considerazioni neuropsichiatriche sul tarantismo (in Ivi, pp. 303-319), un’appendice al volume in seguito ripresa e approfondita (Il Tarantismo pugliese, in Il lavoro neuropsichiatrico, XXX (1962), 3, pp. 297-360).

Fu l’inizio di una collaborazione e di un’amicizia che durarono negli anni; fondamentali per la formazione e per le scelte intellettuali e professionali di Jervis, come lui stesso riconobbe. A colpirlo fu l’approccio metodologico di De Martino nell’ambito della psicopatologia e della psichiatria sociale e transculturale. Da lui apprese e fece propria la necessità di approfondire le questioni scientifiche e teoriche e di valorizzare l’irrazionalità per superarla, studiando l’uomo nella sua complessità biologica e sociale e nelle condizioni di vita che in concreto gli sono date di vivere. A dividerlo da De Martino era invece l’interpretazione del tarantismo: per l’antropologo espressione di sollievo, per Jervis causa che allontanava la persona dal suo malessere reale.

Il 20 giugno 1960 si specializzò, ottenendo il massimo dei voti e la lode, con una tesi di psichiatria sociale. Iniziò a prestare servizio nel reparto psichiatrico della clinica diretto da Giancarlo Reda; ma ancora una volta deluso dall’ambiente accademico e poco interessato alle ricerche che gli si chiedeva di svolgere, decise di lasciare l’università e mettersi alla ricerca di altre soluzioni lavorative.

Dal novembre 1960 al marzo 1962 lavorò presso l’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma come assistente volontario. Allo stesso tempo si dedicava al rapporto tra psichiatria e società, che lo appassionava sempre più. Tra giugno e luglio 1961 passò un periodo in Gran Bretagna, occupandosi sia di ricerche sociopsichiatriche presso la biblioteca della Royal Society of Medicine di Londra sia di problemi organizzativi ospedalieri.

Nel marzo 1962 trovò un lavoro stabile: fu assunto come assistente neurologo presso il padiglione neurologico Giovanni Maria Lancisi dell’ospedale San Camillo di Roma, diretto da Lucio Bini fino al 1964, e da Giovanni Alemà. Inventore con Ugo Cerletti dell’elettroshock (1938), Bini era un fine metodologo, particolarmente attento ai problemi della diagnosi clinica e della tecnica, i quali sarebbero diventati centrali nella riflessione di Jervis.

In quel periodo, Bini stava tentando di aprire un reparto psichiatrico interno al San Camillo. Per questo aiutò l’assistente a ottenere una borsa di studio del British Council, grazie alla quale Jervis passò l’estate del 1963 a studiare l’assistenza psichiatria in Gran Bretagna, dove con il Mental Health Act (1959) si era già compiuta una riforma complessiva del settore. Ebbe modo di osservarne le istituzioni a carattere non custodialistico: ambulatori e day-hospital, ma anche comunità terapeutiche e su questa esperienza scrisse due articoli in cui, tra l’altro, faceva riferimento alla possibilità di abolire gli ospedali psichiatrici (I reparti psichiatrici nell’ambito dell’ospedale comune, in La settimana degli Ospedali, 1963, n. 5, pp. 707-712 (con F. Di Biagio); Sulla organizzazione dei servizi psichiatrici, con riferimento alla esperienza della Gran Bretagna, in Il Policlinico. Sezione pratica, 1964, n. 71, pp. 1288-1294).

Con l’esigenza di acquisire tecniche allora ignorate dall’insegnamento universitario, continuò a studiare in ambito psicoterapico, con particolare riguardo alla epistemologia psicoanalitica e agli aspetti sociali della teoria psicoterapica. Partecipò alle iniziative del Gruppo milanese per lo sviluppo della psicoterapia (dal 1970 Psicoterapia e scienze umane), attraverso il quale Pier Francesco Galli e altri tentavano di rompere l’isolamento della psichiatria italiana (Aspetti socioculturali delle schizofrenie, in La psicoterapia delle psicosi schizofreniche, a cura del Gruppo milanese per lo sviluppo della psicoterapia, Milano 1964, pp. 286-311). Fu l’inizio di una collaborazione che durò cinquant’anni.

In breve tempo arrivò a guadagnare parecchio. Parallelamente al lavoro ospedaliero faceva consulenze in vari istituti per minori – con la moglie aveva organizzato a Roma la Scuola speciale pubblica per bambini spastici Rossana Strazzeri – e seguiva molti e remunerativi pazienti privati in psicoterapia. Cambiò due case e nel 1965 si trasferì in viale Tito Livio, zona residenziale esclusiva di Roma.

Politica e lavoro culturale, 1957-1966

Aveva trascorso l’adolescenza sostanzialmente 'spoliticizzato', in uno scenario italiano che percepiva poco stimolante. Ad infastidirlo era anche il clima familiare, antifascista e borghese, con l’ingombrante memoria di un padre eroe. Il periodo della formazione politica coincise con quello della specializzazione, e con la guerra d’Algeria (1954-1962) (Il buon rieducatore, cit., p. 15).

