PASCOLI, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 81 (2014)

PASCOLI, Giovanni

Giuseppe Nava

PASCOLI, Giovanni. – Quarto di ben dieci figli, nacque il 31 dicembre 1855 a San Mauro di Romagna (Forlì), da Ruggero e Caterina Alloccatelli Vincenzi.

Il padre, di famiglia ravennate, era amministratore della tenuta della Torre, di proprietà dei principi romani Torlonia. La madre dal lato materno era oriunda di Sogliano sul Rubicone. La condizione sociale della famiglia era di relativo benessere, anche se la funzione di Ruggero, che doveva sovrintendere alla tenuta, e soprattutto trasmettere alle autorità militari l’elenco dei giovani di leva, non ne favoriva certo la popolarità presso i compaesani.

Nell’ottobre del 1862, a neppure sette anni, Giovanni venne mandato con i fratelli Giacomo e Luigi, per favorirne gli studi, nel collegio Raffaello di Urbino, tenuto dai padri scolopi, dove per tradizione il percorso formativo aveva il suo asse portante nelle letterature classiche, e soprattutto in quella latina: Pascoli ne fece tesoro, come dimostra il suo bilinguismo.

Il 10 agosto 1867, quando aveva solo dodici anni, avvenne il fatto delittuoso che doveva segnare in modo indelebile la sua psiche e la sua poesia. Il padre fu ucciso a fucilate sulla via Emilia nei pressi di San Mauro, mentre tornava in calesse dalla stazione di Cesena. Autori materiali dell’assassinio furono due sicari del luogo, manipolati da un signorotto di Savignano, che ambiva a subentrare a Ruggero nell’amministrazione del latifondo dei Torlonia. Benché in paese tutti sapessero il nome del mandante, la famiglia Pascoli non ottenne mai giustizia.

L’uccisione del padre fu la prima di una serie di lutti che si abbatté sulla famiglia negli ultimi anni di collegio di Giovanni (1867-71), dalla morte per tifo della sorella primogenita Margherita (13 novembre 1868), alla morte per crepacuore della madre (18 dicembre 1868), a quella del terzogenito, Luigi, per meningite cerebrale (19 ottobre 1871). Il peggioramento delle condizioni finanziarie in seguito al venir meno dei proventi di Ruggero costrinse il secondogenito Giacomo, il «piccolo padre», a ritirare Giovanni dal collegio urbinate e a trasferire la famiglia a Rimini nell’autunno del 1871. Pascoli fu mandato contro sua voglia a finire gli studi liceali a Firenze, presso gli scolopi di San Giovannino, nell’anno scolastico 1872-73. Nel frattempo la famiglia era tornata a San Mauro, tranne le sorelle ultimogenite Ida (1863) e Maria (1865), che vennero mandate in convento dalle Maestre Pie a Sogliano, dove abitava la sorella della madre, Rita, e dove rimasero fino all’autunno 1884. Grazie al conseguimento di una borsa di studio, nel tardo autunno del 1873, Giovanni poté iscriversi alla facoltà di lettere di Bologna.

Subito fece amicizia con due compagni di studi, Ugo Brilli e Severino Ferrari, cui rimase legato per tutto il corso degli studi universitari. Altri amici erano Raffaello Marcovigi e Sveno Battistini, studenti di legge. In quegli anni la facoltà era dominata dalla personalità di Giosue Carducci, ma non mancavano altri insigni studiosi, come il latinista Gian Battista Gandino, il grecista Gaetano Pelliccioni, il filosofo platonizzante Francesco Acri, l’archeologo Edoardo Brizio. Il magistero di Carducci, aperto alle letture e traduzioni di poeti inglesi, francesi e tedeschi, da Victor Hugo ad Alfred Tennyson a Heinrich Heine, fu decisivo per il connubio di letture classiche e di letture moderne che caratterizzò Pascoli giovane.

Intanto cominciavano a diffondersi nell’ambiente universitario le idee socialiste nella versione libertaria di Bakunin. Pascoli fu subito attratto dal nuovo movimento, e partecipò a riunioni e assemblee internazionaliste. Mediatore della sua adesione all’Internazionale bakuniniana fu Andrea Costa, uno dei padri del futuro socialismo italiano, condiscepolo di Pascoli alla scuola di Carducci. Gli anni bolognesi furono quindi per lui anni di militanza politica e di un’intensa vita di relazione, quale forse non conobbe più nel resto della sua vita.

Nel 1876 perse la borsa di studio sotto l’accusa d’aver fischiato, in occasione di una sua visita all’Università, il ministro dell’Istruzione del tempo, il moderato Ruggero Bonghi. Fu l’inizio di un periodo di grandissime difficoltà, aggravate dalla morte per tifo del fratello Giacomo (12 maggio). Giovanni si trovò a non avere i mezzi finanziari per iscriversi all’Università, che peraltro continuò a frequentare, assistendo come libero uditore alle lezioni di Carducci e di altri docenti. Continuò anche a scrivere poesie e a collaborare a riviste e giornali. È di questi anni travagliati, di cui è testimonianza la poesia La voce dei Canti di Castelvecchio, l’abbozzo di una prefazione a una raccolta di versi, che Pascoli voleva intitolare Voci del passato, o Voci crepuscolari, o Foglie gialle. La raccolta non vide mai la luce, ma Maria pubblicò l’abbozzo di prefazione nelle sue memorie: vi è adombrata una poetica visionaria, con accenti di forte sensibilità romantica, contaminata con la suggestione della letteratura greca. Carducci, che ebbe con Pascoli un rapporto difficile, parlò, in una lettera a Severino, del «classico romanticismo» di Pascoli. Nel novembre 1878 l’attentato a Napoli contro il re Umberto I, e la successiva condanna del suo esecutore, il cuoco Passannante, all’ergastolo, provocarono un’ondata di arresti di internazionalisti, soprattutto in seguito alle numerose dimostrazioni di protesta che si ebbero in Emilia e in Romagna. Giovanni assistette alle sedute del tribunale di Bologna, che giudicava gli arrestati, e quando anche nei loro confronti fu pronunciata una dura condanna (7 settembre 1879), protestò con grida. Seguirono l’arresto e la detenzione di tre mesi nel carcere bolognese di San Giovanni in Monte, dove rimase in cella fino a dicembre inoltrato, quando fu processato e assolto con formula piena.

