Pàscoli, Giovanni

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Poeta (San Mauro, od. San Mauro P., 1855 - Bologna 1912). Con la sua ricerca linguistica audacemente sperimentale, P. aprì la strada alla rivoluzione poetica del Novecento. Con la raccolta Myricae, la poesia italiana sembra scrollarsi di dosso le incrostazioni della tradizione per far riemergere le cose, la natura, fino ai più umili animali e alle più piccole piante, come se fossero stati appena scoperti dall'occhio umano. La metrica, la musica stessa del verso appare più libera, piena di echi e di rinvii che si prolungano nell'animo del lettore. I colori, gli odori e i suoni si mescolano per creare paesaggi e atmosfere che assumono un potere incantatorio, quasi ipnotico. In una prosa del 1897, Il fanciullino, P. definiva il suo modo di intendere e di fare poesia: il segreto era di affidarsi a uno sguardo nuovo come quello di un bambino che riscopre la realtà, ovvero ricrea il mondo liberandolo dalla patina delle abitudini. Quello sguardo è la poesia stessa dotata di sensi più sottili e audaci in grado di accedere al mistero che circonda la realtà e al dolore che minaccia anche le forme più splendenti.

VITA

Quarto dei numerosi figli di Ruggero e di Caterina Vincenzi Alloccatelli Vincenzi. Dal padre, Ruggiero, amministratore della tenuta La Torre dei principi Torlonia, lungo il Rio Salto, fu mandato a studiare, dopo la prima elementare, a Urbino, nel collegio Raffaello, tenuto dagli Scolopi. Qui egli si trovava con i fratelli Luigi e Giacomo, più grandi di lui, e Raffaele, quando lo raggiunse la notizia della morte del padre, ucciso in un agguato il 10 agosto 1867, mentre tornava in calesse da Cesena, dove si era recato per affari. L'assassino restò impunito, anche se non mancarono i sospetti, a lungo coltivati da Pascoli. L'anno dopo morirono la sorella maggiore, Margherita, e la madre, seguite dai fratelli Luigi (1871) e Giacomo (1876). Dal 1873, vinta una borsa di studio, Giovanni si era trasferito a Bologna a studiare lettere, allievo di G. Carducci, entrando in un periodo di sbandamento spirituale e d'irrequietezza. Amico di Andrea Costa, aderì ai primi movimenti socialisti e si legò agli ambienti dell'estremismo. Per aver partecipato, nel maggio 1876, a una manifestazione ostile nei confronti del ministro dell'Istruzione, R. Bonghi, perse la borsa di studio; dal 7 sett. al 22 dic. 1879 fu addirittura in carcere, accusato di attività sovversive. Ripresi nel 1880 gli studi interrotti, P. si laureò nel 1882 con una tesi su Alceo; subito dopo fu nominato professore di lettere latine e greche nel liceo di Matera; nel 1884 fu trasferito con lo stesso incarico a Massa, dove chiamò presso di sé le sorelle Ida (n. 1863) e Maria (n. 1865); dal 1887 al 1895 insegnò al liceo di Livorno. Dal 1895 al 1897, P. insegnò come professore straordinario grammatica greca e latina nell'università di Bologna; dal 1897 al 1903, come ordinario, letteratura latina a Messina; nel 1903 fu trasferito a Pisa, dove insegnò grammatica latina e greca sino al 1905, quando fu chiamato a succedere al Carducci sulla cattedra bolognese di letteratura italiana. Il prestigioso trasferimento, accettato come risarcimento tardivo, non rimase senza conseguenze per l'opera stessa del poeta. Più volentieri peraltro che alle relazioni intellettuali e all'insegnamento universitario, da lui sentito come un peso, P. applicava il suo ingegno allo studio e al lavoro poetico, a cui amava dedicarsi soprattutto in quella casa di Castelvecchio (oggi Castelvecchio P. nel comune di Barga) in Garfagnana, dove s'era sistemato nell'estate del 1895 e che soltanto nel 1902 aveva potuto acquistare. Qui si ritrovava con Maria, la sua Mariù (procurandogli un grande dolore, Ida s'era sposata il 30 settembre di quello stesso anno 1895, mentre egli aveva rinunciato ai propri propositi matrimoniali), appena glielo permettevano i doveri dell'insegnamento, e qui venne seppellito, pur essendo morto a Bologna. A Castelvecchio Maria restò sino alla sua morte (1953), gelosa custode delle memorie e delle carte del fratello (poi accessibili agli studiosi nell'archivio di casa P.), di cui lasciò un'importante biografia, Lungo la vita di G. Pascoli (post., 1961, con integrazioni di A. Vicinelli).