Lesse sistematicamente gli scritti di Mao, Lenin e Marx. Si avvicinò ad un gruppo di intellettuali fuori dal Partito comunista italiano, che proponevano nuove letture marxiste, ai quali rimase legato fino alla fine del decennio successivo. Divenne amico di Mario Marcelletti e cominciò a frequentare la casa di Lisa e Vittorio Foa, in via Cristoforo Colombo a Roma, dove conobbe Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Marcello Cini. Leggeva Frantz Fanon e libri poco noti o non ancora tradotti in Italia, come Humanisme et terreur. Essai sur le problème communiste di Maurice Merleau-Ponty (Parigi 1947) e Histoire et conscience de classe. Essais de dialectique marxiste di György Lukács (Parigi 1960). Studiò con passione gli aforismi di Theodor Adorno in Minima moralia (Torino 1954).

In questo contesto conobbe Raniero Panzieri; venne attratto dalla sua curiosità, spregiudicatezza, libertà intellettuale e indipendenza di giudizio. Assieme a Panzieri partecipò alla fondazione dei Quaderni rossi (1961), rivista operaista che proponeva all’interno del marxismo nuovi temi e nuove prospettive critiche.

Considerati gli interessi di Jervis per la psichiatria sociale e la psicoanalisi, nonché la sua scarsa attitudine per la militanza, Panzieri lo esortò a riflettere sul legame tra teoria e pratica psichiatrica, anche in termini marxisti. Di questo periodo è Su marxismo e psicoanalisi (in Mondo nuovo, V (1963), 5, pp. 18-19), in cui Jervis polemizzò con Cesare Musatti.

A partire dai primi anni Sessanta discusse con Panzieri e Renato Solmi, allora impiegati presso Einaudi, alcuni progetti editoriali da proporre nel panorama italiano, che scontava gravi ritardi nel campo delle materie psicologiche, psichiatriche e psicoanalitiche. Nel 1963 cominciò a lavorare all’introduzione di Eros e civiltà di Herbert Marcuse (Torino 1964), autore sul quale ritornò più volte, apprezzandolo e reinterpretandolo nei vari contesti. La scrisse discutendo molto con Panzieri su il compito della psicoanalisi nella società borghese e come scienza storicamente fondata. Tradusse poi Classi sociali e malattie mentali di August B. Hollingshead e Fredrick C. Redlich (Torino 1965; ed. or. Social Class and Mental Illness, New York 1958), il principale volume di psichiatria sociale edito fino allora, per il quale scrisse una lunga introduzione basata su una vastissima letteratura internazionale. Ad entrambi i progetti lavorò assieme alla moglie Letizia.

Nel 1964 entrò a far parte del consiglio editoriale della Einaudi in qualità di consulente per la psichiatria e la psicologia. Tutti i mercoledì pomeriggio andava a Torino per la consueta riunione, sedendosi allo stesso tavolo con Elio Vittorini, Cesare Cases, Norberto Bobbio e altri. Contribuì alla diffusione di autori allora sconosciuti in Italia e che sarebbero diventati punti di riferimento: da Eugene Minkowski a Paul Ricoeur, fino a Ronald Laing. Scrisse varie prefazioni, e in un periodo nel quale si stava affermando la volgarizzazione delle scienze della psiche, sviluppò un linguaggio scientifico-divulgativo di qualità (C.G. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, Torino 1964, pp. VII-XX).

Intanto aveva ripreso a collaborare con De Martino, impegnato in una ricerca sulla tematica della fine del mondo. Espresse però alcune perplessità per la troppa enfasi data all’interpretazione culturale de Il tema della fine del mondo nelle malattie mentali (in Psichiatria generale e dell’età evolutiva, III (1965), 3, pp. 3-35), e per la mancata ricerca sul campo dell’antropologo.

In questo periodo Jervis, se da una parte si sentiva coinvolto, a livello nazionale e internazionale, in un ricco e vivace dibattito che interessava la psichiatria e la psicoanalisi, dall’altra era insoddisfatto del suo ruolo di intellettuale e di tecnico, incoerente rispetto alle teorizzazioni politiche che avanzava in varie sedi. Malgrado le proposte di carriera ricevute, a Roma aveva l’impressione di non riuscire a organizzare nulla di buono. Anche l’ambiente einaudiano – che lasciò nel 1970, per poi collaborare con Feltrinelli e Bollati Boringhieri –, nonostante i personaggi di rilievo, lo aveva deluso. Nel 1963 erano stati infatti cacciati Panzieri e Solmi, a seguito della mancata pubblicazione del libro di Goffredo Fofi su L’immigrazione meridionale a Torino, che loro stessi avevano proposto e che poi sarebbe uscito per Feltrinelli (Milano 1964).

In una fase in cui il nesso fra elaborazioni teoriche e impegno politico faceva emergere nuove esigenze – soprattutto per i tecnici psichiatri con l’affacciarsi dei temi anti-autoritari e del personale-politico –, Jervis decise di cambiare vita e mestiere.