Uscito dal carcere, rallentò l’impegno di militanza politica, cercando di riprendere gli studi universitari. Oltretutto era cominciata la crisi dell’Internazionale bakuninista, che avrebbe portato alla graduale affermazione del ‘socialismo scientifico’ di Marx sulla componente anarchico-protestataria: crisi culminata, poi, nel 1883 nella nascita del Partito socialista italiano (PSI). Superato un esame di sbarramento, che non aveva dato alla fine del secondo anno di Università, Pascoli concorse di nuovo al sussidio e lo riebbe alla fine del 1880, quando la casa di San Mauro venne venduta, e il ricavato fu diviso tra i fratelli. Finalmente, dopo nove anni di traversie, si laureò in lettere con 110 e lode nella sessione estiva del 1882 (17 giugno), discutendo una tesi su Alceo. La commissione di laurea era composta da Carducci, Gandino e Pelliccioni.

Nel settembre 1882 venne nominato reggente di letteratura greca e latina al liceo Duni di Matera, dove prese servizio il 9 ottobre. Erano le conseguenze della politica scolastica postunitaria, che attraverso gli spostamenti degli insegnanti mirava a promuovere l’unificazione culturale del nuovo Stato. Il viaggio da Bologna a Bari in ferrovia e da Bari a Matera in carrozza postale fu lungo e faticoso. Grande fu l’effetto di spaesamento sul poeta, nato e cresciuto tra la Romagna e Bologna: alla fine di quell’anno, in una lettera all’amico Severino, si legge: «Ma non vuoi credere che Matera sembra in Africa?» (M. Pascoli, Lungo la vita di G. P., 1961, p. 161). Tuttavia Pascoli svolse regolarmente i suoi compiti di insegnante per due interi anni scolastici, tornando a Bologna nelle vacanze estive, e cercò di mettere a profitto la risorsa culturale del luogo, la biblioteca del liceo Duni, ricca di testi di patristica ereditati da un convento soppresso. Risale a questo periodo la collaborazione alla romana Cronaca bizantina, in cui, il 1° dicembre 1882, venne pubblicata Colascionata I a Severino Ferrari Ridiverde, incunabolo della futura Romagna.

Nell’autunno 1884 ottenne il desiderato trasferimento al liceo di Massa. Ora poteva far venire le sorelle Ida e Maria dal convento di Sogliano e mettere su casa con loro; e così avvenne il 3 maggio 1885, in una villa presa in affitto e dotata d’un ampio podere.

Si consideri che oltre alla volontà personale di ricostituire il ‘nido’ perduto di San Mauro, su cui hanno giustamente insistito Giorgio Bàrberi Squarotti e Cesare Garboli, gravava sul poeta l’obbligo di provvedere, in quanto fratello maggiore, all’avvenire delle sorelle nubili, secondo il costume del tempo. A Massa Giovanni riceveva di quando in quando le visite di Severino Ferrari, che insegnava a La Spezia e con cui era rimasto in carteggio. Proprio in occasione delle nozze di Ferrari, nel settembre 1886, Pascoli pubblicò un opuscolo di versi come omaggio agli sposi, intitolato L’ultima passeggiata e contenente otto madrigali, che sarebbero poi confluiti nella sezione omonima di Myricae.

Nell’ottobre del 1887 il ministero trasferì improvvisamente Pascoli al liceo di Livorno. Ne era preside Ottaviano Targioni Tozzetti, carducciano, noto antologista per le scuole, con cui Pascoli ebbe rapporti non sempre facili. Superate le difficoltà economiche, anche a prezzo di duri sacrifici, la vita di Giovanni e delle sorelle si assestò in una routine fatta di lavoro e di qualche modesto svago. A intrattenere Pascoli in questi anni furono soprattutto il poeta Giovanni Marradi, Pietro Micheli ed Ettore Toci, antologista e fine traduttore di poesia inglese. Di contro all’immagine che ne privilegia Maria nelle sue memorie di uomo solo e legato esclusivamente alle sorelle, Pascoli amava i caffè e le conversazioni con gli amici e colleghi, anche per le abitudini contratte a Bologna negli anni della vita universitaria. Il 10 agosto 1890, anniversario della morte del padre, apparve per la prima volta, sulla rivista fiorentina Vita nuova, il titolo virgiliano Myricae. Nel luglio 1891 si presentò l’occasione di stampare presso l’editore Raffaello Giusti di Livorno, con questo titolo, la sua prima raccolta di poesie.

Ancora una volta la stampa fu propiziata da un’occasione: le nozze dell’amico di gioventù Raffaello Marcovigi. L’editore Giusti accettò di stampare un centinaio di copie del libriccino, di cui la metà destinata alla vendita. Si trattava complessivamente di 22 poesie, tutte già pubblicate in rivista, tranne Mare, che si susseguivano senza partizione interna. Nel gennaio del 1892 l’editore Giusti pubblicò la seconda edizione di Myricae, questa volta destinata esclusivamente al pubblico: comprendeva 72 componimenti, suddivisi in poche sezioni, preceduti dai versi virgiliani «arbusta iuvant humilesque myricae» e da una nuova prefazione, rivolta a sublimare la propria attività poetica come tributo di pietà e di giustizia verso i propri morti. Nell’aprile del 1894 apparve la terza edizione di Myricae, portata a 116 componimenti. La raccolta s’apriva per la prima volta con il Giorno dei morti, rievocazione visionaria dei propri lutti. Con la quarta edizione del 1897, accresciuta di un’altra quarantina di liriche, raggiunse la sua forma pressoché definitiva: tra le aggiunte spicca L’assiuolo, largamente analizzato dalla critica. Nell’Assiuolo trova compiuta espressione quel simbolismo fonico, e non meramente tematico, che si viene sviluppando in modi sempre più sottili nella produzione pascoliana di fine secolo. Con la quinta edizione del 1900, arricchita di ulteriori 4 poesie, l’iter della raccolta può considerarsi concluso; le edizioni successive contengono solo varianti grafiche e interpuntive.

