LANZA, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 63 (2004)

LANZA, Giovanni

Silvano Montaldo

Nato a Casale Monferrato il 15 febbr. 1810, perse in giovane età il padre Francesco, fabbro e negoziante in ferro, ma grazie all'impegno della madre Angela Maria Inardi e all'aiuto di uno zio la famiglia raggiunse una certa agiatezza, tanto da acquistare nel 1836, per 41.550 lire, una proprietà di 33 ettari a Roncaglia. Dopo gli studi nel reale collegio di Casale, nell'autunno 1827 si trasferì a Torino per terminare le scuole secondarie e iscriversi alla facoltà di medicina; a causa dei provvedimenti repressivi adottati nel 1830, dovette però completare gli studi presso l'ospedale di Vercelli e, tornato nella capitale (dove potè laurearsi solo nel 1832), sviluppò una forte insofferenza verso l'autoritarismo e il gesuitismo che dominavano l'Università. L'anno successivo, approfittando delle facilitazioni previste dall'ordinamento, si laureò anche in chirurgia. Durante il periodo torinese stabilì un legame di amicizia con A. Sobrero e con la famiglia di C. Zoppis, di cui il 25 luglio 1851 sposò la figlia Clementina.

Alla mancanza di una tradizione familiare e all'origine provinciale, che di fatto gli precludevano l'accesso alla carriera accademica, il L. reagì con un forte impegno nello studio: nel novembre 1834 si trasferì a Pavia, dove insegnavano scienziati d'avanguardia, come B. Panizza, e stava iniziando ad affermarsi il metodo positivo e sperimentale. Dovette, però, interrompere gli studi pavesi per una grave infezione, contratta nel gennaio 1835 durante l'esecuzione di un'autopsia e, nell'agosto seguente, prese la decisione di tornare in Piemonte per fronteggiare l'epidemia di colera. Dopo aver prestato volontariamente la sua opera in provincia di Cuneo e a Genova, il L. rientrò a Pavia, da dove, nel marzo 1836, raggiunse Milano per visitare ospedali e istituti di assistenza, ma il soggiorno fu interrotto dalla polizia austriaca.

Il suo confidente e biografo E. Tavallini accenna all'imprudenza del L., che "osava qualche volta chiacchierare anche dello stato in cui giaceva allora l'Italia e dell'assolutismo dei troppi suoi governi; e le sue idee egli spiattellava apertamente, senza cautele" (Tavallini, I, pp. 23 s.).

Costretto a rinunciare al proposito di recarsi a Vienna, il L. si trasferì a Parma, poi a Modena e a Bologna, da dove raggiunse a piedi, con lo zaino in spalla, Firenze. Vi si fermò alcuni mesi, entrando in contatto con M. Bufalini, sostenitore dello sperimentalismo. Rientrato a Torino nel 1837 con un notevole bagaglio di conoscenze, il L. tentò la carriera accademica, ma un'affezione oftalmica lo costrinse nuovamente a lasciare gli studi e a trasferirsi a Roncaglia. In questa circostanza il L. maturò la decisione di dedicarsi alla cura della proprietà terriera applicandovi metodi scientifici.

All'epoca la ricostituzione dell'antico Senato come suprema magistratura di appello per il Piemonte orientale stava attirando a Casale giovani avvocati di idee liberali, quali U. Rattazzi, C. Cadorna, F. Mellana, P.D. Pinelli, che trovarono un luogo di aggregazione presso l'Accademia filarmonica, di cui il L. divenne socio. Agli studi agronomici e alla sperimentazione di aratri e seminatrici in ferro affiancò la lettura di Muratori e Botta, Denina, Sismondi, Hume e Galileo, di diverse opere di storia parlamentare inglese, di legislazione del Piemonte, Belgio, Inghilterra, e di alcune traduzioni dal tedesco.

Furono però anche anni di insoddisfazione e incertezza per il L., cui pesavano l'orizzonte ristretto e il senso di inutilità, solo in parte mitigato dall'assistenza gratuita che prestava ai poveri della zona. Da qui la decisione di ritentare la strada di Torino, cercando un'occupazione presso un ente ospedaliero o assistenziale; il L. dovette, però, scontrarsi di nuovo con le chiusure corporative e i limiti del mercato del lavoro, che lo costrinsero ad accettare il ruolo di medico volontario presso il ricovero di mendicità.

Nel 1842 la nascita dell'Associazione agraria fornì l'opportunità di pubbliche discussioni su temi economici e agì come palestra di educazione politica. Aderendovi tra i primi, il L. ne divenne uno dei principali animatori, svolgendo un'intensa attività pubblicistica sulle pagine della Gazzetta dell'Associazione, cui affiancò la collaborazione alle Letture di famiglia di L. Valerio e al Messaggiere torinese di A. Brofferio, occupandosi di statistica, credito agrario, enologia, rete viaria, insegnamento e piccola proprietà contadina, pauperismo e beneficenza. Ebbe inoltre vari incarichi nell'Associazione e fu tra i fondatori del comizio agrario di Casale.

