LOMAZZO, Giovanni Paolo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 65 (2005)

LOMAZZO, Giovanni Paolo

Roberto Ciardi

Nacque a Milano il 26 apr. 1538 da Giovan Antonio di Giorgio e da Francesca Mozzanica, originaria della zona di Melegnano.

Non si conosce l'attività del padre, ma si può legittimamente supporre che egli non fosse del tutto estraneo alle arti figurative, dato che dei suoi sei figli ben tre (il L., Pomponio e Cesare) intrapresero il mestiere di pittore, e un quarto, Girolamo, fu avviato a quello, per più aspetti analogo, di ricamatore. Nulla invece è possibile dire su eventuali legami di parentela con altri pittori di cognome Lomazzo (Giovanni di Bartolomeo e suo figlio Raffaele), attestati a Lugano, Milano e Lodi fra il terzo e il sesto decennio del Cinquecento (Klein, in Lomazzo, Idea, 1974, p. 460).

Queste notizie, in parte rese note di recente sulla base di nuove, accurate ricerche documentarie (Giuliani - Sacchi, in Rabisch, il grottesco…), completano quanto il pittore stesso volle trasmettere su di sé ai posteri nell'autobiografia in versi posta in appendice all'edizione delle Rime (1587).

Poche le indicazioni che il L. fornisce sull'istruzione ricevuta, che rientra nelle consuetudini del tempo: fino a dieci anni si applicò a leggere, a scrivere, a far di conto, ma imparò il "maneggiar de libri" e studiò la musica, avendo come maestro Giovan Michele Gerbo (Rime, pp. 401 s.); accenni, questi, importanti per i futuri sviluppi degli interessi del L., così come lo è l'annotazione di aver sempre avuto "la mente intenta al disegnar". Fu per assecondare questa propensione che il padre lo pose alla scuola del pittore novarese, attivo anche a Milano, Giovanni Battista Della Cerva, allievo e collaboratore di Gaudenzio Ferrari. Il riscontro documentario conferma che ciò avvenne quando il L. era quattordicenne. Il discepolato si interruppe poco prima del 1559, per una lite che oppose i Lomazzo a Della Cerva, lite che peraltro non incrinò a lungo i buoni rapporti tra il L. e il suo primo maestro (nel 1564 anche un fratello del L., Cesare, venne posto a bottega presso Della Cerva: Giuliani - Sacchi, in Rabisch, il grottesco…, p. 330).

Nel 1561 il L. era già emancipato e l'anno successivo una patente rilasciata a nome di Filippo II lo definiva "pictorem… notissimum, inter primos civitatis" (Id., ibid., p. 329).

Molto di quanto raccontato dal L. nella vita in versi risulta convalidato dalla testimonianza dei documenti e dalle date non di rado apposte sui dipinti. Il soggiorno a Roma, forse non l'unico, motivato dal desiderio di "veder le pitture et anticaglie", va collocato subito dopo l'agosto 1561, quando il L. si recò da Milano ad Arona per ritrarre Gerolama Borromeo ed Eleonora d'Asburgo sua ospite (Rime, p. 532; Bora, 1989, pp. 78 s.; Giuliani - Sacchi, in Rabisch, il grottesco…, p. 329) e prima del gennaio 1564, quando, nuovamente a Milano, ritrasse "molti principi Alemani" giunti al seguito di Ernesto e Rodolfo di Asburgo (ibid.). Nell'ottobre del 1561 il L. era comunque già assente; e dovette farsi rappresentare da un procuratore nell'atto della sua emancipazione. A Roma era stato benevolmente accolto da Pio IV, il papa di origine milanese, morto nel 1565 (Ciardi, in Lomazzo, Scritti sulle arti, I, p. VIII). Risulta quindi infondata l'ipotesi intesa a posticipare questo avvenimento al 1568-71 (Isella, in Rabisch, 1993, p. 356).

Viva, in ogni caso, l'esigenza di rendersi conto direttamente della cultura artistica dell'Italia centrale, fino a quegli anni non particolarmente nota e diffusa a Milano: il L., come si ricava dal Libro de sogni, fu conoscitore precoce e attento dell'edizione torrentiniana delle Vite di G. Vasari.