Cominciò a girare l’Italia in cerca di alternative: prima a Perugia e Varese, dove si tentava di organizzare l’assistenza psichiatrica territoriale; poi, attraverso Agostino Pirella, conosciuto ad uno dei convegni organizzati da Galli, stabilì un contatto con Franco Basaglia che dal 1961 dirigeva il manicomio di Gorizia. Si recò così a vederne la struttura rinnovata sul modello della comunità terapeutica. Rimase colpito dall’approccio innovativo e dalla personalità dello psichiatra, tanto che decise, convincendo anche la moglie, di trasferirsi a Gorizia con la famiglia per dare il suo contributo alla riforma della psichiatria pubblica italiana.

Contro il manicomio, 1966-1969

Dimessosi dal San Camillo e lasciati gli altri incarichi a Roma, Jervis arrivò a Gorizia nel settembre 1966. Entrò in ospedale come medico di sezione per poi passare primario incaricato: la retribuzione era pessima e il posto precario. Anche Letizia, allora psicologa presso l’Associazione spastici di Roma, fu assunta in manicomio. Per far fronte alle scarse entrate, lui chiese un aumento alla Einaudi impegnandosi a consegnare un libro sull’esperienza goriziana, che poi fu l’Istituzione negata, curato da Basaglia (Torino 1968). Basaglia aveva impostato il lavoro sul modello assembleare comunitario, sulla gestione non autoritaria dei pazienti e sulla riscoperta della loro soggettività. Ad essere negato progressivamente era lo stesso ospedale psichiatrico, istituzione da scardinare.

A Gorizia Jervis ebbe modo di collaborare con specialisti (Pirella, Antonio Slavich, Lucio Schittar, Domenico Casagrande) che sarebbero diventati protagonisti della lotta contro i manicomi. Nel 1967 il gruppo goriziano discusse su Che cos’è la psichiatria? (Parma 1967; poi Torino 1973). Jervis contribuì, assieme a Schittar, con Storia e politica in psichiatria: alcune proposte di studio. L’interesse per la storia – alla quale si era accostato tramite la formazione umanistica, la frequentazione familiare con storici e il percorso di politicizzazione – caratterizzò tutto il suo percorso intellettuale. Vi vedeva la possibilità di sfuggire all’antitesi dogmatica tra naturalismo e umanesimo; non a caso alla Storia della follia in età classica di Michel Foucault (Milano 1963) preferiva La scoperta dell'inconscio. Storia della psichiatria dinamica di Henri F. Ellenberger (Torino 1972) e Il borghese e il folle. Storia sociale della psichiatria di Klaus Dörner (Roma-Bari 1975).

Nel panorama italiano e internazionale di critica antistituzionale e antiautoritaria, dove i problemi della psichiatria non erano più prerogativa di una ristretta cerchia di specialisti, nel marzo 1968 uscì L’istituzione negata. Nella progettazione del volume Jervis ebbe un ruolo fondamentale, che andò ben al di là del suo lavoro editoriale. Lo riteneva infatti uno strumento necessario per documentare e rendere pubblica un’esperienza, fino al quel momento rimasta ai margini. Il suo contributo riguardava Crisi della psichiatria e contraddizioni istituzionali, in cui valutava la critica alle istituzioni manicomiali non solo in termini di umanizzazione e modernizzazione, ma anche rispetto alle implicazioni sociali.

L’Istituzione negata fu un grande successo e diede molta fama a Basaglia. Il movimento studentesco riconobbe nello psichiatra un riferimento e trasformò il libro in uno strumento per leggere i rapporti sociali e di potere, da affiancare alle popolari letture sociologiche sulla devianza di Stuart Beck e Erving Goffman. Il tentativo di raccontare e discutere un’esperienza in divenire fu di fatto destoricizzato.

Jervis ritrovò a Gorizia il significato umano del fare psichiatria e l’opportunità di sperimentare analisi politiche e culturali. Apprezzò l’intelligenza, la cultura e la spregiudicatezza di Basaglia, al quale attribuì il merito della trasformazione dell’ospedale; ne criticò e subì l’autoritarismo nella direzione, la scarsa propensione ad accettare punti di vista diversi e l’appiattimento sulla dimensione istituzionale. Per lui era sbagliato ripiegarsi in uno spazio riformista chiuso fra le mura manicomiali, incapace di considerare la dimensione sociale della psichiatria e che trascurava le elaborazioni tecnico-scientifiche a favore del volontarismo o di generici proclami antistituzionali.

Sempre nel 1968 uscì la sua prefazione alla nuova edizione einaudiana de Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi (Torino 1968). Scritta più di un anno prima, invitava a cogliere nella rivolta antipedagogica inconsapevole del burattino un messaggio antiautoritario in linea con lo spirito del Sessantotto, del quale Jervis certo apprezzava l’anima critica. Allo stesso tempo però metteva in guardia dai rischi di questa condizione, sempre da rinnovare e dotare di significato e identità. Il pericolo, altrimenti, era di trasformarla in una nuova omologazione che avrebbe reso caricaturali anche i principi libertari e di ribellione.