Nel 1846 andavano delineandosi con maggiore chiarezza schieramenti partitici caratterizzati da una visione profondamente diversa dei principali problemi politici e sociali da affrontare, il che provocò una spaccatura nel movimento riformatore. Dopo un duro scontro con C. Cavour, allora su posizioni piuttosto conservatrici, Valerio, il L., M. Cordero di Montezemolo e R. Sineo assunsero il controllo dell'Agraria, grazie all'appoggio dei ministri più orientati verso le riforme e dello stesso Carlo Alberto, interessati a conservare buoni rapporti con un gruppo la cui influenza era crescente nel paese, nonostante gli allarmismi di chi lo indicava come "parti libéral exagéré", radicale o "populaire". In realtà, come il L. ammise un anno più tardi, i suoi massimi ideali erano l'unità e l'indipendenza della patria, "la fratellanza di tutti i suoi abitanti, la conquista dei diritti, che solo possono rendere prospera la sua sorte futura, rendere e ripartire una maggiore copia di beni fra tutti gli italiani, e far cessare quella ineguaglianza di diritti, che mantiene miserabile e ignorante la più gran parte di loro" (il L. a C. Zoppis, 7 sett. 1847, in Le carte di G. Lanza, I, p. 163).

Nel maggio 1846 il L. si recò in Toscana, dove per conto di Valerio e di C. Balbo incontrò G. Capponi, G.P. Vieusseux, C. Ridolfi, E. Mayer. Nei mesi seguenti assunse una posizione di rilievo nelle iniziative volte a incitare il governo a più rapide riforme e a spingerlo su posizioni sempre più intransigenti nei confronti dell'Austria. Fu lui, alla fine dell'agosto 1847, a scrivere l'indirizzo al re col quale si offriva all'esercito il concorso di una guardia nazionale e a raccogliere, insieme con Valerio e G. Cornero, adesioni a tale documento durante il congresso agrario di Casale, finché non intervenne il presidente F. Avogadro di Collobiano, che denunciò la vicenda a Carlo Alberto provocando la celebre lettera in cui questi annunciava il proposito d'intraprendere una guerra d'indipendenza.

In novembre il L. fu tra i fondatori della Concordia, il giornale politico voluto da Valerio, da cui si allontanò in dicembre per fondare l'Opinione, che, diretto da G. Durando, si collocò in una posizione intermedia tra la Concordia e il Risorgimento di Balbo e Cavour. La riconciliazione con Valerio avvenne il 7 genn. 1848, durante la riunione dei giornalisti torinesi all'albergo d'Europa, quando Cavour avanzò la proposta di chiedere al re la costituzione e Valerio e il L., decisi a restare fedeli alla direttiva giobertiana di evitare passi che potessero incrinare i buoni rapporti con Carlo Alberto, rifiutarono di aderire alla proposta.

Alla notizia dell'insurrezione di Milano il L. varcò il Ticino armato di fucile, impegnandosi tra i volontari nella propaganda antimazziniana e filoalbertista. In Lombardia lo raggiunse la notizia che tre collegi lo avevano proposto come candidato alle prime elezioni del Parlamento subalpino. Fu quello di Frassineto a eleggerlo, dando inizio a una carriera politica destinata a proseguire ininterrottamente per quattordici legislature. Il suo primo collegio lo riconfermò fino al 1874 (nella VII legislatura in unione con Occimiano, dall'VIII all'XI accorpato ad altri collegi, con capoluogo Vignale), quando, sconfitto a Frassineto, fu eletto in quello di Torino II, che lo riconfermò nelle elezioni del 1876 ma non in quelle del 1880, quando si affermò nella sua città.

All'esordio parlamentare militò a sinistra, rivendicò il carattere popolare della guerra e in agosto rifiutò la carica di primo ufficiale agli Interni che gli offriva l'effimero governo presieduto da G. Casati, accettando invece l'incarico di commissario straordinario della milizia comunale di Vercelli e Casale. Salito al potere V. Gioberti, il L. ne sostenne fortemente l'operato, alla Camera e sull'Opinione, e continuò a difenderlo anche quando si profilò l'intervento in Toscana per restaurare Leopoldo II, che portò alla crisi del ministero. Le divergenze insorte con i democratici si accentuarono di fronte alla ripresa delle ostilità con l'Austria, che il L. non voleva avvenisse senza il concorso degli altri Stati italiani. Secondo il Risorgimento, egli era la guida della Sinistra moderata che si stava differenziando sempre più dalla Sinistra pura di Valerio. Dopo la sconfitta di Novara, trascorsi i giorni più difficili in cui il L. lanciò accuse di tradimento e invocò la resistenza popolare, tale processo di separazione proseguì e si rafforzò con l'ascesa al potere di M. d'Azeglio: il L., Cornero e Cadorna, preoccupati che l'intransigenza di Valerio mettesse a rischio lo statuto, si staccarono dall'opposizione e tra l'estate e l'autunno incontrarono più volte gli esponenti del governo.

Chiusosi il biennio rivoluzionario con il trattato di pace, che il L. respinse rilevandone il carattere incostituzionale, insieme con Rattazzi, Cornero, Cadorna e Buffa fondò il centro-sinistra e assecondò l'impegno di d'Azeglio per lo sviluppo del liberalismo. Come membro della commissione permanente di Agricoltura e commercio e della commissione generale di Bilancio, si sobbarcò a un duro lavoro partecipando alla trattazione di numerose questioni e affinando la conoscenza dei meccanismi della vita statale. Fu per questa via che il L., dopo un iniziale scetticismo, si rese disponibile a partecipare al connubio, con il quale uomini che avevano un passato di militanza democratica facevano il loro ingresso nella classe di governo, aprendo la strada ad altri antichi esponenti della democrazia radicale, di ogni parte d'Italia, che li seguirono negli anni successivi formando la Destra storica.