Il percorso incluse probabilmente una sosta a Bologna (un possibile accenno è in Rime, p. 303), un'altra a Firenze, "illustre e ricca" di opere d'arte (Trattato, p. 587), e proseguì poi fino a Napoli e Messina (per il viaggio a Messina si veda Klein, in Lomazzo, Idea, 1974, p. 452). Nella capitale toscana il L. fu particolarmente interessato alla pittura dell'alta maniera: il vivo apprezzamento nel Trattato, nelle Rime e nel Rabisch per artisti come il Rosso Fiorentino, Polidoro da Caravaggio, Perin del Vaga, Vasari, il Salviati (Giuseppe Porta), menzionato in particolare per gli affreschi in palazzo Vecchio, e persino del meno noto Girolamo Macchietti, sembra fondarsi sul ricordo di una presa d'atto diretta.

A Napoli ebbe l'occasione di conoscere Marco Pino: la descrizione del pittore che in casa sua "dentro un cesto, tutto contratto[…] tirato in alto con le corde dai servitori fino al luogo dove[…] aveva da rappresentare su di un'ancona paesi, uomini e drappi" (Rabisch, 1993, pp. 132 s.), si configura come una rappresentazione icastica che non può essere ridotta nei termini di un'allegoria allusiva, data la precisa, e realistica, corrispondenza con i noti accorgimenti tecnici necessari all'esecuzione di opere di pittura di grandi dimensioni, come appunto quelle gigantesche pale d'altare che Marco Pino aveva cominciato a dipingere, proprio negli anni vicini alla metà del settimo decennio, per varie chiese napoletane. Fu nel corso di questi incontri che "Marco da Siena" confidò al L. il precetto di Michelangelo che si "dovesse sempre fare la figura piramidale, serpentinata e moltiplicata per uno, doi e tre" (Trattato, in Scritti sulle arti, 1975, p. 29), frase celebre che è stata poi, per più aspetti, all'origine della notorietà del Lomazzo.

In precedenza non erano mancati rapporti diretti con l'ambiente piemontese, assai legato, pure sul versante artistico, per tutto il Cinquecento e oltre, a quello lombardo, proprio anche attraverso Gaudenzio e seguaci, uno dei quali, Della Cerva, era stato maestro del Lomazzo. Gli accenni contenuti nelle Rime rendono possibile un soggiorno a Torino, avvenuto tra il 1556 e il 1559 (Rime, pp. 158, 302; Ciardi, in Lomazzo, Scritti sulle arti, I, p. VIII); ed è da sottolineare che il L. avrebbe dedicato a Carlo Emanuele di Savoia, asceso al ducato nel 1580, e ricordato con ammirazione nell'ultima parte dell'autobiografia, proprio il Trattato.

Più determinanti i risultati del viaggio in quelli che erano, allora, i "paesi fiamminghi", che permisero al L. di costituirsi come fonte principale per la conoscenza dell'arte di quelle regioni, da lui tenuta in grande considerazione (ed era opinione tutt'altro che generalizzata) fin dal giovanile Libro de sogni.

L'indipendenza nei giudizi, i riferimenti aneddotici inediti e gli accenni a soprannomi caratteristici e altrimenti ignoti, rispetto non solo alla seconda edizione delle Vite di Vasari (1568), ma anche a fonti primarie come la Descrittione di tutti i Paesi Bassi di Lodovico Guicciardini (1567) e le Pictorum aliquot celebrium Germaniae inferioris effigies di Domenico Lampsonio (1572), avvalorano l'importanza degli scritti del L. come punto di riferimento e rendono affidabile la notizia presente nelle Rime (p. 107) di un suo soggiorno ad Anversa. La descrizione precisa, anche dal punto di vista cromatico di opere ignote in Italia (Klein, in Lomazzo, Idea, 1974, p. 452), l'inserimento nel racconto di dettagli tratti dal vissuto quotidiano (la malattia che colpì il L. ad Anversa; l'allusione alla dipsomania di Frans Floris, l'eminente pittore con il quale aveva stretto amicizia), ma anche la precisione nel riscontro esatto e comprensivo delle peculiarità stilistiche di artisti come Maarten van Heemskerk, conosciuto nel corso del viaggio, rendono difficile pensare di essere di fronte a quelle visioni oniriche o a quei fantasiosi "capricci" con funzione allusiva ed emblematica che ingolfano tanta parte della produzione poetica del Lomazzo. Ad Anversa, infine, il L. entrò in rapporto con quel Guglielmo Huysmann che gli dedicò un carme latino, poi pubblicato in esergo all'editio princeps del Trattato.