Le Myricae suscitarono l’ammirato interesse di Gabriele D’Annunzio, che le recensì nel Mattino di Napoli il 30-31 dicembre 1892; quanto a Carducci, le sue lodi andarono piuttosto al Pascoli latino, e in particolare al poemetto Veianius, che nel marzo del 1892 fu premiato al Certamen hoeufftianum di poesia latina di Amsterdam, mentre (se si deve ritenere ispirato da Carducci un trafiletto della Gazzetta dell’Emilia del 2 aprile 1894), il maestro giudicava «finissime, forse troppo, ed eleganti ed animose» le poesie italiane.

Nei primi anni Novanta Pascoli cominciò a partecipare al certamen olandese, che gli fruttò diverse vittorie: con l’oro delle medaglie ottenute venne acquistata nel 1902 la casa di Castelvecchio. Nel frattempo gli anni di Livorno trascorrevano fitti di lavoro, tra l’insegnamento liceale, la commissarìa d’esami a Siena (1892), la chiamata a far parte di una commissione d’insegnanti liceali da parte del ministro Ferdinando Martini, che fu anche l’occasione di vedere per la prima volta Roma (1893), l’epidemia di colera a Livorno del 1893, il successivo comando per un anno al ministero della Pubblica Istruzione a Roma (1895), che gli diede modo di conoscere Adolfo De Bosis e D’Annunzio; e infine i lavori di editoria scolastica. Videro infatti la luce in quegli anni, sempre presso l’editore Giusti, le antologie latine Lyra (Livorno 1895) ed Epos (Livorno 1897).

Nell’estate del 1895 entrò in crisi il progetto di ricostituzione del ‘nido’, che aveva occupato l’ultimo decennio della vita del poeta. Ida si fidanzò con un giovane di Sogliano, Salvatore Berti, e lo sposò il 30 settembre. Giovanni decise di trasferirsi con la sorella Maria a Castelvecchio di Barga, in una villa presa in affitto, con podere annesso, sul colle di Caprona, di cui gli aveva parlato un collega d’origine barghigiana. Il luogo, solitario e di difficile accesso, rispondeva al bisogno d’isolamento del poeta e insieme alla sua voglia di vivere a contatto con la natura. Non a caso il tempo di Castelvecchio fu quello della composizione dei Primi, e poi dei Nuovi poemetti, dove, nel ricordo dei poemi omerici e de Le opere e i giorni di Esiodo, oltre che dei classici latini, il poeta cantava il suo ideale di una società di piccoli agricoltori, occupata nelle attività dell’anno agricolo, e di conseguenza dotata di un senso ciclico del tempo, che la società industriale aveva ormai perduto e che Pascoli opponeva come solo conforto a un senso acuto della finitezza dell’esistenza («e quello ch’era non sarà mai più»: così si chiude In ritardo).

Gli anni successivi videro la collaborazione di Pascoli, ormai uscito dall’oscurità grazie a Myricae, alle riviste dell’estetismo di fine Ottocento, il romano Convito, diretto da De Bosis sotto l’egida di D’Annunzio, e il fiorentino Il Marzocco, diretto da Angiolo Orvieto.

Nel Convito (1895) apparvero i primi Poemi conviviali, in cui rielaborava miti e topoi della letteratura greca, soprattutto arcaica, alla luce della sua soggettività turbata, modernizzandoli con l’uso di strumenti in senso lato antropologici e vedendoli come gli archetipi della vita dell’uomo. Sempre nel Convito Pascoli pubblicò a puntate parti di quella che poi divenne Minerva oscura (1895-96). Nel Marzocco, invece, furono pubblicati nel 1897 i Pensieri sull’arte poetica, che poi, rielaborati, confluirono nel più importante scritto pascoliano di poetica, Il fanciullino, dove sotto il simbolo tutto personale del poeta fanciullo è teorizzata una poesia fondata sul recupero della memoria e sulla soggettività profonda, in una chiave visionaria («La poesia consiste nella visione d’un particolare inavvertito, fuori e dentro di noi»), che nell’Aquilone (1900) arriva a precorrere la proustiana ‘memoria involontaria’.

Furono questi gli anni dei più intensi scambi culturali di Pascoli con critici e poeti del tempo, come attestano i suoi carteggi con Adolfo De Carolis, Orvieto e D’Annunzio, nonché la sua collaborazione a riviste e giornali. Ma furono anche gli anni d’una intensa frequentazione di Leopardi, da cui derivarono conferenze e saggi, come Il sabato (1896) e La ginestra (1898). La sua poesia rimase segnata in modo profondo dall’autore dei Canti, così come da quella di Dante.

Dante e Leopardi sono, in sintesi, i due poli di riferimento fondamentali della cultura pascoliana: l’uno in quanto creatore d’un codice allegorico, che tende a ricondurre all’unità la molteplicità caotica dell’esistere, anche se quel codice, perdutasi la matrice tomistico-cristiana, è utilizzabile solo in chiave simbolista; l’altro, cantore del male di esistere della modernità e quindi più immediatamente congeniale all’uomo e all’autore Pascoli, che in Leopardi finì per rispecchiare la sua vita infelice.

Proprio in questi tardi anni Novanta Pascoli si dedicò intensamente, con Minerva oscura. La costruzione morale del poema di Dante (Livorno 1898), al suo lavoro di esegesi dantesca, già avviato dai tempi di Livorno, che per il suo carattere mistico-esoterico gli valse le critiche degli studiosi della scuola storica. Inviata all’Accademia nazionale dei Lincei per il concorso al premio per la filologia e la linguistica del 1899, Minerva oscura non l’ottenne, con grande dispiacere del poeta. Presidente della commissione esaminatrice era Carducci (commissari Comparetti, Nigra, Schiaparelli, relatore Ascoli) che, pur riconoscendo al libro un pullulare «d’ipotesi ingegnose, e suggestive» e di esser «ricco anche di non pochi semi di verità», rimproverava al suo autore di voler ignorare «il molto che è stato scritto sulla Divina commedia». A Minerva oscura seguirono Sotto il velame (Messina 1900) e La mirabile visione (Messina 1902), che non ottennero miglior successo del primo.

