SIMONETTA, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 92 (2018)

SIMONETTA, Giovanni

Maria Nadia Covini

– Nacque in Calabria attorno al 1420 da Antonio de Gucia di Caccuri e da Margherita Simonetta di Policastro.

Dal 1444, seguendo le orme dello zio materno Angelo Simonetta e del fratello maggiore Cicco (v. la voce in questo Dizionario), entrò a far parte del seguito di Francesco Sforza come cancelliere, mettendo a frutto la sua educazione umanistica. Le sue sigle compaiono nei registri dello Sforza dal 1445.

Mentre lo zio Angelo era in Veneto, Giovanni rimase (con Cicco) presso lo Sforza, negli anni in cui fu signore di varie città delle Marche e successivamente in Lombardia (dal 1447, alla morte di Filippo Maria Visconti). Simonetta fu al fianco dello Sforza in tutte le successive, complesse imprese militari: da qui, l’esperienza personale che fu alla base della sua opera storiografica, i Commentarii, con cui anni dopo lo volle celebrare.

Dopo la conquista del Ducato di Milano (1450), Giovanni Simonetta fu uno dei più autorevoli membri della cancelleria secretaria guidata dal fratello Cicco, mentre il terzo dei Simonetta, Andrea, era ora alla custodia dell’importante fortilizio di Monza. Ebbe in quegli anni dal nuovo duca vari privilegi; in particolare, nel 1455 ricevette insieme allo zio, ai fratelli e a tutti i ‘Simonetta’ (il cognome era ormai acquisito a scapito di quello paterno) un privilegio ampio di cittadinanza ‘globale’ esteso a tutte le città del dominio ducale, a cui si aggiungeva un’ampia esenzione fiscale.

Giovanni viveva allora nel palazzo milanese di Cicco (il quale poco dopo decise di separarsi legalmente dai fratelli, rivendicando anche il proprio ruolo nella costruzione delle fortune di Andrea e Giovanni). Tutti e tre i Simonetta fecero matrimoni importanti: mentre i fratelli impalmavano una Visconti e una Casati, Giovanni sposò Margherita Meravigli, appartenente a una famiglia della grande élite mercantile-bancaria cittadina, che commerciava lana di pregio e beni di lusso e aveva agenti in tutta Europa. L’accordo dotale fu stipulato il 23 aprile 1457 nella casa di Simone e Niccolò Meravigli, che di lì a poco divenne anche la residenza dei due sposi.

La Meravigli portava in dote duemila fiorini d’oro e un ricco corredo di beni e oggetti per la casa comune, e a sua volta lo sposo portava ricchi beni e suppellettili, elencati in un atto notarile.

Nel 1459 però la sposa, appena ventenne, morì di febbri, lasciando una figlioletta che le sopravvisse di poco. Nel 1463 Simonetta convolò a nuove nozze con Caterina Barbavara, figlia di Marcolino segretario visconteo e di Donnina Casati. Da lei Simonetta ebbe dieci figli: due femmine, Margherita e Battista, e otto maschi (Francesco, Alessandro, Girolamo, Filippo, Paolo, Pietro Battista, Giacomo e Bartolomeo). Giacomo divenne vescovo e cardinale, altri furono ecclesiastici, poeti, giuristi e uomini d’arme.

Nel 1466-67 Simonetta non potè evitare di essere coinvolto nel dissidio tra il duca Galeazzo Maria Sforza e Bianca Maria Visconti, che lo apprezzava e gli affidava la sua corrispondenza politica. Dal secondo Sforza ebbe poi vari incarichi all’interno della cancelleria segreta, e in particolare fu posto a capo del comitato che si occupava della trattazione degli affari di Genova. Nel 1474 faceva parte del Consiglio generale di Milano, che peraltro era convocato solo occasionalmente. Era il numero due della cancelleria, dopo Cicco; rimase sempre un costante e fedele servitore dei duchi di Milano, dai quali ebbe in premio varie rendite e entrate feudali, tra cui i dazi di Binasco, e terre a Castellazzo presso Rho; inoltre fu sostenuto quando cercò di conseguire rendite e benefici ecclesiastici per i figli.

Furono solo virtuali, invece, le concessioni feudali relative ai luoghi calabresi in cui era nato, che Ferrante d’Aragona gli aveva conferito nel 1460 nel pieno della guerra di successione.

