PATRONI, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 81 (2014)

PATRONI, Giovanni

Fabrizio Vistoli

PATRONI, Giovanni. – Nacque a Napoli il 20 settembre 1869 da Domenico e Giacinta Barone.

Dopo aver conseguito «in patria» la laurea in lettere con il massimo dei voti e lode (17 luglio 1890), relatore il pompeianista Giulio De Petra, fu per un triennio allievo della Scuola superiore di archeologia di Roma, compiendo il suo terzo anno di perfezionamento (1893) in Grecia e in Asia Minore; qui poté venire in contatto con una realtà composita di testimonianze del passato e, soprattutto, conoscere il moderno e rigoroso approccio di studio all’antichità (Kunstarchäologie) elaborato in ambito teutonico nella seconda metà dell’Ottocento. Tornato in Italia entrò, tramite selezione, nell’amministrazione statale delle Antichità e Belle arti, dapprima (aprile 1895 - ottobre 1896) con l’incarico di viceispettore dei musei e scavi di Siracusa (alle dipendenze di Paolo Orsi), poi in qualità di applicato presso la direzione del Museo nazionale di Napoli (1896-1900), istituto da cui dipendeva allora la tutela di gran parte dei siti archeologici dell’Italia meridionale. Nel 1901, poco più che trentenne, fu nominato direttore del Museo di Cagliari e degli scavi di Sardegna, limitando tuttavia il suo soggiorno isolano, fatto di brevi esplorazioni ricognitive e modesti saggi di scavo nella regione norese, a un solo anno solare. L’anno successivo, infatti, vinta la cattedra di archeologia nella R. Università di Pavia, raggiunse la sede accademica (nel 1897 aveva ottenuto la libera docenza sopra titoli presso l’Ateneo partenopeo), trattenendovisi come professore straordinario fino al 1905 e poi, come ordinario, sino al 1926. Incaricato della Sovrintendenza sugli scavi e sui musei lombardi con r.d. 1° luglio 1907, esercitò diligentemente questa sua giurisdizione di tutela nelle otto province di competenza sino al 1924, quando, con suo grande rammarico, quell’ufficio territoriale fu scisso dall’insegnamento teorico e affidato a funzionari unicamente a ciò preposti.

Nel frattempo, il 1° luglio 1911 aveva sposato a Lugano (Svizzera) la bernese Adelaide Maria Luise Dick, da cui non ebbe prole.

Il 1° novembre 1927 fu chiamato a tenere, presso la R. Università di Milano, l’insegnamento di Antichità classiche e archeologia, da poco istituito, che mantenne per oltre un decennio, dirigendo contestualmente anche l’annesso Gabinetto (poi Istituto) di archeologia. Collocato a riposo per raggiunti limiti di età a decorrere dal 29 ottobre 1939, e surrogato da Carlo Albizzati, un suo ex brillante allievo, gli fu conferito il titolo di professore emerito con r.d. 6 giugno 1940, per benemerenze didattiche e scientifiche. Dal capoluogo lombardo si trasferì allora a Roma, ove attese da privato cittadino ai suoi studi prediletti.

Patroni fu socio corrispondente e membro di molte accademie e società: dei Lincei (1926-46), dell’Istituto archeologico germanico (dal 1901), dell’Istituto lombardo di scienze e lettere (dal 1921), della Società italiana di antropologia ed etnologia di Firenze, dell’Accademia Pontaniana di Napoli (dal 1907), e così via. Redasse ampie monografie e collaborò a prestigiose riviste scientifiche con note, memorie e recensioni, esplorando tutti i campi dell’archeologia (da quella preistorica, a quella classica e orientale), in ottemperanza a quell’indirizzo antiquario dell’Altertumswissenschaft napoletana a cavallo tra Ottocento e Novecento che – con Antonio Sogliano e con il citato De Petra, epigoni di Giuseppe Fiorelli e suoi maestri di cattedra – coltivava la «generosa illusione di voler dominare tutto lo scibile archeologico» (G.Q. Giglioli, in Archeologia classica, III (1951), 2, pp. 242 ss.). Malgrado questa tendenza all’enciclopedismo, nei suoi studi paletnologici – privilegiati nel lungo periodo – così come nelle sue «dotte» indagini sui monumenti delle grandi civiltà storiche sviluppatesi su suolo italico, non si limitò a delineare quadri parziali, ancorati a dati filologici e/o storico-artistici, ma si sforzò sempre di giungere – mediante ricercate argomentazioni – a originali conclusioni (ovvero a larghe sintesi) su problemi aperti, molto spesso con visioni personali discusse e discutibili. Questo spiccato eclettismo, coniugato a una tensione euristica minuta e sottile (pur nella solidissima preparazione teorica) e il suo essere in «continua guerra cartacea» con i colleghi, lo rese sostanzialmente «un isolato» fra gli antichisti che raggiunsero la propria maturità speculativa nella prima metà del Novecento (G. Lilliu, in Studi sardi, X-XI (1950-51), pp. 609 s.).