Nel frattempo da professore di liceo era diventato docente universitario: alla fine di ottobre 1895, un mese dopo le nozze di Ida, gli fu comunicato il decreto del ministro Guido Baccelli che lo nominava professore straordinario di grammatica latina e greca all’Università di Bologna. Malgrado le affettuose accoglienze del Carducci e di Severino, che presenziarono alla sua prolusione, non fu del tutto soddisfatto del ritorno alla sua Alma mater, dove avrebbe ricoperto un insegnamento secondario, subordinato a quello del latinista Gandino. La situazione si aggravò nel 1896 con la venuta a Bologna del fratello minore Giuseppe, che, a quel che risulta dalle lettere di Giovanni e dalle memorie di Maria, si recava in facoltà chiedendo denaro: anche per questo Pascoli presentò le dimissioni, che furono respinte. Fu questo anche il tempo degli ultimi sussulti sentimentali, conclusisi con il naufragio di un progetto di fidanzamento di Giovanni con la cugina Imelde Morri. Nel 1897 cominciò una lunga relazione epistolare con una sua ammiratrice, durata fino al dicembre 1911: la ‘gentile Ignota’, Emma Corcos, moglie del pittore Vittorio Corcos. Fu il ministro Giovanni Codronchi, suo amico di lunga data, a sbloccare la situazione accademica del poeta nominandolo per meriti speciali ordinario di letteratura latina (in ambito universitario Pascoli allora era conosciuto soprattutto per i suoi Carmina) presso l’Università di Messina a decorrere dal 27 ottobre 1897. Nella primavera del 1898, Pascoli, già un po’ sconcertato dal nuovo ambiente, si ammalò gravemente di tifo, e così pure la sorella Maria: ne resta traccia in una poesia dei Canti di Castelvecchio: La mia malattia.

Nel 1897 uscirono la quarta edizione di Myricae.(Livorno), e la prima edizione dei Poemetti (Firenze), con il motto «Paulo maiora canamus» e la dedica a Maria, dove figurava solo la prima parte del ciclo di Rigo e Rosa (La sementa), oltre a poesie di forte valenza simbolica, come Il vischio, Il cieco, L’eremita, che presentano veri e propri doppi dell’io poetante. Dei Poemetti fu pubblicata una seconda edizione raddoppiata nel 1900 (Milano-Palermo), che conteneva, tra l’altro, la seconda parte del ciclo di Rigo e Rosa (L’accestire), e alcune fra le sue poesie più famose: L’aquilone, Il soldato di San Piero in Campo, Il torello e Digitale purpurea. Infine, con la terza edizione accresciuta e corretta del 1904 (Bologna) la raccolta prese il titolo attuale di Primi poemetti e si accrebbe di Suor Virginia, Le armi e Italy, poemetto sull’emigrazione italiana negli Stati Uniti, che reca la dedica «All’Italia raminga». I Nuovi poemetti apparvero solo nel 1909 (Bologna): erano dedicati «ai miei scolari di Matera, Massa, Livorno, Messina, Pisa, Bologna», e contenevano, tra l’altro, la continuazione dei poemetti georgici del ciclo di Rosa e Rigo, secondo l’ordine delle operazioni dell’anno agricolo e il succedersi delle stagioni, da La fiorita a La vendemmia; altri componimenti dedicati a controfigure simboliche dell’io poetante (Il naufrago, Il prigioniero) o a personaggi del piccolo mondo di Castelvecchio (Zì Meo, Nannetto); e infine La morte del Papa, Gli emigranti nella Luna e Pietole, che riprende, sulla scia di Virgilio, il tema dell’emigrazione italiana nel mondo. Sono questi anche gli anni delle antologie scolastiche italiane per l’editore palermitano Sandron, Sul limitare (Milano-Palermo 1899) e Fior da fiore (Milano-Palermo 1901).

L’insegnamento universitario a Messina, in un ambiente incline a richiedere ai docenti un impegno pubblico, e il modello del poeta-vate, promosso nell’Italia di fine Ottocento in forme diverse da Carducci e D’Annunzio, spinsero Pascoli a interventi sempre più frequenti sulla situazione italiana ed europea. Ne è una testimonianza il volume Miei pensieri di varia umanità (Messina 1903), riedito da Zanichelli con il titolo Pensieri e discorsi (Bologna 1907). Esauritasi ormai la spinta del giovanile socialismo libertario in favore di un umanitarismo sempre più assillato dal pensiero ossessivo della morte, e attraversato il periodo degli anni Novanta, segnato dall’inasprirsi dei conflitti sociali – dai Fasci siciliani (1894) alle drammatiche giornate del 1898 – nel discorso Una sagra, tenuto a Messina nel giugno 1900, in occasione delle celebrazioni dell’anniversario dell’Ateneo messinese, Pascoli colse i segni di disagio presenti nella belle époque, che una quindicina d’anni dopo confluirono nella più vasta crisi destinata a sfociare nella catastrofe della prima guerra mondiale.

Dalla disamina dei mali dell’età degli imperialismi, il poeta propose per l’Italia la tesi del ‘socialismo patriottico’, che, trasferendo indebitamente la lotta di classe dalle società alle nazioni, innescava la deriva verso un nazionalismo mascherato dalla mitografia risorgimentale e dalla questione dell’emigrazione, cui era peraltro particolarmente sensibile per il fatto di vivere in una terra di emigranti, come il Barghigiano e più in generale la Lucchesia. La deriva nazionalistica di Pascoli culminò nel famoso discorso tenuto nel teatro dei Differenti di Barga il 26 novembre 1911, La grande proletaria s’è mossa, di celebrazione della guerra di Libia, destinato a inaugurare la retorica dei ‘soldatini d’Italia’.