Dopo l’assassinio di Galeazzo Maria Sforza (dicembre 1476), fece parte degli organi di governo della reggenza e nel settembre 1479 fu inevitabilmente coinvolto nella disgrazia di Cicco. Fu condotto insieme a lui a Pavia sotto scorta e imprigionato all’interno del castello, sotto buona custodia. La sua casa fu saccheggiata e derubata, ma i suoi beni, pur se inventariati, non furono confiscati. A Pavia i due Simonetta furono relegati in camere separate, isolati e sorvegliati, e durante la prigionia Giovanni fu probabilmente interrogato e sottoposto a tortura, come del resto l’anziano Cicco.

Dopo l’esecuzione capitale di quest’ultimo, avvenuta il 30 ottobre 1480, Simonetta fu liberato, ma gli fu intimato di prendere la residenza in una città esterna al dominio. Scelse il confino a Vercelli, ma già nel 1483 era tornato a Milano: fu trattato con benevolenza probabilmente perché si stava diffondendo la fama della sua opera, ancora inedita, che celebrava le gesta di Francesco Sforza.

Secondo una lettera scritta a Cicco, l’autore aveva già composto la gran parte dei Commentarii nell’estate del 1475, di sua iniziativa e senza una commissione ufficiale, volendo ricordare e celebrare il grande Sforza, «ad fine che se legga et non perissa la memoria de le cose facte per quello illustrissimo prencipe» (dalla Prefazione di Giovanni Soranzo a Iohannes Simonetae Rerum gestarum..., 1932, p. CIV).

I 31 libri dei Commentarii narrano gli eventi politici d’Italia dai primi anni Venti al 1466, ma il nucleo più importante è relativo al 1444-66: fu questa la parte scritta per prima, sulla base dell’esperienza personale e con sicuro metodo storiografico. Fu poi compilata la narrazione degli anni antecedenti, più breve e basata su scritti altrui, a volte al limite del plagio. Più tardi Giacomo Gherardi riferì che il figlio di Lodrisio Crivelli, autore di una precedente Sforziade, accusava Simonetta di essersi impossessato di un inedito del padre, ma poco credito va dato a questi spifferi curiali, così come appare malevolo il giudizio del Gherardi sullo stile di Simonetta. Va invece sottolineato il valore storiografico dell’opera, per la quale il concetto di propaganda è riduttivo: si tratta di un testo originale, ben più riuscito delle modeste Sforziadi prodotte su commissione della corte ducale, o della genuina ma grezza storia di Muzio Attendolo scritta da Antonio Minuti. Notevole è soprattutto la parte dedicata agli anni 1447-50, che per la sua originalità fu ampiamente ripresa da tutti gli storici successivi, e che Simonetta compose attingendo ai documenti della cancelleria ducale e non solo: per es. il marchese Ludovico Gonzaga nel 1471 scrisse a sua richiesta la sua versione degli antefatti della battaglia di Caravaggio del 1448, e l’autore la incorporò nell’opera. Va inoltre apprezzato lo stile asciutto, ispirato a modelli classici, e la sobrietà nella celebrazione dello Sforza.

Conclusi prima del 1479, i Commentarii videro poco dopo la prima edizione a stampa; Ludovico Maria Sforza (che amava leggerli pubblicamente) li fece a tale scopo revisionare da Francesco dal Pozzo, detto il Poetone, che si vantò di aver pesantemente corretto la forma, e che li interpolò a beneficio della fama del Moro e di altre persone.

Nonostante le disavventure dell’autore, l’opera ebbe una buona diffusione. Antonio Zarotto la stampò tre volte (1482 circa, 1486 e – tradotta in volgare da Cristoforo Landino incaricato per il tramite di Lorenzo il Magnifico da Ludovico M. Sforza – 1490). Le due edizioni nei Rerum italicarum scriptores (Milano 1732 e Bologna 1932, quest’ultima a cura e con prefazione di Giovanni Soranzo), furono condotte su un codice che nei primi decenni del Novecento era presso i Castelbarco, discendenti di Simonetta. Vi si trovano il testo scritto da un copista per commissione dell’autore, i pesanti interventi dei curatori ingaggiati dallo Sforza e infine alcune correzioni di Simonetta che tentava di ripristinare il testo originale. Quattro copie dell’edizione del 1490, su pergamena, furono pregevolmente miniate da Giovan Pietro Birago, su commissione di Ludovico Sforza il Moro: si trovano in musei di Parigi, Londra, Varsavia e Firenze. Appartenuti allo Sforza e miniati sono anche due manoscritti (ora a Milano, Biblioteca Ambrosiana e Trivulziana): uno contiene il testo tradotto dal Landino, l’altro un compendio dell’opera.