Il 16 nov. 1853 il L. fu eletto alla vicepresidenza della Camera, cui venne riconfermato nella quinta legislatura, durante la quale fece parte anche della commissione di Bilancio, di cui fu relatore, di quelle di Finanza e del Catasto; inoltre, fu commissario di vigilanza della Cassa depositi e prestiti. Grazie a un impegno febbrile, sviluppò una grande competenza in queste materie e rafforzò l'ascendente sui colleghi. Liberista intransigente, marcò il proprio dissenso dal governo sui trattati di commercio, ma lo sostenne nei difficili mesi del 1854 e nel 1855, quando, convinto che Cavour dovesse restare al potere, rifiutò l'incarico ministeriale offertogli da Durando all'epoca della crisi Calabiana. Tale coerenza gli valse la stima di Cavour, di cui divenne confidente. La loro collaborazione iniziò con la preparazione della spedizione in Crimea, quando il L. si adoperò per allentare le resistenze della Sinistra e fu relatore della commissione che esaminò il trattato di alleanza. Il 31 maggio 1855 il L. entrò nel governo Cavour come ministro della Pubblica Istruzione. Furono Rattazzi e lo stesso Vittorio Emanuele II a vincere le perplessità del L., conscio della necessità di cambiare profondamente il sistema educativo e adeguare l'università ai livelli europei facendone un pilastro dell'ideologia liberale.

Il progetto si scontrò con un bilancio statale critico, che costrinse a concentrare le risorse su Torino, e con l'opposizione dell'establishment accademico piemontese a uno svecchiamento radicale che facesse spazio a scienziati provenienti dagli altri Stati italiani e con esperienze di militanza politica e d'esilio, come R. Piria e S. Cannizzaro. Per vincere le resistenze, il 12 nov. 1855 il L. presentò in Senato un progetto di legge sul riordinamento dell'amministrazione superiore della Pubblica Istruzione, sul quale si aprì un ampio dibattito. Nonostante la forte opposizione degli ambienti ecclesiastici, la legge entrò in vigore il 22 giugno 1857, rafforzando l'autorità del ministro e contribuendo a qualificare in senso liberale la condotta del governo. Non giunse in aula, invece, il disegno di legge sulla scuola elementare presentato il 10 dic. 1855, non meno ambizioso ai fini di una politica di nazionalizzazione: il L. dovette limitarsi a far approvare la parte relativa alla formazione dei maestri, ma il controprogetto redatto dalla commissione parlamentare confluì nella legge Casati, che inoltre disegnò l'apparato amministrativo della scuola italiana plasmandolo sul modello della legge del 1857.

Nel gennaio 1858, all'uscita di Rattazzi dal governo, il L. ebbe la reggenza del ministero delle Finanze, in cui si era già impegnato per brevi periodi nel 1855 e nel 1856 in sostituzione di Cavour. Ciò non fu senza conseguenze: l'astio di Rattazzi verso il conte si estese anche al L., il quale, intanto, si addossava un enorme lavoro, fino a che, in ottobre, ottenne la titolarità delle Finanze e cedette il dicastero dell'Istruzione a Cadorna. Dopo aver sostenuto una dura battaglia durante la discussione del bilancio preventivo del 1859, il L., d'accordo con Cavour, per appianare le difficoltà finanziarie e approntare le risorse necessarie alla realizzazione degli accordi di Plombières varò un prestito interno di 50 milioni di lire. L'operazione, non priva di rischi, ottenne un notevole successo, che assunse anche un chiaro significato politico dimostrando il consenso che il governo riscuoteva presso i ceti medi.

Non meno ardito fu il salvataggio della Banca nazionale sarda, in condizioni critiche per l'eccessiva esposizione verso il Credito mobiliare, che lo stesso L. aveva dovuto liquidare, e per i forti acquisti e le numerose anticipazioni su azioni e obbligazioni ferroviarie. L'operazione fu realizzata con l'assunzione da parte dello Stato della proprietà di alcune linee ferroviarie, lasciando libera la conversione tra azioni e titoli del debito pubblico.

Dimissionario col resto del ministero dopo l'armistizio di Villafranca, il L. non entrò nel nuovo governo Cavour, ma il 10 apr. 1860 venne candidato dal conte alla presidenza della Camera in contrapposizione a Rattazzi. Fu un'elezione contrastata, per l'ostilità che circondava Cavour da quando si era diffusa la notizia dell'intenzione di cedere Nizza e Savoia, e per i rancori personali e la fama di eccessiva rigidità che il L. si era acquistato durante la permanenza al governo.

Sul seggio presidenziale il L. non fece nulla per smentire tale opinione, guadagnandosi quel nomignolo di "carabiniere" che gli rimase cucito addosso, in cui si riflettevano certe sue asprezze caratteriali ma anche le esigenze di una fase del tutto straordinaria, che richiedeva l'assimilazione delle regole della vita parlamentare da parte della nuova classe politica, il consolidamento delle istituzioni rappresentative e lo sviluppo dell'azione governativa in tempi rapidi. Benché non avesse approvato l'impresa dei Mille, temendo il rischio di una guerra civile e di un'estensione internazionale del conflitto, in qualità di presidente della Camera accolse il re Vittorio Emanuele II a Napoli. Da quel viaggio il L. trasse la convinzione che gli ordinamenti costituzionali non sarebbero bastati per governare le nuove province e che fosse necessaria una sorta di dittatura per "rigenerare civilmente e politicamente gl'italiani del Sud" (il L. a Cavour, 8 dic. 1860, in Tavallini, I, p. 253).