Durante il periodo goriziano, continuò a studiare e a confrontarsi con le esperienze internazionali. Entrò in contatto con gli ambienti lacaniani di sinistra e, anche grazie a borse di studio, visitò i servizi psichiatrici di Unione Sovietica, Gran Bretagna, Jugoslavia e Francia.

Nel luglio del 1967 a Londra prese parte, e con una relazione, al congresso internazionale Dialectics of Liberation, che divenne uno dei maggiori momenti della controcultura degli anni Sessanta. Ebbe modo di conoscervi, tra gli organizzatori, David Cooper e Ronald Laing. Di questa esperienza – alla quale parteciparono Marcuse, Allen Ginsberg, Gregory Bateson, Paul Sweezy, Stokely Carmichael e altri– criticò l’anima romantica e beat e valorizzò quella di critica sociale basata su tematiche controculturali e marxiste (Il convegno di Londra “Dialettiche della liberazione” e Gli psichiatri e la politica, in Quaderni piacentini, 1967, n. 32, pp. 2-18 e 19-26; Drop Out (da Londra 30 luglio 1967), in Che fare, 1967, n. 2, pp. 11-13). Mentre il convegno era ancora in corso, propose a Einaudi la pubblicazione degli atti, uscita due anni dopo a cura di Cooper con il titolo Dialettica della liberazione e una sua prefazione (Torino 1969).

In questi anni si fece intensa anche la collaborazione di Jervis con Quaderni piacentini, rivista fondata nel 1962 da Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, fortemente critica verso la società capitalistica e riferimento teorico-politico della cosiddetta nuova sinistra.

Continuava a coltivare interesse per la psicoanalisi e le teorie psicoanalitiche, nella ricerca di un approccio non dogmatico. In quanto clinico, psichiatra e terapeuta ne accettava le premesse teoriche e culturali, ma era critico rispetto alla fondatezza scientifica della dottrina freudiana e alle sue applicazioni pratiche. Nel 1966 scrisse Note su alcuni libri di psicoanalisi (in Quaderni piacentini, 1966, n. 28, pp. 98-108), in cui affrontava la rilettura di Freud da parte di Ricoeur. L’anno successivo introdusse, sempre per Einaudi, Psicoanalisi e metodo scientifico, curato da Sidney Hook e pubblicato negli Stati Uniti circa dieci anni prima (ed. or. New York 1959; ed. it. Torino 1967), dove mostrò interesse per le opinioni dell’epistemologia americana sulla psicoanalisi.

L’équipe goriziana, già divisa da dissensi e tutt’altro che omogenea politicamente, dopo L’istituzione negata aveva iniziato a disgregarsi. Basaglia si trasferì prima al manicomio di Parma e poi a quello di Trieste. Jervis decise invece di restare a Gorizia con Pirella, che aveva assunto la direzione dell’ospedale psichiatrico. Era tuttavia preoccupato per il futuro e ormai insoddisfatto del lavoro che svolgeva. Si mise così a cercare un nuovo incarico.

Al di là del manicomio, 1969-1976

Nell’aprile 1969 fu contattato da Lauro Gilli, funzionario dell’amministrazione provinciale di Reggio Emila, che stava cercando uno specialista a cui affidare l’organizzazione dell’assistenza psichiatrica territoriale, indipendente e alternativa rispetto al locale manicomio San Lazzaro. Nonostante le incertezze e la precarietà della posizione offerta, dopo un confronto con Pirella, decise di accettare. A giugno si trasferì a Reggio Emilia con tutta la famiglia: anche la moglie era stata assunta nei servizi come primario psicologo. Nel novembre dell’anno prima aveva conseguito la libera docenza in psichiatria, depositata presso l’Università di Parma.

A Reggio Emilia si trovò ad operare in un contesto diverso rispetto a Gorizia: fuori dall’istituzione e senza i letti per le degenze. Interagire con la comunità e con le strutture politiche e sociali era una necessità, così come affrontare la questione delle tecniche. Cercando di mettere in pratica i propri riferimenti teorici di psichiatria sociale e l’insegnamento di De Martino, Jervis aprì i servizi psichiatrici verso il territorio allo scopo di creare nuovi spazi di cura e assistenza più vicini ai bisogni delle persone in difficoltà e delle loro famiglie. Creò équipe multiprofessionali, composte da psichiatra, assistente sociale, psicologo e infermiere. A scopo preventivo, nelle scuole, nelle fabbriche e nei quartieri promosse il coinvolgimento della comunità nella sofferenza del singolo. Oltre ai controlli ambulatoriali, pianificò un capillare sistema di assistenza domiciliare, nel quale il paziente di rado era sottoposto ad un colloquio specialistico individuale, ma ascoltato con la famiglia per arrivare ad una lettura di tipo psicologico e psichiatrico sociale. Attorno a lui si formò un gruppo di lavoro appassionato, proveniente da varie parti di Italia, per lo più giovane e impegnato nelle lotte politiche dell’epoca. Sull’operare reggiano pubblicò Promesse e difficoltà dell’assistenza psichiatrica esterna (in La Provincia di Reggio Emilia, 1970, n. 6, pp. 37-52) e Le ragioni dell’assistenza psichiatrica non manicomiale (in Psichiatria ed enti locali, Roma 1970, pp. 25-42). Anche alla luce di tale esperienza tornò sul confronto tra psicoanalisi e marxismo, tentando di riportarlo sul terreno della pratica sociale (Il militante e lo stregone, in Quaderni piacentini, 1970, n. 42, pp. 92-106, tradotto in tedesco, francese e spagnolo).