OPERE

Quelli della ricomposta unità familiare sono anni di grande tenerezza e di malinconica rassegnazione; l'atmosfera in cui maturarono le poesie di Myricae (se si eccettuano Il maniero e Rio Salto, che nella prima stesura risalgono al 1877, e Romagna, che risale al 1880). Del 1891 è la prima edizione di questo, che rimane il libro più tormentato di P., mentre nel 1892 il poemetto Veianus gli assicurava la medaglia d'oro nel concorso di poesia latina di Amsterdam (dove ne avrebbe ottenute negli anni successivi altre dodici. Contrariamente a quanto indurrebbe a supporre la cronologia delle sue pubblicazioni, la poesia pascoliana alternò sin dal primo momento temi minori e minimi a temi vasti e complessi; ma negli ampi cicli di ispirazione patriottica e nazionale che negli ultimi anni il poeta andava progettando, e in parte realizzò, influì certamente il fatto che egli si ritenne obbligato a raccogliere - contro la sua più genuina natura - l'eredità del Carducci, anche in quanto poeta della storia e della gloria nazionale (Le canzoni di re Enzio, pubbl. tra il 1908 e il 1909, e i Poemi italici, 1911, poi nel vol. post. Poemi italici e canzoni di re Enzio, 1914; gl'incompiuti Poemi del Risorgimento, pubbl. post. da Maria nel 1913 insieme con l'Inno a Roma e l'Inno a Torino, composti in latino e da P. stesso volti in italiano). È a questo improbabile vate che bisogna pensare, per capire come il socialismo umanitario a cui P. era approdato dopo il sovversivismo giovanile potesse svolgersi nella presa di posizione imperialista dell'orazione La grande proletaria si è mossa, pronunciata a Barga nel 1911, in occasione della guerra libica. Analogamente, avevano giocato un ruolo decisivo nella composizione dei Poemi conviviali (1904) l'invito a collaborare al Convito di A. De Bosis e le sollecitazioni di G. D'Annunzio. Dopo i tentativi giovanili (pubbl. da Maria nel vol. di Poesie varie, post., 1912, nuova ed. 1913), l'aspetto del poeta che per primo s'impone all'attenzione del lettore è indubbiamente quello di una grande sostenutezza formale incongruamente posta al servizio della riscoperta di cose «comuni» e «quotidiane». L'incongruità risulta stridente in rapporto alle esperienze eccezionali consegnate alla poesia nello stesso giro d'anni da D'Annunzio e, sia pure in maniera meno evidente, anche se riferita alla vena civile e alla magniloquenza di Carducci. Proprio in quanto «ultimo figlio di Virgilio», secondo una celebre definizione dello stesso D'Annunzio, P. si trova invece perfettamente a suo agio tra seminati e uccelli, tra opere e operai dei campi e dei villaggi, ma non per questo compie una ricerca meno audacemente sperimentale, anche in fatto di metrica, rendendo ulteriormente rigorosa la poesia barbara carducciana e, per tale sua maggiore fedeltà ai modelli classici, pervenendo a soluzioni molto più avanzate. Il suo è un polemico classicismo a oltranza, di cui il gusto antiquario dei Poemi conviviali (1904; nuova ed. 1905) e il latino dei Carmina (2 voll., post., 1914) costituiranno le prove più vistose. Ma lo stesso ambizioso ideale di emulazione, senza l'obbligo dei troppo diretti riferimenti tematici, vive già compiutamente nei versi della prima raccolta, nell'umile mondo delle «cose» della «campagna», dove «arbusta iuvant humilesque myricae», come recita il motto del libro, liberamente tratto dai versi iniziali della quarta egloga di Virgilio (Sicelides Musae, paulo maiora canamus. Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae «Muse di Sicilia, solleviamo il tono del canto. Non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici»), che in vario modo il poeta avrebbe utilizzato anche a contrassegno delle successive raccolte. Gli «occhi velati ma attenti» del poeta modernamente non possono che cercare, tra lo stupore e lo sgomento, le ragioni d'una pena segreta, mentre al nitore classico vengono restituite anche le sensazioni più sfuggenti, in una poesia che, a prescindere dalla realtà sulla quale si sofferma, si rivela capace, come quella antica, di recuperare, se non il parlato, un più ampio spettro tematico e una maggiore naturalezza. E poco male se, coerentemente