Intanto nell’aprile 1903 apparvero per Zanichelli i Canti di Castelvecchio (Bologna), seguiti – nell’agosto dello stesso anno – da una seconda edizione con l’aggiunta di un glossario di voci garfagnine. Nella quinta edizione del 1910 confluirono le poesie del Diario autunnale; nella settima (1914) Maria aggiunse Il compagno dei taglialegna e La capinera. Pascoli considerava i Canti (nel titolo è implicito un omaggio a Leopardi), per il loro tono lirico e non narrativo, la continuazione di Myricae, di cui conservano il motto virgiliano, mentre la dedica questa volta è alla madre.

È Pascoli stesso, in una lettera all’amico lucchese Alfredo Caselli del 7 agosto 1902, a spiegare l’ordinamento dei Canti: «C’è, vedrai […] un ordine latente, che non devi rivelare: prima emozioni, sensazioni, affetti d’inverno, poi di primavera, poi d’estate, poi d’autunno, poi ancora un po’ d’inverno mistico, poi un po’ di primavera triste, e finis» (Lettere del P. ad Alfredo Caselli 1898-1910, a cura di F. Del Beccaro, Milano 1978, pp. 370 s.). L’ordine di successione dell’anno agricolo rientra nella concezione pascoliana, classica e decadente insieme, dell’eterno rinnovarsi della natura. Del resto la seconda parte del Ciocco (1902), con i suoi incubi apocalittici d’una possibile fine dell’universo, sembra estendere all’intero cosmo l’ansia della fine, anche se poi l’accento batte soprattutto sulla lacerazione inflitta all’esistenza individuale, mentre non esclude una possibile rinascita dell’universo per un ripetersi del suo processo genetico. Con l’ordinamento, apparentemente naturalistico ma in realtà intrinsecamente simbolico, della successione delle stagioni s’intreccia un secondo ordine strutturale, relativo al ‘romanzo familiare’ del poeta, che tanta parte occupa nei Canti, in particolare nelle poesie del Ritorno a San Mauro, la sezione composta, dopo un breve ritorno nella Romagna natia con la sorella Maria tra la fine d’aprile e i primi di maggio del 1897, per effetto d’una poetica della memoria, coltivata negli anni delle letture e conferenze leopardiane. Se a livello di contenuti i Canti rappresentano un importante sviluppo della poesia pascoliana per il rilievo che vi assume la dimensione simbolica, orientata verso la produzione di figure, desideri e conflitti inconsci (è il mondo notturno dell’uomo che trova espressione in liriche come Il sogno della vergine o Il sonnellino), sul piano formale costituiscono il momento più alto dello sperimentalismo pascoliano. Va ricordata infine l’importanza nella raccolta della componente folclorica, in cui rientrano anche i proverbi: qui l’esigenza pascoliana appare non tanto di natura documentaria, quanto piuttosto di connotazione simbolica, d’una donazione di voce al mondo naturale che ne riporti alla luce i significati occulti.

Alla fine di giugno del 1903, grazie anche all’appoggio dell’amico senatore Gaspare Finali e del ministro Nunzio Nasi, Pascoli ottenne il trasferimento alla cattedra di grammatica greca e latina della facoltà di lettere di Pisa. Quasi contemporaneamente si riappacificò con D’Annunzio, con cui aveva interrotto i rapporti nel gennaio 1900, dopo una lettera al Marzocco del 28 gennaio (in cui ironizzava sulla letteratura divenuta «tutta uno sport: una cavalcata in frak rosso»), che aveva provocato una pungente risposta da parte di D’Annunzio (31 gennaio). Peraltro in quest’ultimo il malumore verso Pascoli – che lo definì «mio fratello, minore e maggiore» nell’epistola dedicatoria dei Conviviali – non era destinato a durare a lungo. Verso la fine del 1903 esce Alcyone, il cui Commiato rende omaggio a Pascoli, definito «l’ultimo figlio di Virgilio».

Nei primi mesi del 1904 la vita di Giovanni e Maria cominciò ad alternarsi tra Castelvecchio e Pisa, dove il 19 gennaio Pascoli, che aveva tergiversato a lungo con il preside Cian perché occupato a finire i Conviviali, tenne la sua prolusione La mia scuola di grammatica (poi raccolta in Pensieri e discorsi). I Conviviali uscirono in volume presso Zanichelli, divenuto ormai l’editore di riferimento, nell’estate del 1904, con dedica a De Bosis, che nel 1895 lo aveva chiamato a collaborare a «quel vivo fascio di energie militanti» che si raccoglieva intorno alla rivista romana, d’ispirazione dannunziana, Il Convito.

I Conviviali ebbero subito una seconda edizione nel 1905 (rist. 1910), e sono la raccolta poetica pascoliana più conosciuta fuori d’Italia (come testimoniano le traduzioni integrali in francese: A. Valentin, 1925; e in tedesco: W. Hirdt, 2000), per l’analogia di esperienze con movimenti e autori delle rispettive letterature, con André Chénier e i parnassiani da un lato, con Friedrich Hölderlin e Rainer Maria Rilke dall’altro. A imporre i Conviviali all’attenzione dei lettori europei è soprattutto la rivisitazione dei grandi testi classici, da Omero a Esiodo a Saffo a Platone, che Pascoli compie per riscoprire le origini della nostra civiltà, e insieme per creare una serie di miti personali, dal destino di solitudine e di erranza del poeta all’angoscia per la morte individuale e agli incubi a essa legati. Non si tratta d’una operazione di decorativismo liberty, e neppure della docta aemulatio d’un umanista, ma della riscoperta del mito come struttura archetipica e come tecnica narrativa (la ring-komposition), come recupero del tempo ciclico versus il tempo lineare della modernità. Il tentato recupero del mito svela però la sua contraddizione interna: il mito può stimolare la poiesis, ormai stanca nell’uomo contemporaneo, ma non può cambiare la vita dell’uomo, e quindi si tinge di lutto, in un disvelamento della sua illusorietà finale. Il mito, amorosamente ricostruito come la sola narrazione capace di poesia, e quindi di senso, si scopre vuoto e si dissolve, come anela alla dissoluzione la vita. Sotto questo profilo la domanda identitaria, che Odisseo pone invano alle Sirene senza ottenere risposta («Ditemi almeno chi sono io! chi ero!»), converge con la chiusa problematica del pirandelliano, e coevo, Il fu Mattia Pascal (1904). La visione pascoliana del mondo antico presuppone due grandi modelli: il Vico della Scienza nuova e il Leopardi dei Canti e degli scritti in prosa, in particolare dei Pensieri (editi nel 1898). In subordine possiamo ricordare l’opera del glottologo e storico delle religioni Max Mueller, i cui libri The science of language e Introduction to the science of religion, tradotti da Gherardo Nerucci nel 1871 e nel 1874, furono conosciuti da Pascoli; e lo studioso di psicologia James Sully.