L'autobiografia in versi, alla quale ci si è più volti riferiti, è anche la fonte principale per ricostruire il catalogo delle opere pittoriche del L. (e tuttavia anche in questo si rivela incompleta, il che rende plausibile supporre altre omissioni di dati e di vicende biografiche) e rendiconta su un'attività intensa, quasi incredibile, se si pensa che fu compresa nello spazio di poco più di un quindicennio, data la cecità che colpì il L. nei primi mesi del 1572.

Gran parte delle opere realizzate è andata distrutta o dispersa. Soprattutto nulla ci è pervenuto, salvo gli Autoritratti di Brera e di Vienna, degli esemplari ricordati in quello stupefacente elenco di quasi cento ritratti nei quali il L. dichiara di essersi cimentato fin dagli anni di apprendistato, per dedicarvisi poi con continuità una volta diventato pittore affermato, prima e dopo il viaggio a Roma, fin quando gli fu possibile dipingere. E se anche è lecito supporre che non sempre si sia trattato di vere e proprie opere pittoriche, ma anche di disegni di elevato grado di completezza, lumeggiati e cromaticamente definiti, secondo un uso assai vivo in quel periodo a Milano, occorre dire che si è di fronte a un caso raro in Italia (per l'importanza del genere "ritratto" nel L. si veda Pommier).

L'ampio regesto dei ritrattati, in gran parte appartenenti all'alta nobiltà, non solo milanese o italiana, ma anche spagnola e tedesca, fornitoci con compiacimento dallo stesso autore, si articola per serie distinte e collegate, nel riflesso della tradizione gioviana: uomini di chiesa e uomini di mondo, condottieri e letterati, ambasciatori e astrologi, poeti e musici, dame titolate, raffigurate accanto ad animali aristocratici e simbolici, e bellissime cortigiane d'alto bordo, rappresentate nude in figura di Venere.

Più usuali gli altri momenti del suo percorso operativo. La collaborazione con Della Cerva, dal quale fu impiegato a dipingere "fregi e partimenti vari con cartozzi trofei paesi e frutti", e cioè parerga decorativi in opere di più ampio respiro, forse ad affresco, difficili da identificare poiché di Della Cerva stesso mancano opere note totalmente autografe, si inquadra nei compiti normalmente riservati all'artista tirocinante.

Per il resto, il catalogo di quanto è pervenuto si limita, se si eccettuano gli autoritratti ricordati, a opere di carattere sacro, e nessuna notizia si ha di quei "molti" soggetti "profani" ai quali accenna il L. (Rime, p. 530).

Gli affreschi in S. Maria Nuova a Caronno Pertusella, non lontano da Varese, databili al 1556 (Marani) quando il L. non si era ancora accreditato come pittore autonomo, dichiarano, attraverso una marcata derivazione dai modi di Aurelio Luini, la deferenza verso l'incombente tradizione vinciana. Ma già la copia, di poco successiva (1560), dall'Ultima Cena di Leonardo, realizzata per il refettorio di S. Maria della Pace a Milano, perduta ma analizzabile dalla superstite documentazione fotografica, mostra una progressiva presa di distanza da Leonardo nelle durezze luministiche, nella decisa geometrizzazione dei partiti architettonici, nell'accentuazione forzata dei panneggi e delle figure, quasi un'ironica sottolineatura di possibilità linguistiche alternative, che si fa marcata in quei "piedi così giganteschi da far paura", come ebbe a rilevare con biasimo Carlo Bianconi nel 1787 (in Bora, 1989) e corrisponde al ridimensionamento del mito di Leonardo e al superamento degli imposti lombardi attraverso la legittimazione e la contaminazione di altre esperienze artistiche diversificate che si osservano anche nel Libro de sogni che il L. andava componendo proprio in quegli anni: egli, infatti, replica dal Bramantino (Rime, p. 182) ed elegge come venerato punto di riferimento, dal quale trarre varie desunzioni, Gaudenzio; ma copia anche G.G. Savoldo, Raffaello (Giuliani - Sacchi, in Rabisch, il grottesco…, pp. 324-330) e Tiziano.