Nel 1972 attraversò una crisi che fu insieme professionale, personale e politica.

L’anno prima, in agosto, era partito per un viaggio in Cina, a capo di una delegazione di venti italiani. Ne era tornato frastornato e dubbioso, ma anche convinto, come vari intellettuali italiani, che il modello cinese potesse rappresentare un sistema alternativo a quello capitalista. Scrisse immediatamente alcune considerazioni sul rapporto tra assistenza psichiatrica e maoismo (Fare affidamento al pensiero di Mao Tse-tung per guarire le malattie mentali. Un recente articolo del «Renmin Ribao» tradotto dalle Edizioni Oriente con una nota introduttiva di Giovanni Jervis, in Inchiesta, I (1971), 4, pp. 55-60; Una nota sulla psichiatria in Cina, in Vento dell’Est, 1971, n. 24, pp. 82-86, trad. fr. in Tel Quel, 1972, n. 50, pp. 95-97). Cominciò a ripensare al marxismo italiano – da cui si stava distaccando –, al Sessantotto, ai movimenti americani e la rivoluzione gli sembrava ormai impraticabile. In Condizione operaia e nevrosi propose, nel clima delle lotte di fabbrica del periodo, un’analisi marxista del rapporto tra classi sociali e nevrosi (in Inchiesta, III (1973), 10, pp. 5-18, tradotto in tedesco, francese e spagnolo; ristampato in L’altra pazzia. Mappa antologica della psichiatria alternativa, a cura di S. Forti, Milano 1975). Il lavoro aveva intanto perso determinazione e prospettive di sviluppo. Da una parte i conflitti interni al servizio, tra posizioni moderate ed estremiste; dall’altra – nel nuovo contesto nazionale dominato dalla crisi economica e dall’avvio del compromesso storico – gli scontri tra CIM (Centro d'igiene mentale), amministratori e Partito comunista, che cercava l’egemonia sulla riforma psichiatrica. In Jervis la considerazione del Centro come un tentativo di «fare scienza» e un «particolare progetto politico», stava venendo meno (Il buon rieducatore, cit., p. 40).

Legata a quella lavorativa e politica era la crisi personale, aperta dalla moglie, per Jervis ormai stanca della lunga subordinazione alle esigenze professionali del marito (ibid., pp. 36-38). La decisione di separarsi, dopo vari rinvii e tentativi, arrivò nell’estate del 1973.

Due anni dopo – ormai convinto che il suo impegno nella psichiatria pubblica militante fosse terminato – pubblicò il Manuale critico di psichiatria (Milano 1975), più volte ristampato, tradotto in Germania, Spagna e Francia, testo di formazione per psichiatri e operatori sociali, e non solo. Lo concepì come un lavoro collettivo, che proprio dell’esperienza collettiva di Reggio Emilia voleva dare conto. Basato sulle lezioni che Jervis teneva ogni settimana agli operatori del servizio reggiano, il Manuale cercava, evitando sia l’estremismo tecnicista sia quello spontaneista, di fornire strumenti per interpretare la complessità della malattia mentale e costruire una 'cultura dei servizi'.

Alla speranza con cui aveva guardato i movimenti di contestazione, seguì lo sgomento per le semplificazioni, successive al Sessantotto, circa le tematiche antiautoritarie. Polemizzò duramente contro la popolarizzazione di tali argomenti, cavalcate da alcuni psichiatri, che riteneva irresponsabili. Si schierò per l’affermazione del ruolo, delle competenze e del merito, preoccupato che le idee più estremiste e la prevalenza degli aspetti emotivi e moralistici su quelli tecnici, scientifici e politici avessero come conseguenza di favorire la conservazione (Manicomi eccetera, in Inchiesta, II (1972), 5, pp. 33-37).