Né le traversie editoriali erano finite. Oltre alle manipolazioni già ricordate, solo in parte eliminate nell’edizione in volgare del 1490, Simonetta dovette subire gli attacchi dei parenti del defunto Pio II, che pretendevano la soppressione di alcuni giudizi ritenuti offensivi. Sottoposto a una sorta di ricatto per un beneficio che deteneva dal cardinale Francesco Piccolomini, l’autore cercò di resistere alle pressioni ed ebbe il sostegno della segreteria ducale e del Moro: la vicenda è testimoniata dalle lettere di Gherardi, che fu il tramite delle richieste dei parenti del papa e anche portavoce della malevolenza curiale romana verso il segretario sforzesco.

Gli ultimi anni dell’esistenza di Simonetta furono occupati da questi fastidi e dalla cura degli affari domestici, anch’essa turbata da contrarietà. Nel giugno del 1491 dettò il suo testamento. L’ultima sua lettera, del 15 gennaio 1492, è indirizzata al Moro e contiene aspre querele verso il genero, il conte Alberto Landriani, accusato di dissipare i beni di famiglia (Archivio di Stato di Milano, Sforzesco, 1101). Poco dopo, in data non nota, morì e fu sepolto nella chiesa domenicana di S. Maria delle Grazie, con il benestare dello Sforza, che ne stava facendo una sorta di pantheon dinastico e un luogo di importanti innovazioni artistiche. La tomba fu collocata nella cappella dedicata a S. Giovanni Evangelista, con un’iscrizione che ricordava i Commentarii.

Alcuni anni dopo la vedova Caterina, ritornando sull’annosa lite con Bernardino, figlio naturale di Simonetta, rammentò al duca i meriti del defunto, «essendo stato mio marito affectionatissimo et naturale servitore di quella e di tuta la casa sforzescha, con demonstrarlo maxime nella compositione de l’opera ch’el fece» (Sforzesco, 1124, 8 dicembre 1495).

Da Angelina Marchesi Simonetta ebbe, nei primi anni Cinquanta, Bernardino, che intraprese gli studi di diritto canonico a Pavia e a Bologna. Studente irrequieto e trasgressivo, ebbe frequenti dissidi con il padre, in particolare a causa dei benefici ecclesiastici che Giovanni avrebbe voluto destinare ai figli legittimi. Dopo molti anni, quando ormai Bernardino era diventato un dotto canonista, la lite fu sottoposta a due autorevoli frati dell’osservanza milanese, un francescano e un domenicano, ma era ancora aperta alla morte di Giovanni.

Fonti e Bibl.: Iohannes Simonetae Rerum gestarum Francisci Sfortiae commentarii, a cura di G. Soranzo, in RIS, XXI, 2, Bologna 1932, pp. I-CXII. Inoltre cfr. Dispacci e lettere di Giacomo Gherardi nunzio pontificio a Firenze e a Milano (11 set. 1487-10 ott. 1490), a cura di E. Carusi, Roma 1909, ad ind.; Carteggi diplomatici fra Milano sforzesca e la Francia, I, a cura di E. Pontieri, Roma 1978, ad indicem.

G. Ianziti, A humanist historian and his documents: G. S., secretary to the Sforzas, in Renaissance Quarterly, XXXIV (1981), pp. 491-516; Id., The first edition of G. Simonetta’s Commentarii: questions of chronology and interpretation, in Bibliothèque d’humanisme et Renaissance, XLIV (1982), pp. 137-147; Id., Humanistic historiography under the Sforzas. Politics and propaganda in 15th-century Milan, Oxford 1988; P.L. Mulas, Auctore Mauro Filio. The pictorial scheme of illumination for the frontispieces of the Commentarii of G. S., in Bullettin de bibliophilie, I (1996), pp. 9-33; M.N. Covini, La fortuna e i fatti dei condottieri «con veritate, ordine e bono inchiostro narrati»: Antonio Minuti e G. S., in Medioevo dei poteri. Studi di storia per Giorgio Chittolini, a cura di N. Covini et al., Roma 2012, pp. 215-224; Ead., L’assimilazione dei forestieri nelle élites della Milano sforzesca. La vicenda dei Simonetta di Calabria, in Milano città delle culture, a cura di M.V. Calvi - E. Perassi, Roma 2015, pp. 175-182.

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