Tornato semplice deputato con l'inizio della nuova legislatura per favorire un riavvicinamento tra Rattazzi e Cavour, alla morte di quest'ultimo il L. era ormai uno dei capi della Destra, ma, preoccupato per l'emergere delle divisioni regionali tra i partiti, attonito di fronte ai fatti di Aspromonte, si occupò soprattutto di questioni finanziare e amministrative e presiedette la commissione d'inchiesta sulle Ferrovie meridionali, che per la prima volta mise in luce i pericolosi legami tra deputati e ambienti affaristici. Al governo ritornò in condizioni difficilissime il 27 sett. 1864, dopo i tumulti avvenuti a Torino il 21 e 22 in seguito alla notizia della perdita del ruolo di capitale. Costretto alle dimissioni M. Minghetti, che alcuni giorni prima aveva proposto al L. di entrare nel ministero, l'incarico di formare un nuovo governo cadde su A. Ferrero della Marmora, che affidò al L. il dicastero dell'Interno.

Pur riconoscendo come inopportuno e dannoso il trasporto della capitale, il L. presentò la convenzione di settembre come un passo verso la soluzione della questione romana e insistette sul fatto che essa non conteneva una rinuncia a Roma e che il ritiro delle truppe francesi apriva la via ad accordi diretti col papa non escludendo la possibilità che i Romani prendessero l'iniziativa. In novembre la convenzione fu approvata e in dicembre poté essere promulgata la legge per il trasporto della capitale, ma il risentimento per l'abbandono di Torino indusse la maggioranza dei deputati piemontesi a costituire l'Associazione liberale permanente, decisa a difendere gli interessi della regione e a combattere qualsiasi governo che non avesse perseguito l'obiettivo di Roma capitale.

Il clima politico infuocato sortì tuttavia l'effetto di accelerare la fine dell'incertezza legislativa e amministrativa in cui versava il Paese. Il L. e il guardasigilli G. Vacca presentarono due disegni di legge per autorizzare il governo a rendere esecutivo con semplice decreto un ampio pacchetto di provvedimenti quasi tutti ancora in discussione nelle commissioni e mai giunti in aula.

L'approvazione del disegno di legge Lanza subì però un iter diverso. Ministro e commissione parlamentare si accordarono per la presentazione di sei nuove leggi come allegati di un'unica brevissima legge: una sorta di voto in blocco del corpus normativo fondante il nuovo ordinamento amministrativo, che all'epoca sollevò più di una perplessità sulla legittimità costituzionale della procedura: ancora oggi è oggetto di discussione se la delega ottenuta dal governo segnò il tramonto dell'illusoria centralità delle Camere o fu piuttosto una temporanea cessione di sovranità da parte di un Parlamento consapevole dei suoi limiti. I lunghi e sterili conflitti in cui si erano impantanati Camera e Senato negli anni precedenti facilitarono infatti il compito dell'esecutivo e dopo solo tre mesi di discussione un Parlamento demotivato e stanco cedette: la legge di unificazione amministrativa, destinata a diventare un perno della legislazione italiana, venne promulgata il 20 marzo 1865.

Completata l'inchiesta sui fatti di Torino, il L. dovette affrontare un altro difficile tornante: aiutato dal presidente della Camera, G.B. Cassinis, radunò nella sua abitazione i principali deputati piemontesi per persuaderli a non sollevare discussioni e si accordò con B. Ricasoli per un ordine del giorno che troncò ogni polemica, ma sottovalutò la portata del risentimento popolare e non impedì lo svolgimento del tradizionale ballo a corte per il carnevale, che fornì l'occasione a una parte della cittadinanza di dimostrare l'ostilità verso lo stesso sovrano. Il L. offrì le sue dimissioni, subito respinte, ma dovette impegnarsi in una difficile mediazione tra la corte e il Consiglio comunale. Ad avvicinare il L. a Vittorio Emanuele II fu, in quei mesi, il suo coinvolgimento nella diplomazia parallela del sovrano per la preparazione di un'insurrezione popolare in Veneto e in Dalmazia, poi abbandonata quando fu stretta l'alleanza con la Prussia.

Fino ad allora il L. aveva avuto un peso notevole nella compagine ministeriale; la situazione si modificò di fronte alla questione romana. Irritato per il modo con cui il governo aveva lasciato fallire la missione di F.S. Vegezzi e per il ritiro del progetto Vacca-Sella sulla soppressione degli ordini religiosi, il L. si attirò l'ostilità delle correnti laiche e progressiste e si trovò sempre più isolato. Infatti, per quanto piemontese, egli non entrò mai nella Associazione permanente e mantenne una certa equidistanza rispetto alle divisioni regionali, auspicando il ricompattamento dei partiti intorno a principî generali. A queste idee si ispirava una sorta di avvertimento agli elettori, scritto da d'Azeglio e promosso dal L. in vista delle elezioni politiche ormai imminenti, che egli però non poté organizzare: rassegnò le dimissioni il 22 ag. 1865, dopo uno scontro con Sella, che aveva nominato a segretario delle Finanze G. Finali, uomo della Consorteria tosco-romagnola e amico di Minghetti.