Nel 1976 entrò a far parte, assieme a Alfonso Berardinelli, del comitato direttivo di Quaderni piacentini. Cercò di interpretare, in vari scritti, il cambiamento di clima culturale a sinistra. Si interrogò su Quali bisogni? Alcune note (in Ombre rosse, 1976, n. 17, pp. 5-11), rivisitazione critica del marxismo a partire da La teoria dei bisogni in Marx di Ágnes Heller (Milano 1974), per una nuova analisi dell’individuo, della sua cultura e del suo modo di essere. Scrisse su Il mito dell’antipsichiatria (in Quaderni piacentini, 1976, n. 60-61, pp. 39-60, tradotto in francese e tedesco), termine abusato, diventato moda culturale, che mitizzando aveva creato inganni e illusioni. Con lo stesso taglio critico affrontò L’ideologia della droga e la questione delle droghe leggere (in Quaderni Piacentini, 1976, n. 15, pp. 3-32). Intervenne poi sul nesso fra razionalità e irrazionalità, tema rispetto al quale confermò la sua visione antidualista e antiriduzionistica (Un parere su razionalità, irrazionalità e razionalismo, in Aut Aut, 1977, n. 161, pp. 38-44, tradotto in tedesco).

Nel 1977 pubblicò Il buon rieducatore, una critica a chi rappresentava psichiatria, psicoterapia e psicoanalisi esclusivamente come strumenti di controllo sociale e non di cura. Attraverso questa raccolta di saggi editi e inediti, presentava le tappe della sua ricerca sperimentale orientata a elaborare modi diversi di fare scienza e tentativi di plasmare una nuova psichiatria.

Il volume era aperto, e prendeva il titolo, da un’autobiografia dal 1951 al 1976. Faceva così propria una tendenza, di fare della narrativa personale una pratica politica, che stava emergendo in quel periodo soprattutto nel movimento delle donne, al quale Jervis guardava con speranza e che diventò centrale nella sua riflessione.

Le pagine autobiografiche, che contenevano critiche circostanziate con nomi e cognomi, suscitarono interesse, ma anche accuse di tradimento e delazione, soprattutto da parte del gruppo dei cosiddetti basagliani. Basaglia gli riconobbe di esprimere solo il vissuto personale degli eventi. Francesco Ciafaloni, in una recensione apparsa nel 1977 in Quaderni piacentini (n. 64, pp. 161-164), lo richiamò all’intreccio fra agire pubblico e privato, fra memoria collettiva e personale, nodi che secondo lui non aveva sciolto.

Nell’estate del 1977 Jervis si dimise formalmente dalla direzione del CIM di Reggio Emilia, provocando in chi rimase un senso di sconforto e disorientamento. Lavorò ad un Progetto di attuazione del servizio di salute mentale nella provincia di Viterbo (Viterbo 1976, poligrafato), ma rifiutò l’offerta dell’amministrazione di dirigerlo. Aveva deciso di dare un’ulteriore svolta alla sua vita, con una nuova compagna, e anche professionalmente. Scelse la strada accademica.

Gli anni dell'università, 1977-2005

Nel 1977 gli fu conferito l’incarico di insegnamento di teoria della personalità presso la facoltà di Magistero dell’Università di Roma La Sapienza. La scelta fu fortemente sostenuta da Eraldo De Grada, ordinario di psicologia sociale, in accordo con Nino Dazzi, professore incaricato di storia della psicologia, consultato in proposito. Jervis continuò tuttavia ad occuparsi di psichiatria pubblica, svolgendo la supervisione delle équipe dei servizi di salute mentale.

Nel 1978, in un panorama economico e sociale profondamente modificato, nel quale era venuta meno la lettura politica della realtà sociale, elemento centrale nella lotta contro i manicomi e per una nuova psichiatria, e le forme collettive di protesta e partecipazione iniziavano ad essere ripensate, fu approvata la legge 180 sugli Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, che sanciva, tra l’altro, la chiusura degli ospedali psichiatrici. Jervis valutò fin da subito la legge come frettolosa e male strutturata, ma da difendere.

Nonostante il «falso unanimismo anti-istituzionale» (in Dove va la psichiatria? Pareri a confronto su salute mentale e manicomi in Italia dopo la nuova legge, a cura di L. Onnis - G. Lo Russo, Milano 1980, pp. 94-97), per lui la situazione psichiatrica italiana restava molto difficile, frammentata e chiusa nella conservazione. Manifestò insoddisfazione anzitutto rispetto all’incapacità da parte della nuova psichiatria di riflettere sulla scienza psichiatrica proprio nello stare fuori dal manicomio (La crisi della nuova psichiatria, in Il Manifesto, 25 novembre 1977). In questo periodo di ripensamenti e riflessioni, pubblici e privati, fu colpito dalla drammatica perdita del figlio Stefano.

Nel 1982 fu nominato professore associato. Nei confronti dell’accademia Jervis mantenne lo scetticismo che aveva maturato nel tempo e restò quanto possibile distante da ruoli gestionali e istituzionali. Si dedicò all’insegnamento con passione, dedizione e rigore. Nel rapporto con gli studenti trovò una risposta alla sua vocazione di formatore, oltreché un modo di conoscere e interpretare la realtà. Il suo stile didattico (già sperimentato nel periodo reggiano con gli operatori) era esplorativo e non sistematico, concentrato sui concetti e sulle problematiche, volto alla trasmissione di un sapere non dogmatico, in grado di stimolare negli allievi la critica e la ricerca. Dai suoi corsi e seminari universitari trasse il volume Presenza e identità. Lezioni di psicologia (Milano 1984).