con le convinzioni espresse nella prosa Il fanciullino (pubbl. sul Marzocco, 1897), la naturalezza viene per un paradosso riconquistata con un metodico abbassamento o quasi una regressione alla espressività infantile, sempre all'insegna di un'illusione di aderenza assoluta alle cose. Questo nodo indissolubile di ricordi infantili e reminiscenze letterarie che si stringe intorno a una campagna reale, è anche l'orizzonte culturale e linguistico straordinariamente determinato all'interno del quale soltanto, coniugando il minimo di artificio con la massima precisione, la memoria può nutrire una sua mitologia elementare, compensando il bene perduto (l'«infanzia» e la «madre», riassunti nel «nido») con il tentativo di ricomporre questo nido nelle dimensioni della coscienza e nel sacrificio della vita al raccoglimento sentimentale e intellettuale. Artista essenzialmente analitico, come tutti i simbolisti, il simbolista involontario P. vede e ama soprattutto i particolari, che trascrive con superstizioso rispetto della precisione, immerso in un'auscultazione ansiosa della realtà, che tendenzialmente degrada il linguaggio a onomatopea o viceversa a una pura nomenclatura, quasi magicamente sostitutiva della materiale datità degli oggetti designati. Quando il poeta passa poi dal semplice al complesso, dal quadretto alla scena, dalla scena al ciclo che celebri con un più largo respiro le opere e i giorni dei suoi contadini romagnoli e toscani, insomma dalle Myricae (1a ed., di ventidue brevi componimenti, 1891; 6a ed. defin. 1903) ai Poemetti (1897; 2a ed. accr. 1900; poi sdoppiatisi in Primi poemetti, 1904, e Nuovi poemetti, 1909), ai Canti di Castelvecchio (1903; 6a ed. defin. 1912), sempre identico appare il suo atteggiamento, come di chi analizza e scompone e disperde anche quando vuol costruire. Per apprezzare appieno la diversità delle strategie compositive seguite dal poeta, si deve allora avere l'accortezza di seguire più da vicino la tessitura pascoliana, che rimpiazza l'organizzazione sintattica del discorso con un andamento ellittico in cui regnano le analogie, attingendo esiti diversi, a secondo che predominino le soluzioni per le quali opportunamente si è parlato di impressionismo, o quelle, non solo narrative, di maggior impegno (per esempio, il recupero con intenti innovativi della terzina dantesca). In P. si riconosce spesso il punto di partenza del linguaggio poetico del Novecento, oltre che per la forte suggestione di una poesia pura ante litteram, svincolata dai temi convenzionali e problematicamente rapportata alla tradizione, anche per l'autorevole esempio da lui fornito di un'alternativa al monolinguismo lirico di ascendenza petrarchesca. Formatosi in una cultura dominata dal pensiero positivista, P. esprime nuove esigenze spirituali, sulla linea di tanti altri poeti e narratori italiani tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento. L'estrema piccolezza e labilità dell'uomo e dello stesso mondo è un dato della ragione; compito della poesia, egli dice, è farlo diventare un dato di sentimento; far diventare «coscienza» quello che è semplicemente «scienza». Ma per conto suo P. non compone il dissidio: la sua poesia «cosmica» nasce appunto dall'urto tra scienza e coscienza, tra l'uomo che sa di dover morire, e che tutto con lui morrà, e il fanciullino che non vuole rassegnarsi, che «non sa» morire. Il tema della morte, in cui confluisce quello della tragedia familiare (si pensi ad alcune delle più note poesie come Il giorno dei morti, X agosto, La cavalla storna), acquista in P. con gli anni un'importanza determinante. La morte è il «mistero» di fronte al quale non si può che arretrare impauriti, che provare sgomento come il bimbo del buio e cingere il proprio mondo di una siepe, concentrando lo sguardo e l'anima sulle cose concrete che ci sono d'intorno e dalle quali si può trarre una consolazione simile a quella d'una poesia inavvertita dai più. Tutto questo travaglio spirituale è naturalmente alle radici anche di quella parte dell'opera pascoliana che potrebbe sembrare più lontana dalla sua vita privata; cioè dei carmi in latino con la loro istituzionale