Gli anni 1904-05 furono per Pascoli di attività «quasi affannata e vertiginosa», come scrive Augusto Vicinelli nella seconda parte delle memorie di Maria, favorita dalla vicinanza della sede universitaria pisana a Castelvecchio. Nel marzo 1904 conquistò l’ottava medaglia di Amsterdam con il Paedagogium; nel maggio tenne una conferenza dantesca sul Canto XXXIII del Purgatorio presso il collegio Nazareno di Roma, alla presenza della regina Margherita; alla fine di luglio rispose all’inchiesta sui Rapporti fra l’Italia e l’Austria, promossa dalla rivista di Enrico Corradini Il Regno, criticando la Triplice Alleanza e vagheggiando un panlatinismo utopico; nell’agosto pubblicò i Conviviali; nel settembre riprese la collaborazione alla Riviera ligure di Mario Novaro, avviata in primavera; nell’ottobre scrisse una lettera all’amico Pietro Guidi, in cui annunciava di aver esaurito la prima parte della sua opera poetica, e aggiungeva: «Se campo, ho altro da fare, ben altro!» (M. Pascoli, Lungo la vita…, cit., p. 761). Parole in cui è preannunciato il programma di poesia patriottica, di vera e propria mitografia risorgimentale, che caratterizzò l’ultima parte della sua vita, quella più segnata dal modello tardo-ottocentesco italiano del poeta-vate, cui si sentiva sospinto dalle richieste del pubblico d’una nazione che aveva appena conquistato la propria indipendenza e unità, e dalla competizione inevitabile con le altre due ‘corone’, Carducci e D’Annunzio.

A questo punto si aprì la delicata questione della successione a Carducci, che alla fine del 1904 aveva presentato domanda per essere collocato a riposo prima del tempo. Il rettore dell’Università di Bologna, Vittorio Puntoni, provò a sondare Pascoli con una lettera del Natale 1904, che risvegliò in Pascoli il ricordo non certo felice della sua prima esperienza bolognese come incaricato di grammatica greca e latina, nel 1896. Si aggiungano a ciò il sentimento ambivalente di amore e odio che Pascoli ebbe sempre a nutrire verso Carducci, cui rimproverava il silenzio sulla sua poesia italiana; nonché il rapporto di amicizia con Severino Ferrari, che assisteva da tempo Carducci nell’insegnamento universitario. La conseguenza fu che Pascoli tardò a rispondere a Puntoni, che lo sollecitò più volte, facendo addirittura intervenire il ministro dell’Istruzione del tempo, Emanuele Orlando. Anche gli studenti bolognesi con un loro pronunciamento si espressero a favore della nomina di Pascoli. Nel frattempo Ferrari, ammalato di gravi disturbi psichici, era stato ricoverato il 18 gennaio 1905 in una casa di cura di Collegigliato (Pistoia), dove sarebbe morto nel dicembre. Finalmente il 9 giugno la facoltà di lettere di Bologna deliberò la chiamata alla cattedra di letteratura italiana. L’estate del 1905 passò tra dubbi e pentimenti di Pascoli, affaticato anche dalle beghe paesane con i contadini del podere di Castelvecchio, e con il parroco stesso del «bel San Niccolò» per una questione di campane. Tra l’altro Pascoli fu colpito da una serie di lutti barghigiani, dalla morte di Isabella Caproni, la Molly di Italy, a quella dello Zì Meo; anche le lentezze burocratiche del decreto di nomina non aiutarono. Solo il 14 ottobre 1905 Pascoli comunicò al ministro il suo assenso al trasferimento alla facoltà di Bologna. Il 9 gennaio 1906 il poeta, che ai primi dell’anno si era spostato a Bologna in una casa un po’ appartata, ai piedi del colle dell’Osservanza, senza peraltro lasciare la casa di Castelvecchio, dove continuò a recarsi durante le vacanze estive e i periodi di non insegnamento, pronunciò la sua prolusione Il Maestro e Poeta della terza Italia (poi raccolta in Patria e umanità). dove la poesia carducciana era strettamente associata al Risorgimento italiano. I primi tempi di Bologna furono faticosi e pieni di rimpianti: oltre alla cattedra di letteratura italiana, Pascoli era stato incaricato dell’insegnamento di letterature neolatine e teneva lezioni al corso pedagogico per maestri. Carducci aveva il dono dell’oratoria e le sue lezioni erano affollate, oltre che di studenti, di dame della buona società, ma non altrettanto si poteva dire di Pascoli, che se ne rendeva conto e ne soffriva.

L’ultima parte dell’opera poetica pascoliana, significativamente esclusa dalla frequentazione dei poeti novecenteschi, che pure con il Pascoli di Myricae.e dei Canti intrattennero un rapporto tanto più fecondo quanto più dissimulato, è contraddistinta dalla costruzione d’una mitografia risorgimentale, di cui andrebbero meglio studiati i procedimenti retorici, e dalla creazione di personaggi, come Garibaldi e Tolstoj, che sono in parte proiezioni dell’io poetante e in parte modelli di umanità eroica, da proporre all’imitazione del pubblico della Nuova Italia.