Accanto all’insegnamento portò avanti un’intensa attività di ricerca, tesa ad approfondire temi da tempo al centro delle sue riflessioni: i problemi di metodologia psicologica – soprattutto di psicologia sociale –, i punti di intersezione tra politica, psicologia, sociologia e antropologia e i fondamenti delle teorie psicoanalitiche. Molti gli ambienti che fecero i conti con il suo pensiero, anche a livello internazionale dove le sue idee erano note e dibattute.

Non smise i panni dell’uomo di parte, rivendicando la democrazia del dissenso e intervenendo, con solide basi di ricerca, dove era più vivace il dibattito. Si impegnò inoltre nella divulgazione, attento a evitare, soprattutto nell’ambito della psicologia, la comunicazione superficiale e banale (Prime lezioni di psicologia, Roma-Bari 2004).

A fine anni Settanta aveva cominciato a confrontarsi con la cosiddetta 'rivincita del naturalismo', affermatasi dalla seconda metà di quel decennio. Rifiutò la rigida alternativa tra natura e cultura, a favore di un’analisi delle loro interazioni attraverso opportune verifiche scientifiche. D’altra parte etologia e darwinismo erano suoi antichi interessi. Conosceva bene William James e i funzionalisti americani; ancora molto giovane aveva letto I mondi invisibili di Jakob von Uexküll e all’inizio degli anni Sessanta The Voyage of the Beagle di Charles Darwin, un testo che riteneva di grande importanza per la sua formazione. Tra gli anni Ottanta e Novanta – quando in Italia si registrò una moltiplicazione dei corsi universitari di psicologia e un tardivo successo delle idee psicoanalitiche – riprese una sistematica riflessione sulla psicoanalisi e sull’interpretazione del pensiero di Freud. Avvertendo un ritorno ad opposte dogmatizzazioni, dei detrattori e dei difensori, tentò di uscirne (La psicoanalisi come esercizio critico, Milano 1989; Se la psicoanalisi diventa chiacchiera, in MicroMega, 1992, n. 1, pp. 147-157). Il secolo della psicoanalisi, edito per Bollati Boringhieri (Torino 1999), era un bilancio a più voci sulla psicoanalisi e sul Novecento, attraversato da Freud e dai freudiani. In questo ambito riconobbe a Sebastiano Timpanaro, rispetto al materialismo del quale aveva espresso in passato riserve (Intervento sul saggio di Timpanaro, in Quaderni piacentini, 1967, n. 29, pp. 37-39), il merito di avere individuato precocemente la sostanza delle falle della dottrina freudiana e le potenzialità della ricerca biologica, anche con richiami al darwinismo (Timpanaro e la psicoanalisi, in La lezione di un maestro. Omaggio a Sebastiano Timpanaro, a cura di N. Ordine, postumo, Napoli 2010, pp. 27-36).

Dal novembre 1988, ebbe l’insegnamento di Psicologia dinamica. Di questo periodo sono le ricerche sul problema dell’identità nell’ambito della psicologia clinica e sui fondamenti della psicologia dinamica, che si proponeva di edificare scientificamente (Fondamenti di psicologia dinamica. Un'introduzione allo studio della vita quotidiana, Milano 1993).

In seguito ai fallimenti della contestazione giovanile e alle spinte normalizzatrici, da fine anni Settanta aveva avviato una riflessione sulle credenze sociali, le illusioni e i nessi di queste con l’agire collettivo. Con Individualismo e cooperazione. Psicologia della politica (Roma-Bari 2002), intrecciando psicologia individuale e costruzione della società, metteva in evidenza le radici dell’azione politica. In Contro il relativismo (Roma-Bari 2005) denunciava i rischi di un approccio relativista come ostacolo alla comprensione della realtà sociale. Pensare dritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali (Torino 2007), era invece dedicato al libero arbitrio, ai meccanismi psicologici che costruiscono le illusioni e agli aspetti sociali della questione. Raggiunto il ruolo di ordinario nel 1994, nel 2005 andò in pensione dall’università. L’anno dopo, in una relazione per la Società italiana di epidemiologia psichiatrica sull’ultimo mezzo secolo di psichiatria in Italia, affrontò il rapporto fra la tendenza ad umanizzare la disciplina e la tendenza a naturalizzare per scientificizzarla. Sostenne la doppia anima della psichiatria, umanistica e medico-scientifica; riteneva che il cambiamento psichiatrico non sarebbe stato possibile senza l’affermarsi del metodo scientifico nell’ambito delle scienze umane (Complessità e ricerca in cinquant’anni di psichiatria in Italia, in Epidemiologia e Psichiatria Sociale, 2007, n. 2, pp. 139-143).

Nel trentennale dalla legge 180 uscì La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia (Torino 2008), colloquio con lo storico della medicina Gilberto Corbellini. Il tentativo di rilanciare una riflessione seria e stimolante cadde in una polemica passata e personale, in una fissità di ricordi e rievocazioni, lontani dall’attualità che invece Jervis aveva saputo sempre cogliere anche per mezzo del passato.