Il distacco stilistico si fa evidente nelle opere successive al rientro da Roma. Significativo, a questo proposito, il piccolo Crocifisso, attualmente di ignota collocazione, siglato e datato 1565, nel quale l'evidenza della stessa cifra chiastica, traguardata specularmente recto-verso, dei due angioletti che raccolgono il sangue di Cristo, rimanda alla cultura tosco-romana; il rapporto che è stato istituito con l'Agonia nell'orto (simili anche le dimensioni) della Pinacoteca Ambrosiana, eccezionale brano di luminismo costruttivo (Rossi - Rovetta, con bibliografia precedente), indica la polivalenza degli interessi culturali del Lomazzo.

L'Incontro di Abramo e Melchisedech nella libreria di S. Maria della Passione a Milano (1564 circa, per Giuliani - Sacchi, in Rabisch, il grottesco…, p. 330; Isella, in Rabisch, 1993, p. 356, equivoca circa l'esistenza di un analogo affresco nella libreria di S. Maria della Pace) e la Cena quadragesimale nel convento di S. Agostino a Piacenza (1567) sono perduti. Ma la seconda può ancora essere presa in considerazione sulla base della documentazione fotografica disponibile e del disegno preparatorio di Windsor. L'impietoso giudizio di Luigi Lanzi che vi vedeva un "miscuglio di sacro e di ridicolo, di Scrittura e di taverna" (Porzio, in Rabisch, il grottesco…, p. 23) nasceva anche dal disagio di interpretare un soggetto di ardua e complessa decifrazione tematica (Id., ibid., pp. 313 s.), ma contemporaneamente rilevava l'ambiguità stilistica nell'accostamento del lessico manierista centroitaliano (la prospettiva scalata diagonalmente, l'eccedenza delle comparse figurative e dei pretesti decorativi, secondo cifre compositive diffuse da Vasari e seguaci, e proprio nella tipologia del convito) al fondale di preciso accosto fiammingo (Cardi, 1996), che si accordava a dati culturali ben noti a Milano, anche attraverso la diffusione delle stampe nordiche.

Queste "rare carte forastiere" dovettero essere presenti in maniera cospicua in quella raccolta di grafica, ricca di quattromila pezzi che il L. aveva radunato, appunto, per trarne ispirazione: "per svegliar la sonnacchiosa mente" (Rime, p. 542; Trattato, II, p. 348). E se nel L. pittore appaiono sottotono e marginali le inclinazioni, così spesso ricorrenti in questi fogli, per il descrittivismo fantastico e per il diffuso consenso agli aspetti trasgressivi rispetto alla norma e alla forma classicistiche, nonché per le tematiche stravaganti, di ambigua decifrazione, o francamente caricate e deformi, va detto che a esse si volge per tempo la simpatia del L. scrittore, poeta e trattatista. L'interesse verso questa cultura figurativa con la quale era stato possibile per il L. stabilire contatti già durante il soggiorno a Roma e nell'Italia meridionale, date le presenze artistiche là attive (ed era un caso affatto diverso rispetto al "grottesco" vinciano, ben noto al L., che aveva destinazione privata e intento scientifico e dimostrativo, non narrativo), trovò incremento e sviluppo nel corso del viaggio nei Paesi Bassi del quale si è detto. Quanto questo sia stato determinante nella definizione stilistica ed espressiva del L. lo prova il confronto tra il giovanile Autoritratto del Kunsthistorisches Museum di Vienna, databile intorno al 1560 (Porzio, in Rabisch, il grottesco…, p. 311), che nell'impostazione classicista del profilo isolato su fondo scuro uniforme rimanda alla tradizione quattro-cinquecentesca, ancora viva tra i seguaci di Leonardo, e l'Autoritratto come abate dell'Accademia della Valle di Blenio, ora a Brera, posteriore all'agosto del 1568 (per la cronologia del soggiorno ad Anversa, da situare nella seconda metà del settimo decennio, si veda Ciardi, in Lomazzo, Scritti sulle arti, I, p. VIII; è da aggiungere che non si hanno notizie del L. a Milano dal maggio 1567 all'agosto 1568), dove l'impostazione del volto di tre quarti e inclinato verso il basso, lo sguardo sfuggente, la smorfia aggrottata, che sono d'uso nella pittura nederlandese dell'epoca, marcano un'intenzionalità discorde rispetto al ritratto cinquecentesco italiano, frontale, diretto ed eroico.