Nella primavera del 1906 uscirono Odi e inni, dedicati alla «giovine Italia» e contrassegnati dal motto canamus, in cui il poeta riunì i suoi componimenti d’occasione già pubblicati in riviste e giornali, che avevano come argomenti personaggi e avvenimenti del tempo. Nel 1908 apparvero La canzone del Carroccio e La canzone dell’Olifante, che, insieme con La canzone del Paradiso, uscita nel 1909, andarono a comporre Le canzoni di re Enzio. È un’operazione di recupero di testi e ambienti medioevali, dominata dal delicato personaggio della schiava Flor d’uliva, che consola con una notte d’amore Re Enzio, prigioniero del Comune di Bologna; e può far pensare ad analoghi recuperi dei poeti francesi detti felibristes, oltre che alla Canzone di Legnano del Carducci. Nel 1911, infine, alla vigilia della morte del poeta, vennero pubblicati i Poemi italici (Paulo Ucello, Rossini e Tolstoi: nei primi due prevale l’elemento metapoetico), cui seguirono, per il cinquantesimo dell’Unità d’Italia (1911), l’Inno a Roma e l’Inno a Torino. Nel 1913 Maria curò la pubblicazione dei Poemi del Risorgimento, incentrati intorno alla figura di Garibaldi, delle poesie giovanili disperse (Poesie varie), e di un volume di Traduzioni e riduzioni.

Negli ultimi anni della sua vita, trascorsi alternando Castelvecchio e Bologna, Pascoli continuò la sua intensa attività di poeta e di pubblicista.

Morì, nella casa bolognese di via dell’Osservanza, il 6 aprile 1912 per cirrosi epatica.

Maria, che gli sopravvisse fino al 1953, custodì gelosamente nella casa di Castelvecchio, dove il poeta è sepolto, i libri (tranne quelli donati a suo tempo alla Biblioteca universitaria di Bologna), e le carte, messe da ultimo on-line dalla Soprintendenza bibliografica della Toscana (2014).

Opere. L’Opera omnia è stata pubblicata dall’editore Mondadori (Milano) nella collana dei «Classici contemporanei»: Poesie, I-II, a cura di A. Vicinelli, 1939; Prose: I, Pensieri di varia umanità, con una premessa di A. Vicinelli, 1946; II, Scritti danteschi, 2 tomi, introduzione di A. Vicinelli, 1952; Carmina, a cura di M. Valgimigli, 1951.

Nel 2002 sono usciti ne «I Meridiani» della Mondadori due volumi di Poesie e prose scelte, progetto editoriale, introduzione e commento di C. Garboli, con la collaborazione di A. Oldcorn et al. Nella collana dei «Classici Ricciardi» è apparsa nel 1980-81 un’importante silloge commentata delle Opere, I-II, a cura di M. Perugi. Di Myricae esiste l’edizione critica a cura di G. Nava, I-II, Firenze 1974; e così pure dei Canti di Castelvecchio, a cura di N. Ebani, I-II, Firenze 2001, e dei Primi poemetti, a cura di F. Nassi, Bologna 2011.

Per le poesie latine: Carmi latini, tradotti e annotati da L. Vischi, Bologna 1920; A. Traina, Il latino del P. Saggio sul bilinguismo poetico, Padova 1961 (3ª ed. riv. e agg., con la collaborazione di P. Paradisi, Bologna 2006).

Per le prose: Scritti teatrali inediti, a cura di A. De Lorenzi, Ravenna 1979; Il Fanciullino, a cura di G. Agamben, Milano 1982; Alceo, tesi di laurea, a cura di G. Caputo, Bologna 1986; La befana: racconto inedito per ragazzi e per grandi, a cura di N. Ebani, Verona 1989; G. Capecchi, La commedia del fanciullino. Le lezioni inedite del P. alla scuola pedagogica di Bologna, in La Rassegna della letteratura italiana, s. 8, 1996, 1 (gennaio-aprile), pp. 125-158; Id., Gli scritti danteschi di G. P., con app. di inediti, Ravenna 1997; Saggi e lezioni leopardiane, a cura di M. Castoldi, La Spezia 1999; G. Venturelli, Pensieri linguistici di G. P.: con un glossario degli elementi barghigiani nella sua poesia, Firenze 2000.

Manca a tutt’oggi un’edizione completa e organica dell’epistolario: oltre alle lettere pubblicate in M. Biagini, Il poeta solitario, Milano 1955 e 1963, e in M. Pascoli, Lungo la vita di G. P., Milano 1961, e a quelle edite in P. Vannucci, P. e gli Scolopi, Roma 1950, le principali raccolte sono: G. Zuppone Strani, Lettere inedite di G. P. a Luigi Mercatelli, in Nuova antologia, 16 ottobre 1927, pp. 427-441; Carteggio Carducci - P. - D’Annunzio, a cura di A. Vicinelli, in Omaggio a P. nel centenario della nascita, Milano 1955, ad ind.; Lettere agli amici lucchesi, a cura di F. Del Beccaro, Firenze 1960; Lettere agli amici urbinati, a cura di G. Cerboni Baiardi, Urbino 1963; Lettere alla Gentile Ignota, a cura di C. Marabini, Milano 1972; G. Oliva, I nobili spiriti, Bergamo 1979, ad ind. (per le lettere a G.S. Gargano); «Non ci potrò fare il mio verso». Lettere di P. a Guido Biagi, a cura di G. Nava, in Rivista pascoliana, 1993, n. 5, pp. 231-257; Carteggio P. - De Bosis, a cura di M.L. Ghelli, Firenze 1998; Carteggio P. - A.G. Bianchi, a cura di M. Montibelli, Firenze 2001.

Fonti e Bibl.: Per la biografia pascoliana, cfr. M. Pascoli, Lungo la vita di G. P. cit.; M. Biagini, Il poeta solitario, cit.; G.L. Ruggio, G. P., Milano 1998; A. Cencetti, G. P. Una biografia critica, Firenze 2009; P. Poesia e biografia, a cura di E. Graziosi, Modena 2011; P. Vita e letteratura, a cura di M. Veglia, Lanciano 2012.