All’inizio della sua attività scientifica, coincidente con parte dell’apprendistato postuniversitario (1894-95), Patroni si dedicò a ricerche di arte classica, con impegnati saggi su stili figurativi e personalità artistiche elleniche che rivelano una notevole apertura ad approcci metodologici di ispirazione furtwangleriana allora considerati all’avanguardia nella disciplina di riferimento. Ben presto, tuttavia, il pur breve soggiorno presso il Museo siracusano (di cui compilò nel 1896 un’esile Guida), e il fecondo incontro-scontro con Orsi orientarono decisamente gli interessi primari del giovane napoletano verso la civiltà primitiva della Sicilia orientale e di conseguenza verso la paletnologia in genere: dottrina umanistica e assieme sperimentale che all’incirca in quel torno di tempo, non solo Oltralpe, viveva un momento di particolare fulgore e che divenne in breve tempo il suo campo d’indagine prevalente. Questa sua nuova rotta positivista – più tardi ‘giustificata’ come personale contributo alla messa in crisi del modello winckelmanniano (o filologico-estetizzante) nello studio del mondo antico (Di una nuova orientazione dell’archeologia nel più recente movimento scientifico, in Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, classe di scienze morali, storiche e filologiche, s. V, VIII (1899), pp. 221-240) – ebbe modo di concretarsi, paradossalmente, proprio nello stesso ambiente dello «scavismo pompeianistico» (definizione di Piero Treves) dal quale proveniva per formazione e da cui andava in maniera programmatica rifuggendo.

Il multiforme operato in seno al Servizio di antichità napoletano, infatti, se da un lato gli consentì di cimentarsi nel riordino delle collezioni vascolari del locale Museo archeologico e del Museo provinciale campano, facendolo presto riconoscere come il miglior conoscitore delle fabbriche di ceramiche italiote (campane, lucane e apule) del IV sec. a.C., dall’altro lo pose nelle condizioni di interessarsi delle diverse facies culturali – fin lì neglette – della Campania preromana, con la valorizzazione della Fossakultur della Valle del Sarno, l’illustrazione critica delle stipi preistoriche delle grotte di Pertosa e dello Zachito (nel salernitano), e con il disvelamento delle fasi preelleniche di Cuma e di quelle più antiche di Pompei e Capua. Analogo impegno profuse nell’esplorazione della consistenza del patrimonio archeologico dei territori più eccentrici tra quelli affidatigli (Lucania e Puglia), gravosa attività cui seguirono articolate e precise relazioni edite, perlopiù, nelle Notizie degli scavi di antichità (1896-1901).

Il successivo, ancorché temporaneo, trasferimento in Sardegna e l’entrata nei ruoli della Pubblica Istruzione non ostacolarono, ma per converso intensificarono la sua applicazione allo studio, inteso quale essenziale complemento alla didattica archeologica e alla missione educativa e sociale di quest’ultima (L’insegnamento dell’archeologia e la sua missione pratica in Italia, in Rassegna nazionale, XXVI, 2 (1904), pp. 477-492: prolusione al corso di archeologia letta nell’Alma Ticinensis Universitas il 17 febbraio 1902). Ne è testimonianza la trentina di pubblicazioni date alle stampe posteriormente al concorso del 1901, sino al conseguimento dell’ordinariato quattro anni più tardi, molte delle quali riconducibili a tematiche che non avevano in precedenza richiamato la sua attenzione.

Prescindendo dai primi, timidi, approcci con le antichità – primitive e non – della Lombardia padana (favoriti e anzi, in un certo qual senso, imposti dal ruolo extra accademico di tutore del patrimonio archeologico-monumentale regionale), un nutrito gruppo di lavori di questo periodo fu volto a supportare, contro radicate idee pregresse, alcune innovative teorie sull’apporto etrusco al popolamento preromano della Campania (Buccheri campani. Contributo alla storia della ceramica italica e delle relazioni tra l’Etruria e la Campania, in Studi e materiali di archeologia e numismatica, I (1901), 2, pp. 290-299), sulla derivazione dell’ordine tuscanico dall’architettura preellenica (La colonna etrusca di Pompei nella storia dell’architettura antica e l’origine della domus, in Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, classe di scienze morali, storiche e filologiche, s. V, XII (1903), pp. 367-384), e sulla genesi della casa romana, ricondotta a prototipi orientali (L’origine della domus ed un frammento varroniano mal inteso, ibid., XI (1902), pp. 467 ss.). Ciò nondimeno, tra tutti i suoi scritti primonovecenteschi, talvolta ripresi e rifusi in successive monografie, come quella dedicata nel 1941 all’architettura antica (preistorica, greca, etrusco-italica e romana), spicca l’esemplare dissertazione su Nora, colonia fenicia in Sardegna, pubblicata nei Monumenti Antichi dei Lincei del 1904 (vol. XIV, coll. 109-268).