Il L. intervenne ancora contro il malcostume politico durante la discussione della legge sulle incompatibilità parlamentari, ma si concentrò soprattutto sulla situazione delle Finanze, come presidente della commissione per i provvedimenti finanziari e membro della commissione di Bilancio. Nel novembre 1867 L.F. Menabrea, che aveva assunto il governo dopo le dimissioni di Rattazzi, per dividere l'opposizione fortemente mobilitata di fronte agli errori che avevano portato al disastro di Mentana, propose alla presidenza della Camera il L., che non aveva approvato la politica rattazziana e che, pur non essendo un seguace del governo, non gli era ostile. Il 9 dic. 1867 il L. fu eletto contro Rattazzi, candidato della Sinistra, e nel suo discorso di insediamento replicò alla presa di posizione del ministro francese E. Rouher, che aveva fermamente negato il diritto dell'Italia su Roma. Tale presidenza non sarebbe durata a lungo: il 6 ag. 1868 il L. abbandonò il suo seggio per pronunciare un durissimo discorso contro la legge istitutiva della Regìa cointeressata dei tabacchi voluta dal ministro L.G. Cambray Digny. La Regìa fu approvata e il L. si dimise dalla presidenza, ma dalla discussione era emerso un nuovo schieramento delle parti politiche: si pronunciarono infatti contro la convenzione la Permanente, il L., Sella e i loro seguaci, il gruppo rattazziano e la maggioranza della Sinistra.

Si trattava di forze molto eterogenee, che però si erano già espresse congiuntamente contro il macinato e le operazioni di credito del governo e, più in generale, si opponevano a una condotta politica che subiva fortemente le influenze della corte. La votazione aveva inoltre aggravato la frattura fra i due più forti gruppi della Destra, i piemontesi e i toscani. Menabrea venne così a trovarsi in serie difficoltà nel novembre seguente, quando le voci circolanti sulla corruzione di alcuni deputati che avevano votato in favore della Regìa furono rilanciate dalla stampa di sinistra. La questione si trascinò nei mesi seguenti, tra vari colpi di scena, senza scalfire la stretta compenetrazione tra capitalismo bancario e affaristico e ceto politico, ma logorò il governo.

Il 19 nov. 1869 le forze che si erano opposte alla Regìa riuscirono a eleggere il L. alla presidenza della Camera contro il candidato governativo A. Mari. Il giorno dopo Menabrea si dimise, aprendo una lunga crisi, resa difficile dall'atteggiamento del re, che si era fortemente esposto, e dall'impossibilità di fondare un nuovo governo con la maggioranza che aveva eletto il Lanza. Vittorio Emanuele II cercò finché poté di evitare di conferire l'incarico al L., il quale, del resto, non intendeva far leva sulla maggioranza prevalentemente di sinistra che lo aveva votato, dalla quale non voleva essere dominato e da cui lo separava anche la convinzione della necessità di aumentare la pressione fiscale per raggiungere il pareggio. Lo stesso gruppo piemontese era tutt'altro che compatto, dato che il L. e Sella erano rivali tra loro ed erano stati spesso in contrasto con la Permanente. All'inizio di dicembre il L. rinunciò a costituire il governo, ma il fallimento dell'incarico a E. Cialdini e poi a Sella lo mise in condizione di riprovare e di riuscire.

Il nuovo governo entrò in carica il 14 dic. 1869, composto dal L. (presidenza e Interno), Sella (Finanze), E. Visconti Venosta (Esteri), G. Govone (Guerra), M. Raeli (Giustizia), C. Correnti (Istruzione), G. Gadda (Lavori pubblici), S. Castagnola (Agricoltura, industria e commercio), cui si aggiunse, l'8 genn. 1870, G. Acton (Marina): negli uomini, quasi tutti di origine settentrionale, rappresentava quanto di nuovo e di avanzato poteva esprimere il grande partito liberale moderato, sebbene si presentasse piuttosto in nome delle proprie idee che di un partito, capace di garantire la continuità della linea della Destra in politica estera e in politica finanziaria e al tempo stesso di porre fine all'eccessiva faziosità verso la Sinistra costituzionale che aveva caratterizzato il governo Menabrea. Inoltre, il L. costrinse Vittorio Emanuele II a limitare le interferenze del partito di corte, ottenendo il licenziamento di F.A. Gualterio da ministro della Real Casa e il ritiro di Menabrea e Cambray Digny dagli incarichi che avevano presso la Casa militare e civile del re.

Il 15 dicembre il L. presentò il governo alla Camera evidenziando la centralità del problema finanziario e ribadendo una linea moderata in tutte le altre questioni, ma il Sella chiese misure gravi e impietose, che urtarono la maggioranza. Fu Minghetti, ispirato dagli ambienti di corte, a soccorrere il governo con una manovra che indebolì il L. il quale, accusato dai giornali di essere stato salvato dalla Consorteria, attaccato anche dalla Sinistra e da Rattazzi, cadde in una profonda crisi morale. Le sue difficoltà si acuirono in maggio e in giugno, quando scoppiarono in varie parti d'Italia i tentativi insurrezionali mazziniani. Messo sotto accusa dalla Consorteria che puntava a sostituirlo con Minghetti, il L. ricevette un aiuto dalle tensioni scoppiate tra Francia e Prussia: il 25 luglio 1870, a guerra dichiarata, il dibattito parlamentare sulla situazione dell'ordine pubblico non poté che riconfermare il suo operato.

D'altra parte, la crisi internazionale indusse il L. a moltiplicare gli sforzi contro l'organizzazione repubblicana: il 12 agosto Mazzini, appena sbarcato a Palermo, fu arrestato e trasferito a Gaeta, dove restò imprigionato fino al 14 ott. 1870, quando fu liberato in seguito all'amnistia decretata per la presa di Roma.