Lo stesso anno decise di ricordare il periodo della guerra e le vicende dei genitori. Lo fece con Un ricordo di quegli anni, postfazione alla edizione riveduta e ampliata di Un filo tenace. Lettere e memorie 1944-1969 (di W. Jervis - L. Jervis Rochat - G. Agosti, a cura di L. Boccalatte, Torino 2008, pp. 229-239; 1a ed. Scandicci-Firenze 1988), raccolta della corrispondenza fra il padre, la madre e il loro amico Giorgio Agosti. A fargli capire l’importanza pubblica di quelle lettere private, era stato anni prima lo storico Giorgio Rochat, suo parente.

Con gli occhi di un bambino di undici anni Jervis rievocava le radici di un modo di vivere e pensare, il rapporto tra personale e politico che aveva taciuto anche nell’autobiografia del 1977. Dal padre vedeva di aver appreso il rifiuto di ogni retorica, così come «i rudimenti della democrazia» (dedica in Individualismo e cooperazione, cit.); nell’antifascismo dei genitori, consapevole e naturale, stava il nesso che egli aveva stabilito tra etica e politica. In un’intervista radiofonica approfondì questi concetti e il filo che li legava al protestantesimo valdese, a cui doveva l’idea che moralità pubblica e privata non potessero essere separate e che lavorando coscienziosamente fosse possibile cambiare le cose (Un filo tenace, intervista a Jervis di M. Sinibaldi, in Fahrenheit, Rai-Radio3, 25 agosto 2008, http://www.radio3.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-652fe0e1-e32f-4686-b35b-05d2997569a9.html (20 dicembre 2015)).

Morì a Roma per un tumore al cervello il 2 agosto 2009. Nel cimitero Acattolico della città, sulla lapide è posta la scritta Un filo tenace.

Raccolte postume di suoi saggi e interventi, Il mito dell'interiorità. Tra psicologia e filosofia (a cura di G. Corbellini - M. Marraffa, Torino 2011) e Contro il sentito dire. Psicoanalisi, psichiatria e politica (a cura di M. Marraffa, Torino 2014).

Fonti e Bibliografia

Reggio Emilia, Archivio della Provincia di Reggio Emilia, fasc. 6260, Posizione personale Jervis dott. Giovanni; Torino, Archivio di Stato, Archivio Einaudi, Attività di membro del Consiglio editoriale svolta da Jervis tra il 1964 e il 1970, b. 107, f. 1622; Roma, Archivio del personale dell’Università La Sapienza, Serie personale docente, J. G.. Altre informazioni da: testimonianza di Nino Dazzi, raccolta dall’autore il 12 gennaio 2015.

F. Basaglia et al., La nave che affonda, Roma 1978 (poi Milano 2008); V. Pezzi - M.A. Ferretti, L’esperienza dei Centri di Igiene Mentale. Reggio Emilia (1968-78), in Rivista sperimentale di freniatria, 1996, n. 6, pp. 1093-1126; G. De Luna, Introduzione, L. Boccalatte, Premessa, Note biografiche (raccolte da G. Rochat), in W. Jervis - L. Jervis Rochat - G. Agosti, Un filo tenace, cit., pp. 7-32, 33-49, 51-55; C.G. De Vito, I tecnici ragazzini. Operatori sociali, medici e tecnici dei movimenti degli anni Settanta a Reggio Emilia, Tesi di perfezionamento, Scuola normale superiore di Pisa, 2008; M. Fiorani, Intervista a G. J., in Medicina & Storia, X (2010), 19-20, pp. 187-219; Contro il sentito dire. Omaggio alla memoria di G. J.. Atti del convegno a cura di G. Corbellini - M. Marraffa - R. Williams, in Medicina nei secoli, XXIII (2012), 1, numero monografico (in partic. L. Mecacci, G. J.. Un intellettuale del secondo novecento, pp. 13-30; P. Guarnieri, Presente e passato. L’interesse di Jervis per la storia, pp. 55-78; L. Onnis, G.J.: coscienza critica della riforma psichiatrica italiana, pp. 79-99; N. Dazzi, Psicologia dinamica e psicoanalisi nel pensiero di G. J., pp. 157-169; P. Migone, Jervis e la ricerca scientifica in psicoterapia, pp. 171-195, L. Cavallaro, Darwin VS. Marx, Note a margine di individualismo e cooperazione, già con il titolo Darwin versus Marx? Note in margine a un libro di G. J., in Psicoterapia e scienze umane, 2010, n. 3, pp. 315-329); A. Ferraboschi, Comunità locali e protagonismo istituzionale. Pratiche dell’innovazione sociale a Reggio Emilia (1888-1978), in Il "modello emiliano" nella storia d'Italia. Tra culture politiche e pratiche di governo locale, a cura di C. De Maria, Bologna 2014, in partic. pp. 36-51; M. Marraffa, G. J.: la ricerca della concretezza, in G. Jervis, Contro il sentito dire, Torino 2014, pp. XIII-XCIV.

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