Per gli strumenti bibliografici: F. Felcini, Bibliografia della critica pascoliana (1879-1979), degli scritti dispersi e delle lettere del poeta, Ravenna 1982; A. Traina, Cento anni di studi pascoliani. Addenda alla bibliografia del Felcini, in Studi e problemi di critica testuale, 1982, n. 25, pp. 335-342; C. Pisani, Bibliografia della critica pascoliana (1980-1994), in Rivista pascoliana, 1995, n. 7, pp. 233-268; C. Pisani - P. Paradisi, Bibliografia della critica pascoliana (1995-1996 e addenda al 1994), ibid., 1997, n. 9, pp. 201-209; P. Paradisi, Supplemento alle bibliografie pascoliane, ibid., 1999, n. 11, pp. 201-206; C. Pisani, Bibliografia della critica pascoliana (1997-1999), ibid., 2000, n. 12, pp. 201-206; P. Paradisi, Bibliografia della critica pascoliana. Integrazioni (1921-1999), ibid., pp. 251-255.

Dal 1989 esce a Bologna, presso Patron, la Rivista pascoliana, fondata e diretta da M. Pazzaglia, e ora da A. Battistini, con la condirezione di G. Nava e di A. Traina.

Nella vasta bibliografia pascoliana, fra i contributi più recenti e rilevanti, si segnalano: G. Petrocchi, La formazione letteraria di G. P., Firenze1953; L. Russo, Ritratti e disegni storici, serie I, Bari 1953, ad ind.; S. Antonielli, La poesia del P., Milano 1955; P.P. Pasolini, P. (1955), in Id., Passione e ideologia, Milano 1960, ad ind.; M. Valgimigli, P., Firenze 1956; G. Getto, Carducci e P., Bologna 1957; L. Anceschi, P. “verso” il Novecento (1958), in Id., Barocco e Novecento, Milano 1960, ad ind.; V. Sereni, P. e Leopardi, in il verri, III (1958), 1, pp. 7-12; G. Contini, Il linguaggio del Pascoli (1959), in Id., Varianti e altra linguistica, Torino 1970, pp. 219-245; G. Debenedetti, Il gelsomino e la donna di Eresso, in Id., Saggi critici, serie III, Milano 1959, ad ind.; C. Varese, P. decadente, Firenze 1964; E. Sanguineti, Attraverso i Poemetti pascoliani, in Id., Ideologia e linguaggio, Milano 1965, ad ind.; G. Bàrberi Squarotti, Simboli e strutture della poesia del P., Messina-Firenze 1966; L. Anceschi, P. e le istituzioni del Novecento, in Id., Le istituzioni della poesia, Milano 1968, ad ind.; M. Luzi, G. P., in Storia della letteratura italiana (Garzanti), a cura di E. Cecchi - N. Sapegno, VIII, Milano 1968, ad ind. ; E. Sanguineti, G. P., in Poesia del Novecento, Torino 1969, ad ind.; A. Stussi, Aspetti del linguaggio poetico di G. P., in Annali della Scuola Normale superiore di Pisa, Lettere, storia e filosofia, s. 2, XXXVIII (1969), 1-2 (rist. in Id., Studi e documenti di storia della lingua e dei dialetti italiani, Bologna 1982, pp. 237-273); P.V. Mengaldo, La tradizione del Novecento, Milano 1975, n.s., Firenze 1987, s. 3, Torino 1991, s. 4, Torino 2000, ad indices; A. Prete, La critica e P., Bologna 1975; G. Capovilla, La formazione letteraria del P. a Bologna, 1, Documenti e testi, Bologna 1988; Id., Tra le carte di Castelvecchio, Modena 1989; G. Leonelli, Itinerari del Fanciullino. Studi pascoliani, Bologna 1989; Nel centenario di «Myricae». Atti del convegno pascoliano di San Mauro… 1990, a cura di M. Pazzaglia, Bologna 1991; A. Andreoli, Le Biblioteche del fanciullino. G. P. e i libri, Roma 1995; F. Curi, Eros e senilità. Prolegomeni a una lettura psicoanalitica della poesia pascoliana, in Id., Il possibile verbale. Tecniche del mutamento e modernità letteraria, Bologna 1995; M. Pazzaglia, Tra San Mauro e Castelvecchio. Studi pascoliani, Firenze 1997; I «Poemi Conviviali» di G. P. Atti del convegno di studi di San Mauro Pascoli e Barga… 1996, a cura di M. Pazzaglia, Firenze 1997; V. Roda, La folgore mansuefatta. P. e la rivoluzione industriale, Bologna 1998; R. Barilli, P. simbolista. Il Poeta dell’avanguardia “debole”, Milano 2000; G. Capovilla, P., Roma-Bari 2000; M. Marcolini, P. prosatore. Indagini critiche su «Pensieri e discorsi», Modena 2002; M. Pazzaglia, P., Roma 2002; M. Santagata, Per l’opposta balza. La «Cavalla storna» e il «Commiato» dell’«Alcyone», Milano 2002; M. Castoldi, L’ombra di un nome. Letture pascoliane, Pisa 2004; Nel centenario dei «Canti di Castelvecchio». Atti del convegno di studi, San Mauro Pascoli… 2003, a cura di M. Pazzaglia, Bologna 2005; P. e la cultura del Novecento. Atti del convegno di San Mauro… 2005, a cura di A. Battistini - G. Miro Gori - C. Mazzotta, Venezia 2007; P. e l’immaginario degli Italiani. Convegno internazionale di studi, Bologna… 2012, a cura di A. Battistini - M.A. Bazzocchi - G. Ruozzi, in Rivista pascoliana, 2012-2013, n. 24-25; G. P. a un secolo dalla sua scomparsa, a cura di R. Aymone, Avellino 2013; I «Poemi italici» di G. P. Atti della giornata di studio, Cassino… 2011, a cura di C. Chiummo, Firenze 2013; C. Chiummo, Guida alla lettura di «Myricae», Roma-Bari 2014; A. Zattarin, «Anch’io voglio scrivere per musica». P. e il melodramma, Lanciano 2014; Per G. P. nel primo centenario della morte. Atti del convegno di studi pascoliani, Verona… 2012, a cura di N. Ebani, Pisa 2014.

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