Nel frattempo altri motivi di preoccupazione erano venuti al L. dall'apertura del concilio Vaticano I (8 dic. 1869), rispetto al quale il governo aveva cercato di rinforzare la corrente antinfallibilista, e, su un altro fronte, dalla politica personale di Vittorio Emanuele II a sostegno di un'alleanza tra Vienna, Parigi e Firenze in funzione antiprussiana. Le trattative si erano arenate di fronte alle richieste italiane per Roma, ma lo scoppio della guerra e la richiesta d'aiuto partita da Napoleone III riproposero la questione, nonostante il governo si fosse subito proclamato neutrale. Visconti Venosta seppe prendere tempo, tenendo in sospeso le offerte francesi fino a quando le vittorie prussiane di inizio agosto costrinsero il re e i militari che più si erano impegnati per l'alleanza con la Francia a recedere dalle loro posizioni. Ciononostante, per tutto agosto Vittorio Emanuele II continuò a esprimere la propria ostilità al governo, tanto da indurre il L. a presentare il 7 settembre le dimissioni, che tuttavia furono respinte.

Il ritiro delle truppe francesi accelerò la ricerca di una soluzione della questione romana: di fronte al pericolo di colpi di mano di matrice garibaldina o repubblicana, il governo si cautelò inviando un forte contingente sul confine del Lazio al comando di R. Cadorna e chiedendo al Parlamento uno stanziamento straordinario di 40 milioni di lire per spese militari. Alla Camera, riconvocata d'urgenza il 16 agosto, il L. difese l'operato di Visconti Venosta dagli attacchi della Sinistra dichiarando che il governo avrebbe approfittato di ogni circostanza per risolvere la questione romana, ma escludendo il ricorso a mezzi rivoluzionari. Il 20 agosto la Camera approvò un ordine del giorno di fiducia al governo con una formula che ribadiva le aspirazioni nazionali su Roma, ma senza rassicurare la Sinistra, che minacciò di dimettersi in massa. A questo punto, con Sella deciso a lasciare qualora il governo non avesse mantenuto l'impegno, il L. fu costretto a premere su Visconti Venosta, che con molte cautele stava avviando la preparazione diplomatica di un'eventuale occupazione dello Stato pontificio.

Il Consiglio dei ministri prese per base di future trattative con il pontefice il progetto di sistemazione preparato da Cavour e diede ampie informazioni in proposito ai rappresentanti italiani all'estero. Il 3 settembre, alla notizia della sconfitta francese di Sedan, la Sinistra rinnovò la minaccia di dimissioni in massa e una forte agitazione percorse l'opinione pubblica del Paese, ma il Consiglio dei ministri respinse la proposta di Sella e Castagnola di procedere all'occupazione dello Stato pontificio. Il giorno successivo la proposta, avanzata dal L., fu approvata nonostante i voti contrari di Visconti Venosta, Acton e Govone, ma prevalse l'opinione di non estendere l'occupazione alla città di Roma. Solo il 5 settembre, quando si seppe che in Francia era stata proclamata la repubblica, si decise all'unanimità di occupare anche Roma, previo un ultimo tentativo di accordo con Pio IX affidato a G. Ponza di San Martino, mentre Visconti Venosta inviava una nuova circolare ai rappresentanti italiani in cui giustificava la decisione con la necessità di garantire la sicurezza dell'Italia. Il 20 settembre, fallita la missione di Ponza di San Martino e anche l'ultimo tentativo di evitare il ricorso alle armi fatto dal ministro prussiano a Roma, la fanteria e i bersaglieri entrarono in Roma. Il ministero diede però l'impressione di essere stato incerto fino all'ultimo, meritandosi gli icastici versi carducciani su "L'Italia grande e una" che andava nottetempo a Roma "perché il dottor Lanza teme i colpi di sole".

La presa di Roma non diminuì le tensioni all'interno della compagine governativa: il L. e Sella si scontrarono sui tempi dell'andata a Roma del re (che il primo voleva avvenisse solo dopo la sistemazione dei rapporti col papa) e sulla decisione del secondo di candidarsi alle elezioni come rappresentante della Città eterna: a tale proposito Sella rinunciò quando il L. minacciò nuovamente di dimettersi.

Dopo lo svolgimento del plebiscito per l'annessione, che fu esteso alla Città leonina, e il fallimento delle trattative col cardinale G. Antonelli, il 20 nov. 1870 si svolsero le elezioni politiche generali. Il governo si presentò con un programma che era il risultato del suo carattere composito e non si prestava a favorire un nuovo e più chiaro schieramento dei partiti che anche il L. auspicava. Al tempo stesso, però, il governo si riaffermava come punto di riferimento insostituibile per coloro che erano convinti della necessità di chiudere le grandi questioni ancora aperte e avviare una nuova fase nella vita del Paese. Le elezioni, in cui per la prima volta non si verificarono forti interferenze governative, cosicché lo stesso presidente del Consiglio fu costretto a ricorrere al ballottaggio, furono caratterizzate da una bassissima affluenza e portarono alla Camera ben 184 nuovi deputati, che sedettero in prevalenza al Centro e contribuirono a rendere ancor più sfumate le distinzioni tra i partiti. Anche questo era il segno di una svolta che il governo L. si assunse il compito di portare a compimento, sebbene la Sinistra passasse in blocco all'opposizione, di cui si fece portavoce Rattazzi.

Il 9 dicembre il L. presentò tre disegni di legge relativi alla conversione in legge del decreto di accettazione del plebiscito romano, al trasporto della capitale a Roma, alle garanzie di indipendenza del papa e del libero esercizio dell'autorità spirituale da parte della S. Sede. Nella discussione della legge delle guarentigie il L., seguace del principio cavouriano della "libera Chiesa in libero Stato", accettò le modifiche introdotte dalla commissione incaricata di studiare i punti più controversi, che limitò il separatismo del progetto originario introducendo alcune restrizioni giurisdizionalistiche. Il testo finale, approvato il 2 maggio 1871, per quanto respinto da Pio IX, regolò i rapporti tra il governo e la S. Sede, nonostante l'assenza di rapporti ufficiali tra le due parti, e fu un punto di riferimento costante della politica estera italiana.