Nel pieno degli anni pavesi, e ancor più durante quelli trascorsi nel capoluogo lombardo prima della quiescenza, si dedicò, con il consueto rigore, al potenziamento dell’istruzione superiore in materia archeologica (intesa come «scienza dei fatti e non dello spirito»), rivolgendo una particolare attenzione ai progressi tecnici che potevano aiutarne la decodificazione. L’attenzione per la didattica non gli impedì di compiere indagini (anche stratigrafiche) in numerosi siti cisalpini, di coltivare studi storico-letterari sull’epopea omerica e di continuare a occuparsi serratamente di vestigia preistoriche (specie italo-settentrionali). E fu giustappunto alla ricostruzione storica delle più antiche facies culturali della penisola che Patroni dedicò la sua opera maggiore, La Preistoria, concepita negli anni Venti ma pubblicata in prima edizione da Vallardi solo nel 1937 (e nel 1951 in seconda edizione).

In essa contrappose l’ipotesi di un’origine autoctona (mediterranea) delle civiltà italiche all’imperante teoria pigoriniana dell’ascendenza nordica e indoeuropea della «cultura delle terramare», da lui descritta come un’organizzazione sociale improntata «ad un rigido e feroce comunismo» (D’Adamo, 2011, pp. 15 ss.). Questa presa di posizione gli guadagnò le simpatie del regime fascista, attratto da una teoria che sanciva la superiorità della civiltà romana sui «barbari nordici», ma segnò l’inizio dell’oblio della sua opera, comunque meritoria per aver contribuito a inoculare nuova linfa in un sistema di conoscenze ai suoi tempi ancora non pienamente organizzato.

Patroni venne assassinato a seguito di un tentativo di rapina il 13 agosto del 1951 a Celleno, località del Viterbese ove si era recato da qualche tempo a villeggiare.

Le indagini degli organi di polizia condotte nell’immediatezza del fatto condussero in breve ad assicurare alla giustizia l’omicida, riconosciuto tra gli intimi della vittima.

Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione generale istruzione superiore, Liberi docenti, b. 34; ff. Personale insegnante e amministrativo, 2° versamento, s. II, b. 118; Direzione generale AA.BB.AA., Divisione I, s. 955, f. 327. Pressoché tutta la principale bibliografia di e su Patroni, compresa quella celebrativa, è citata in calce alla voce a lui dedicata da R. Invernizzi nel Dizionario biografico dei soprintendenti archeologi, a cura di J. Papadopoulos - S. Bruni, Bologna 2012, pp. 599-609. Si vedano inoltre: A. Sogliano, G. P. e la preistoria d’Italia, in Rendiconti della R. Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti, n.s., XVIII (1938), pp. 137-155; P. Laviosa Zambotti, L’opera paletnologica del P., in Antiquitas, VI-VII (1951-52), 1-8, pp. 6-11; Ead., La formazioni dei popoli dell’Europa antichissima secondo le vedute di G. P., in Acme, V (1952), 3, pp. 573-587; S. Accame, La «breve disputa» sull’archeologia di G. De Sanctis e di G. P., in Nona miscellanea greca e romana, Roma 1984, pp. 343-356; V. La Rosa, La preistoria della Sicilia da Paolo Orsi a Luigi Bernabò Brea, in Paolo Orsi e l’archeologia del ’900, Rovereto 1991, pp. 56-58; G. Sena Chiesa, L’Università degli Studi di Milano. L’antichistica, in Annali di storia delle università italiane, 2007, 11, pp. 153-155; M. Barbanera, Contributo a una genealogia degli archeologi italiani tra Ottocento e Novecento: il caso di Pavia, in Anniversari dell’antichistica pavese, a cura di G. Mazzoli, Milano 2009, pp. 45-50; C. D’Adamo, Disavventure dell’archeologia. I comunisti delle terramare, Bologna 2011, ad indicem.

Un’ampia messe di notizie sulle circostanze della sua morte e sulla successiva inchiesta giudiziaria può desumersi dalle colonne del quotidiano Il Messaggero di Roma (Cronaca di Viterbo) a partire dalla copia del 14 agosto 1951 (anno 73, nn. 224-227, 231).

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