Anche nel Noli me tangere già nella chiesa milanese di S. Maria della Pace, ora nel Museo civico di Vicenza (circa 1568), i ricordi da Antonio (ma anche da Giulio) Campi che sono stati giustamente osservati (Il Cinquecento lombardo…, p. 438), appaiono riconsiderati in versione nordica per l'incidenza del lume, tagliente e corrusco, che rivela le forme (appaiono qui le tipiche mani sventaglianti definite in controluce) e per la straordinaria intensità della resa dei panni, ma anche per l'insistenza su un devozionalismo di tradizione transalpina nella sottolineatura delle piaghe del Cristo, irradiate d'oro, quasi incluse in un reliquiario, invenzione certamente apprezzata nella Milano borromaica, dove aveva acquistato grande importanza la Confraternita dei Sacri Chiodi.

Nel Cristo in Pietà con le Marie già nella chiesa dei cappuccini a porta Vercellina e ora nell'ospedale Marchesi di Inzago (presso Milano), più o meno coevo, le evocazioni di stampo michelangiolesco (ma anche le citazioni dai fiorentini di inizi Cinquecento) si fanno più avvertibili; mentre nel S. Francesco che riceve le stigmate nella chiesa milanese di S. Barnaba (circa 1568) i ricordi di tradizione leonardesca (sono stati notati quelli da Cesare da Sesto: si veda Porzio, in Rabisch, il grottesco…, p. 314) vengono declinati nei termini di un manierismo gelido e scultoreo, accentuato da una luce sferzante e violenta che richiama i toni della pittura tarda di Heemskerk. Analoga l'impostazione compositiva e lessicale della Natività (datata 1570), ora nella parrocchiale di Boffalora d'Adda, ma proveniente da S. Romano di Lodi (disperse le altre due tavole con la Madonna della Neve e la Madonna del Serpe), nella quale la preferenza per le figure viste di profilo e la vitalità fisica e la trattenuta verità delle espressioni paiono ispirate alle scelte stilistiche di Floris.

L'arredo pittorico della cappella Foppa in S. Marco a Milano (1570-71: affreschi con Caduta di Simon Mago e S. Paolo risuscita Eutico sulle pareti; Profeti, Sibille, Evangelisti nella cupola; Gloria angelica nell'abside; pala d'altare, datata 1571, con la Madonna col Bambino e i ss. Pietro, Paolo e Agostino) costituisce la più importante impresa del L., non solo per la mole del lavoro e la concorrenza di tecniche operative diverse, ma anche come dichiarazione di intenzionalità stilistiche e poetiche; e in effetti è quella più spesso ricordata dal L. stesso; oltre che nelle Rime (p. 537), vi allude nel Trattato (II, p. 147) proponendola come esempio della rappresentazione dei moti e degli affetti, e la cita espressamente come modello di costruzione e di resa prospettica (ibid., pp. 279, 325).

La decorazione presenta il più completo - e complesso - risultato nel percorso di aggiornamento della componente artistica lombarda, attraverso la mediazione e la contaminazione con gli esiti del manierismo dell'Italia centrale, programma nel quale il L. si impegnò anche in sede teorica. Le reminiscenze da Donato Bramante e da Vincenzo Foppa nell'impostazione delle figure, e le esplicite ricognizioni da Gaudenzio (Bora, in Rabisch, il grottesco…, p. 59; Giuliani - Sacchi, ibid., p. 324) sono organizzate secondo parametri che le adeguano al lessico compositivo centroitaliano: si osservino la tipologia, ancora rara in terra lombarda, del "quadro riportato" sulle pareti; la violenza degli scorci, con dichiarata adesione alla cultura delle ultime stanze vaticane, e in generale, della decorazione parietale romana di quegli anni; il gigantismo michelangiolesco e la gagliarda animazione dei personaggi, appoggiata sui ricordi di Giovanni Demio in S. Maria delle Grazie e del momento romano e bolognese di Pellegrino Tibaldi.