Per il suo operato, il L. ricevette nell'ottobre 1870 il collare dell'Annunziata, la massima onorificenza sabauda, che lo poneva in una sfera di particolare vicinanza al re. Il governo poté contare su un periodo di relativa tranquillità politica, che Sella utilizzò per combattere il disavanzo dello Stato, ma dovette affrontare una recrudescenza di criminalità che, sommandosi al diffuso malcontento popolare, rese esplosiva la situazione in alcune province. Nel marzo 1871 il L. presentò una serie di provvedimenti sulla pubblica sicurezza ispirati da una logica di stretta difesa dell'ordine che non teneva presente la richiesta di un nuovo rapporto tra il cittadino e lo Stato posta dal diffondersi di organizzazioni politiche anche fra i ceti medio-bassi. La ricerca di una parziale risposta a queste esigenze era invece alla base dei progetti di riforma amministrativa del L., che stava studiando per correggere gli aspetti più negativi dell'ordinamento centralistico e gerarchico adottato nel 1865 (e che già il 15 marzo 1870 aveva presentato una proposta di riforma della legge comunale e provinciale, poi ritirata). Ribadita l'intenzione di attuare una riforma amministrativa nel programma elettorale, il L. nominò una commissione per studiare il problema. Fu un lavoro importante, di cui egli tenne conto quando, il 1° dic. 1871, propose un nuovo ddl per modificare l'ordinamento comunale e provinciale. Pur riproducendo sostanzialmente i progetti dell'anno precedente, il L. aggiunse alcune innovazioni, quali la concessione del voto amministrativo ai corpi collettivi e alle donne, pensando di attuare così il massimo di decentramento possibile per i tempi; anche questo progetto, però, fu criticato sia a destra, sia a sinistra e venne definitivamente respinto dalla commissione incaricata di esaminarlo. Né ebbe maggiore fortuna il progetto di legge sul riordino della guardia nazionale, che decadde con la fine della legislatura; e il L. non riuscì a risolvere neppure le carenze della legge sulla sanità pubblica, di cui era chiaramente consapevole. Ormai la forza propulsiva del governo andava esaurendosi, come dimostrò la vicenda della legge sulla scuola preparata da Correnti.

La riforma, che prevedeva l'abolizione della figura del direttore spirituale, fu sostenuta dalla Sinistra e ostacolata dalla Destra. Il governo si trovò così in una posizione ambigua, dalla quale uscì solo con il ritiro del progetto e le dimissioni di Correnti, cui il L. associò le sue e che furono nuovamente respinte. Le difficoltà del governo si accrebbero a causa di alcuni incidenti politici a sfondo regionale, suscitati dalla condotta del prefetto di Napoli e dalla vicenda dell'arsenale di Taranto, che costarono al L. pesanti accuse di antimeridionalismo.

Tuttavia, al governo spettò ancora il compito di varare la legge sulle corporazioni religiose e la liquidazione dell'asse ecclesiastico in Roma, che aveva un riflesso internazionale non trascurabile poiché nella capitale risiedevano gli organi centrali o i rappresentanti presso il papa degli ordini religiosi, molti dei quali avevano all'estero la maggior parte delle loro case e dei loro membri. La legge, che provocò forti discussioni, fu approvata il 27 maggio 1873.

Pochi giorni dopo moriva Rattazzi: il L. perdeva un avversario personale, ma la Destra non aveva più motivo di volere a tutti costi un governo Lanza per evitare il rischio che Rattazzi tornasse al potere. Respinte le proposte di quanti lo invitavano a cercare un compromesso con la Sinistra, d'accordo con Sella il L. decise di cadere in Parlamento sui provvedimenti finanziari necessari per evitare che le maggiori spese richieste dalla riforma dell'esercito facessero fallire il programma di risanamento. Il 25 giugno 1873, un ordine del giorno accettato dal ministero che chiedeva l'immediata discussione dei provvedimenti finanziari fu respinto dalla Camera, in cui ben 257 deputati erano assenti. Il governo diede le dimissioni e il L. si adoperò per facilitare la nascita del nuovo ministero guidato da Minghetti.

Uscito dal governo, il L. assunse una posizione defilata, pur godendo di un notevole prestigio personale. La fase calante della sua carriera politica fu però angustiata da una serie di denunce sul suo operato come ministro e presidente del Consiglio. Le accuse più gravi riguardarono l'esistenza di dossier personali sui capi dell'opposizione e l'intervento contro D. Tajani, procuratore generale presso la corte d'appello di Palermo; ma non minori amarezze costò al L. il ricorrente sospetto di essersi sempre opposto alla conquista di Roma. Emarginato anche da Sella e Minghetti, che tentarono di ricostruire le file della Destra dopo il 1876, si impegnò nella vita politica locale lottando contro la diffusione delle risaie e per la tutela della salute pubblica; presiedette l'Associazione costituzionale, sorta a Torino per difendere le istituzioni statutarie, e fondò un'analoga organizzazione a Casale. Le sue apparizioni alla Camera furono però sempre più rare, anche a causa di crescenti difficoltà finanziarie. Nel 1882, benché malato, volle essere presente in Parlamento in occasione della discussione di un nuovo progetto di legge comunale e provinciale. Per pagare le spese del viaggio fu costretto a vendere l'ultima coppia di buoi rimasta a Roncaglia.