ufficialità. In realtà, come nelle traduzioni tecnicamente perfette dai classici (raccolte da Maria nel vol. di Traduzioni e riduzioni, post., 1913, insieme con altre pregevolissime da poeti stranieri moderni), così nelle opere originali d'argomento classico, in latino e in volgare, P., oltre a spingere alle estreme conseguenze il suo sperimentalismo, mette alla prova la sua profonda identificazione sia sentimentale sia culturale con i poeti del mondo antico. Le poesie latine, i Carmina, a prescindere da un gruppo di epigrammi e di componimenti in metri lirici, constano essenzialmente di poemetti d'argomento romano, ispirati sia alle vicende politiche (Res romanae) sia alla storia letteraria di Roma (Liber de poetis), e d'argomento cristiano (Poemata christiana): questi ultimi, che costituiscono un gruppo a sé e rappresentano, in modo approssimativo dal punto cronologico, ma rigorosamente dal punto di vista spirituale, un'evoluzione del gusto poetico del P. latino, contengono alcune delle pagine più belle di tutta la produzione pascoliana. Ed è stato bene osservato che anche i Poemi conviviali - prendano essi lo spunto da Omero o da Platone, da Esiodo o da Apuleio o da Plinio - sono nella loro essenza, a prescindere dalla ricchissima e squisita decorazione a mosaico, la ricostruzione di una paganità pervasa dagli oscuri presagi della futura morale cristiana. Del resto la tendenza alla gnomica morale e politica, tendenza che trova la sua più precisa espressione nel volume di Odi e inni (1906; 3a ed. defin., post., 1913), è ben visibile in P. sin dalle Myricae, anche se con gli anni si accentua, giacché, in curioso contrasto con la poesia simbolista e con la stessa sua poetica, egli assegnò costantemente alla poesia una funzione ammaestratrice. Il poeta «fanciullino» che è sempre pronto a stupire di tutto, a scoprire il grande nel piccolo e il piccolo nel grande e nelle cose le «somiglianze e relazioni più ingegnose»; che non ha altro fine e altro bisogno se non quello di esprimere ingenuamente il suo candido stupore; questo romantico «fanciullo» è, e vuole essere, anche «predicatore». Ed è importante osservare come l'opposizione tra questi due termini, cioè tra la poesia-poesia e la poesia variamente moralistica, è del P. prima ancora che del Croce. ː P. teneva moltissimo ai suoi scritti di critica dantesca (Minerva oscura, 1898; Sotto il velame, 1900; La mirabile visione, 1902; Conferenze e studi danteschi, post., 1915), nei quali, riprendendo una tendenza esegetica che aveva avuto a campione G. Rossetti, approfondì gli studi sulla simbologia della Commedia. Nel poema, che sarebbe stato composto interamente a Ravenna dopo la morte di Arrigo VII, P. vide rappresentata la mistica morte in Cristo, mediante la quale si risorge alla vera vita. Dalla selva oscura del peccato originale l'umanità riguadagna la divina foresta del paradiso terrestre, riconquista cioè l'innocenza anteriore al peccato. Difficile riconquista perché l'Impero non svolge più la sua funzione e la fede non può condurre a salvezza se non è integrata dalla giustizia terrena. L'interpretazione mistica, non esente da pericolose sottigliezze, fu freddamente accolta; di che P. si accorava. Ma il meglio della sua opera di critico è nelle finissime osservazioni sparse nelle due antologie latine (Lyra, 1895; Epos, 1897) e nelle due italiane (Sul limitare, 1899; Fior da fiore, 1901), specialmente a commento dei poeti o dei momenti di poesia a lui più vicini. Si vedano infine le raccolte di prose: Miei pensieri di varia umanità (1903, in gran parte ristampata in Pensieri e discorsi, 1907); Patria e umanità (post., 1914); Antico sempre nuovo. Scritti vari di argomento latino (post., 1925). ː Tutte le opere di P. sono state pubblicate in quattro volumi: Poesie, con un avvertimento di A. Baldini (1939); Carmina, a cura di M. Valgimigli (1951); Prose, a cura di A. Vicinelli: I. Pensieri di varia umanità (1946); II. Scritti danteschi (2 tomi, 1952). Di Myricae esiste un'ed. critica, procurata da G. Nava (2 voll., 1974). Postuma è stata pubblicata la tesi di laurea di P., Alceo (1986).

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