Dei due Cristo in croce con la Madonna e s. Giovanni (1571) ricordati dal L. nell'autobiografia (Rime, p. 538) come esistenti in S. Giovanni in Conca, uno si trova adesso nella parrocchiale di S. Antonio Abate a Valmadrera nei pressi di Lecco (Moro, 1993; Palmieri, 2002; Lanzeni, 2003), l'altro, dove compare anche la Maddalena, è da identificarsi con il dipinto ora a Brera, eseguito per il "nipote del gran Durero", il figlio di quel fratello, Andreas o Hans, che fu attivo a Milano (lettera di David de Marchello a W. Pirckheimer del 26 maggio 1511: Ciardi, in Lomazzo, Scritti sulle arti, I, p. VII): logico, quindi, l'ardente omaggio alla grafica di A. Dürer.

L'Orazione nell'orto già nella cappella Goselini in S. Maria dei Servi, ora nel convento di S. Carlo al Corso, sempre a Milano, si inserisce nella scontata formulazione del "notturno", e ammette i riferimenti che sono stati proposti al Correggio, a Gaudenzio e ai Campi. Ma se l'opera fu veramente condotta a termine - la data appostavi, 1572, collima con l'inizio della cecità che colpì il L. - allora l'impiego della tavolozza così parsimoniosa da rasentare la monocromia, i toni smorzati, la sprezzatura della definizione pittorica e il programmatico antigrazioso delle figure, indicano un'intenzionale eversione del dettato della bella maniera, per la quale il L. poteva sentirsi giustificato dal ricordo delle opere napoletane e messinesi di Polidoro, il pittore così ammirato negli scritti da essere incluso tra i sette "governatori" della pittura, e al quale si era riferito, con più pacato distacco, anche in opere precedenti (Porzio, 1988, p. 258).

È ormai da tempo accertata (Ciardi, in Lomazzo, Scritti sulle arti, I, pp. LII-LX) la sostanziale unità di intenti e di configurazione mentale che unifica la produzione artistica e quella letteraria del Lomazzo. Perciò la cecità sopravvenuta a soli trentatré anni, impose che fossero sviluppati solo per mezzo dell'espressione verbale interessi già ben compattati e organici, presenti fin dagli anni giovanili.

Il Libro de sogni, unico scritto del L. di cui si conserva il manoscritto autografo (Londra, British Library, Add. Mss., 12196), composto intorno al 1563 e rimasto inedito fino ad anni recenti (Ciardi, in Lomazzo, Scritti sulle arti, I, p. LXXXII), tende a configurarsi come un ipertesto nel quale la parte scritta doveva integrarsi con quella figurata. Agli inizi di ciascuno dei "Ragionamenti" in cui l'opera è suddivisa (dei sedici previsti ne furono condotti e termine sette), esiste lo spazio per una composizione grafica, poi non realizzata, la cui funzione non doveva essere semplicemente descrittiva, ma introduttiva e allusiva, così che la comprensione del testo trovasse completamento nelle immagini, secondo quella sinergia visiva e verbale che determina l'intelligenza degli emblemi e delle imprese, strutture comunicative così diffuse e importanti nella cultura letteraria e figurativa di quegli anni. Alla fine di ogni "Ragionamento" sono elencati venticinque capoversi, che nella quasi totalità si identificano con quelli delle composizioni poetiche che dopo un quarto di secolo sarebbero state pubblicate nelle Rime. Come appunto dichiara la pagina introduttiva preposta al Libro de sogni, quest'ultimo era stato concepito come esplicazione e commento di ben quattrocento sonetti composti dal L.: poesie "visive", perché relative a sogni, immagini fantastiche e capricci che erano passati nella mente dell'autore, e avevano trovato e trovavano corrispondenza e concretezza in quelle composizioni pittoriche, allusive e simboliche, relative anche a temi astrologici, ricordate nelle Rime, le quali appunto, come è espressamente affermato, erano state raccolte "ad imitazione de i grotteschi usati da' pittori" e contenevano non solo "storie antiche e moderne, sentenze e avvertimenti" ma anche "grilli, chimere, caprizzi e bizzarrie sotto metafora […] non solo dilettevoli per la varietà delle invenzioni, ma utili ancora per la moralità che vi si contiene".