Il L. morì a Roma il 9 marzo 1882, in una stanza d'ammezzato dell'albergo New York.

Al vice parroco di San Lorenzo in Lucina, che lo sollecitava a ritrattare in punto di morte quanto aveva commesso contro la religione e le leggi della Chiesa, il L. non rispose.

Fonti e Bibl.: Documenti utili alla biografia del L. sono conservati negli archivi di molti uomini politici coevi, nei fondi relativi ai ministeri da lui retti e alla presidenza del Consiglio dei ministri a Roma presso l'Arch. centrale dello Stato e l'Arch. storico della Camera dei deputati (nelle serie degli incarti di Segreteria e della Questura, nei verbali degli uffici, delle giunte e sottogiunte del bilancio e nei verbali dell'ufficio di Presidenza). La maggiore raccolta di scritti è costituita dalle Carte Lanza conservate a Roma presso l'Arch. De Vecchi di Val Cismon, frutto della ricerca di A. Colombo e C.M. De Vecchi di Val Cismon (a cura del quale furono pubblicate a Torino tra il 1935 e il 1943, con il titolo Le carte di Giovanni Lanza, in 11 voll.). Duplicati dei documenti riprodotti si trovano presso l'Arch. di Stato di Torino (Uffici statali, Carte provenienti dal Museo nazionale del Risorgimento, bb. 1-2), in cui è conservato anche l'Archivio G. Lanza, donato dagli eredi e costituito da 855 pezzi originali, mentre alcune lettere a Cavour sono nell'Archivio Cavour. Presso il Museo del Risorgimento di Torino, oltre a copie dattiloscritte dei documenti raccolti da De Vecchi e Colombo, si trovano numerose lettere e alcuni scritti originali riuniti nel Fondo Lanza; altri sono conservati negli archivi Berti, Dina, Durando, Govone, Museo, Zini. Lettere del L. sono inoltre a Biella, presso la Fondazione Sella e l'Arch. Ferrero della Marmora, nonché nella Fondazione Camillo Cavour di Santena.

Oltre alle indicazioni fornite da M. Belardinelli, La politica interna, in Bibliografia dell'età del Risorgimento in onore di Alberto M. Ghisalberti, II, Firenze 1972, p. 673 (ma cfr. anche la continuazione, a opera dello stesso autore, nell'aggiornamento 1970-2001, III, Firenze 2003, p. 1446), si vedano: La vita e i tempi di G. L.: memorie ricavate da suoi scritti…, a cura di E. Tavallini, I-II, Torino-Napoli 1887; G. Prato, Fatti e dottrine economiche alla vigilia del 1848. L'Associazione agraria subalpina e Camillo Cavour, Torino 1920, ad ind.; F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 (1951), Roma-Bari 1997, ad ind.; P. Alatri, Lotte politiche in Sicilia sotto il governo della Destra (1866-1874), Torino 1954, ad ind.; C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica: da Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), Milano 1964, ad ind.; G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, V, Milano 1971, pp. 336 s., 350-381, 406 s.; R. Romeo, Cavour e il suo tempo, II, (1842-1854), Roma-Bari 1977, t. I, pp. 14, 36, 38, 79 s., 108 s., 272, 311, 322 s., 392 s., 395, 410; t. II, pp. 571, 670, 726; III, (1854-1861), ibid. 1984, ad ind.; G. L. un casalese per l'Italia dell'Ottocento (catal.), a cura di M. Cassetti - G. Ferrero, Casale Monferrato 1982; R. Berardi, Scuola e politica nel Risorgimento. L'istruzione del popolo dalle riforme carlalbertine alla legge Casati (1840-1859), a cura di R. Berardi, Torino 1982, pp. 97, 118, 140 s., 171-175, 238 s.; G. Ciampi, Il governo della scuola nello Stato postunitario. Il Consiglio superiore della pubblica istruzione dalle origini all'ultimo governo Depretis (1847-1887), Milano 1983, pp. 16-30, 32, 135, 144, 148 s., 175, 199-203, 211 s., 219 s., 233; G. L. e i problemi dell'agricoltura piemontese nel secolo XIX. Atti del Convegno… 1982, a cura di N. Nada, Casale Monferrato 1983; C. Ghisalberti, G. L., in Il Parlamento italiano…, III, 1870-1874. Il periodo della Destra, Milano 1989, pp. 321-343; A. Berselli, L'XI legislatura e il ministero Lanza, ibid., pp. 79-99; E. Morelli, G. L., A. Depretis, B. Cairoli, Roma 1990, pp. 5-42; A. Viarengo, Tendenze radicali nel liberalismo subalpino pre-quarantottesco, in Riv. storica italiana, CIV (1992), pp. 425, 436 s.; Id., Verso le riforme. Lorenzo Valerio negli anni dal 1842 al 1847, in L. Valerio, Carteggio (1825-1865), II, (1842-1847), a cura di A. Viarengo, Torino 1994, pp. XXXVI, XLII, LXXIII, LXXX-LXXXVII, 464, 483, 526, 586; S. Polenghi, La politica universitaria italiana nell'età della Destra storica (1848-1876), Brescia 1993, ad ind.; C.M. Fiorentino, Chiesa e Stato a Roma negli anni della Destra storica 1870-1876. Il trasferimento della capitale e la soppressione delle corporazioni religiose, Roma 1996, ad ind.; A. Berselli, Il governo della Destra. Italia legale e Italia reale dopo l'Unità, Bologna 1997, ad indicem.

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