Se, dunque, il Libro de sogni fosse stato completato (quanto ne resta è calcolabile in meno della metà del programma originario) si sarebbe presentato come un testo con ambizioni di pansofia: dai nomi dei personaggi che intervengono nei dialoghi in cui il Libro è strutturato è possibile arguire che sarebbero stati affrontati argomenti di letteratura, di storia, di filosofia, di esoterismo, di scienze esatte e naturali, di musica, di arte antica e moderna, di teologia, di magia; ma anche materie più legate al vissuto, come la danza, la scherma, l'amore e l'erotismo: un'epitome compilatoria che intendeva tenere presenti tutti i temi più in vista della cultura cinquecentesca.

Perciò non solo la sopravvenuta cecità, ma anche l'estrema difficoltà di gestione portarono all'accantonamento del progetto, e alla sua riconfigurazione, con drastiche riduzioni e incrementi mirati, in due opere dedicate esclusivamente, almeno nell'intenzionalità, alle arti figurative: il Trattato dell'arte de la pittura, scoltura et architettura e l'Idea del tempio della pittura, ambedue edite a Milano, rispettivamente nel 1584 e nel 1590.

Mentre il Trattato si presenta con ambizioni dichiaratamente enciclopediche (vi "si contiene tutta la teoria e la pratica d'essa pittura"), l'Idea appare orientata verso una dimensione più teorica (vi "si discorre dell'origine e fondamento delle cose contenute nel trattato").

In realtà anche il Trattato, diviso in sette libri (evidente il valore simbolico del numero delle ripartizioni, adottato già nelle Rime), se da una parte si inserisce nel filone della precettistica rinascimentale e ne tiene presenti e ne utilizza i precedenti più noti e diffusi, da L.B. Alberti a Dürer, a S. Serlio, a Vasari, recuperando attraverso di essi, ma talvolta anche con riscontri di prima mano, le premesse classiche di Vitruvio e di Plinio e gli studi medievali sull'ottica, così da esaurire i temi tradizionali in materia (proporzione, moti e affetti, colore, luce, prospettiva, composizione, convenienza degli argomenti sacri e profani e loro correttezza iconologica), appare soprattutto interessato alla dimensione ideale e metafisica dell'operare artistico, inteso più come metodo di conoscenza che come esercizio di rappresentazione di una natura che, oltre il dato visibile, si configura in un universo di immagini nascoste e complesse che è compito del pittore rivelare e interpretare. Al di là di un'adesione dovuta e formale, il Trattato, accantonata la rinascimentale, indefettibile certezza sull'obiettività e totale possibilità delle tecniche di raffigurazione delle parvenze esterne, preferisce porsi come direttiva e incitamento per l'incessante produzione di forme nella mente che trae alimento da quei rapporti di intima consonanza, necessità e dipendenza che legano l'uomo al mondo, il mondo ai cieli, le passioni e i comportamenti umani, vissuti e rappresentati, alle armonie e disarmonie del cosmo (Klein, in Lomazzo, Idea, 1974, pp. 476-482).

Da qui l'equivalente possibilità creativa che collega, ben oltre la scontata questione dell'analogia o superiorità, la pittura con la poesia, e, in particolare ambedue con la musica, intesa come riferimento per ogni attività artistica, in quanto modello dei rapporti matematici su cui si fonda l'essenza della natura e perciò codice al quale rapportarsi per organizzare la teoria delle proporzioni dei corpi, degli edifici, di ogni realtà rappresentabile, oltrepassando la semplice riproduzione mimetica del dato sensibile, per giungere alle ragioni prime che vi sono sottese e delle quali le parvenze esterne sono simbolo, geroglifico e cifra.

Il ricorso alle fonti ermetiche, magiche, cabalistiche, sulle quali si appoggia buona parte del Trattato, costituisce un coerente sviluppo di quanto era stato possibile rilevare già nel Libro de sogni e serve da base all'Idea del tempio della pittura. I debiti di questo testo con la filosofia di Marsilio Ficino, in particolare con il Commento sopra il Simposio, furono già rilevati, negli anni Venti del Novecento, da Erwin Panofsky. È però da avvertire che gli evidenti ricorsi del L. al neoplatonismo e al pitagorismo non costituiscono un ritorno a certe ideologie tardoquattrocentesche, ma si collocano in quella dichiarata simpatia, propria del secondo Cinquecento, per le interpretazioni in chiave astrologica, fisionomica, temperamentale e magica intese a proporre metodi di comprensione e spiegazione unificanti tra uomo, natura e mondo soprannaturale.

La teoria dei "sette governatori", cioè dei sette pittori proposti come modelli canonici per le varie modalità del perfetto dipingere, che è il tema di base dell'Idea, è concezione antichissima che deriva dai sette maestri sapienti della Grecia e mette in relazione indole e possibilità mentali con le influenze astrali e le peculiarità di animali o elementi che le caratterizzano per analogia o allusione simbolica (Klein, in Lomazzo, Idea, 1974, pp. 476-480, 549-571). Affermare la sostanziale equipollenza fra i sette governatori della pittura, ciascuno posto in relazione con un pianeta, un animale, un metallo che ne definiscono le qualità caratteristiche e temperamentali secondo la simbologia d'uso, portava al superamento della concezione manierista dell'imitazione da un unico modello canonico, e proponeva un ampio ventaglio di possibilità offerte all'estro creativo. Michelangelo è perfetto nel disegno, come Leonardo nel lume, Tiziano nel colore, Andrea Mantegna nella prospettiva, Gaudenzio nell'espressione, Raffaello nella grazia, Polidoro nella forza. Questi, i concetti innovativi che è possibile rintracciare con evidenza nella trattatistica del L., anche se nei testi dati alle stampe essi vengono inquadrati entro strutture espositive e schemi tradizionali che ne offuscano la carica antitradizionalista e spregiudicata.

Resta il problema di quanto, e quale, sia stato l'apporto dei collaboratori che intervennero, dopo la cecità del L., nella redazione finale dei testi, anche in funzione di un necessario compromesso con le idee correnti. La possibilità di un impatto abbastanza profondo è già stata avvertita (Ciardi, in Lomazzo, Scritti sulle arti, I, p. XVI; Isella, in Rabisch, 1993, p. LXI). Certamente sono aggiunte non autografe la bibliografia sui generis posta alla fine del Trattato, non congruente con gli autori citati nel testo (Ciardi, in Lomazzo, Scritti sulle arti, I, p. XIX), così come sembra avventato assumere gli indici dei nomi come integrazione e aggiornamento dei giudizi del L. su singoli artisti (Le tavole del L.), poiché si tratta di revisioni posteriori, dovute ad altra mano e ad altra mentalità che valgono in quanto censure e correzioni di rotta, come è già stato osservato per le Rime (Porzio, in Rabisch, il grottesco…, p. 33).

Ma la sostanziale originalità dell'approccio del L. all'attività e al giudizio artistico, radicato in una dimensione mentale che si apre a nuovi orizzonti e coinvolge in funzione primaria l'esercizio fantastico, aperto all'accettazione dei dati irrazionali ed extrasensoriali, mantenendo su un piano marginale i sistemi operativi e le classificazioni tecniche allora imperanti, risulta dall'immediato accoglimento di quella categoria dell'"idea", da lui proposta, che sarebbe stata subito determinante per la teoria di Federico Zuccari e, più tardi, per quella di Giovan Pietro Bellori.

Il L. morì a Milano il 27 genn. 1592.

Opere del L., tutte pubblicate a Milano presso Paolo Gottardo Da Ponte: Trattato dell'arte de la pittura, scoltura et architettura (1584); Rime (1587); Rabisch (1589: edizione moderna a cura di D. Isella, Torino 1993); Idea del tempio della pittura (1590: edizione moderna a cura di R. Klein, Firenze 1974); Della forma delle muse (1591: edizione moderna a cura di A. Ruffino, Trento 2002). L'Idea, il Trattato, il Della forma delle muse sono stati pubblicati insieme con il Libro de sogni a cura di R.P. Ciardi nei due volumi Scritti sulle arti, Firenze 1973-75 (con introduzione, commento e bibliografia precedente).

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