Giovanni Verga: Opere

I Classici Ricciardi: Introduzioni (1968)

Giovanni Verga: Opere

Luigi Russo

Giovanni Verga è nato il 1 settembre 1840 a Catania ed è morto nella stessa città il 26 gennaio 1922. Noi non abbiamo voluto partecipare a quel dibattito che si è fatto in questi ultimi tempi nei giornali siciliani, per sostenere sulle testimonianze cosiddette dei vecchi che il Verga è nato a Vizzini, e fu trasportato dai genitori a Catania perché apparisse cittadino di Catania. Si dimentica che allora, per trasferire un neonato da Vizzini a Catania, bisognava fare almeno sette ore di carrozza; a meno che i genitori dello scrittore, con le loro aderenze, e persistendo il regime borbonico, abbiano potuto fare la dichiarazione al comune di Catania senza portare la creatura, come usa dire nel Mezzogiorno. E ancora vorremmo osservare che i genitori di Giovanni Verga non potevano avere spirito profetico, e pensare che il loro figlioletto sarebbe diventato un grande scrittore! Però non abbiamo mai voluto partecipare a coteste polemiche: esse devono cadere, perché sono una gramigna che folteggia in modo particolare per gli interessi generosi, ma sempre di carattere inferiore, degli eruditi di provincia per ambizioni di campanile. Il Verga è catanese, e non ci importa nulla che egli possa essere nato a Vizzini; a noi importa soltanto che il Verga sia stato quel grande scrittore che fu. Vizzini certamente è molto presente nell'opera del Verga; nella vicina Francofonte lo scrittore apprese del duello di Turiddu Macca e compare Alfio, e nel circolo delle campagne di Vizzini e in qualche palazzo di Vizzini si sono svolte le vicende di Mastro-don Gesualdo. Non solo, ma una delle più belle novelle, Jeli il pastore, è inquadrata nelle case Tebidi, cioè a dire tiepide, che i Verga possedevano e possiedono ancora oggi a Vizzini.

Dopo lunghe discussioni, che si sono svolte e maturate dal 1919 a oggi, il Verga è considerato il nostro più grande narratore che sia nato dopo il Manzoni. Esordì con romanzi a sfondo autobiografico, che documentano del suo nativo romanticismo e della sua immediata passione di vita, congiunta a un nativo gusto dell'osservazione realistica. Verso i quarant’anni, lo scrittore venne liberandosi da cotesto soggettivismo romantico, e volse la sua visione alla vita della provincia, attratto da quel mondo di passioni elementari in cui pulsava una umanità primitiva, religiosa e paziente. La logica degli affetti nei personaggi dei romanzi giovanili era una logica un po' tutta soggettiva; ma il Verga maturo si venne orientando verso una fede triste ed assoluta che la sofferenza è la logica ferrea, oggettiva, della vita stessa. Dai «Vinti», vittime della loro stessa capricciosa e malata immaginazione, si passa ai «Vinti», vittime necessarie e fatali della vita dolorosa e ironica; al dramma delle persone subentra il dramma delle cose. Nedda (1874) segna cotesto processo di maggiore intimità della passione nell'arte dello scrittore. Da questo momento, non avremo più romanzi o novelle in cui il protagonista sia il centro fantastico dei suoi dolori e delle sue delusioni: Eros, del 1875, è una passiva e stracca ripetizione e liquidazione dei vecchi motivi romantici, e soltanto Eva è il romanzetto più geniale, scritto nel 1873, e qui lo abbiamo riportato.

Avremo da ora in poi bensì protagonisti, ma confusi in una umanità collettiva, poiché tutti sono eguagliati e umiliati a quella che è la norma fissa e fatale universale: la sofferenza, che nei romanzi giovanili può attribuirsi a squilibrio degli individui, ora è il triste equilibrio intrinseco al mondo stesso. Per conseguenza, anche lo stile troppo acceso, accentuato da un pathos fantastico delle opere prime, si scarnisce, diventa più essenziale, sfugge ai toni d'effetto, si fa più sobrio e più intenso: non è più uno stile di parole e di immaginazione, ma, direi, di accenti, di rapidi segni, di gesti, di mezze espressioni, e l'artista par che completi il racconto con la sua voce viva (donde la prosa parlata del Verga), quasi che egli parlasse a un gruppo di ascoltatori, e trattenesse e contenesse tutta la sua commozione per le angoscie e le miserie e le tragedie dei suoi poveri diavoli, lasciando che tutto si esprima e persuada per la interna logica serrata delle cose stesse. Cotesto processo di rappresentazione è così rigoroso, che noi abbiamo un senso immediato della vita, escluso quasi lo stesso intervento dell'autore; l'arte vi diventa quasi assolutamente trasparente, ogni materialità espressiva vi è vinta, ciò che può favorire il sospetto che la vita umanissima appaia nel racconto del Verga perfin troppo disumanata.

Ma il mito romantico non è ancora debellato in noi, quando siamo tratti a giudicare dell'arte di uno scrittore, indagandovi con commozione il prepotente biografismo che lo pervade; orbene, se un merito ebbe il Verga, che veniva fuori dalla cultura romantica la quale attraverso la Lombardia si diffondeva in tutta la penisola, e anche nella lontana isola di Sicilia, e che si muoveva in mezzo alla letteratura egotistica contemporanea (dal D'Annunzio al Fogazzaro), fu quello di infrenare ogni spunto di soggettivismo e di dissimulato autobiografismo nei suoi racconti, instaurando una rappresentazione oggettiva della vita.

Nell'Amante di Gramigna (1880), preceduto da una lettera a Salvatore Farina, il Verga formulava nettamente la nuova poetica. «... tu veramente» scrive il Verga all'amico «preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore». È il primo accenno all' impersonalità dell'arte. Poi c'è la nota polemica contro le pene squisite dell'immaginazione disoccupata, e l'affermazione del pathos nativo del fatto vissuto: la confusione tra l'arte e la vita, che fu l'inganno in cui caddero, almeno teoricamente, i veristi. «Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l'efficacia dell'essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne». E seguiva l'accenno alla «scienza del cuore umano», che sarebbe nata dalla nuova arte, che sarebbe stata fondamento all'arte dell'avvenire, e il riecheggiamento della famosa teoria zoliana del romanzo come «fatto diverso». «La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le risorse dell'immaginazione che nell'avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi.» E infine seguiva, quasi in forma esplosiva, la tesi dell'impersonalità dell'arte, formulata con immagini e parole molto affini a quelle di Flaubert della Correspondance, e cotesta spontanea somiglianza sta a testimoniare come tutta la nuova poetica fosse nell'aria, e artisti lontani fossero maestri e scolari e compagni, quasi senza saperlo:

io credo che il trionfo del romanzo, la più completa e la più umana delle opere d'arte, si raggiungerà allorché l'affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane; e che l'armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell'artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l'impronta dell'avvenimento reale, e l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore; che essa non serbi nelle sue forme viventi alcuna impronta della mente in cui germogliò, alcuna ombra dell'occhio che la intravvide, alcuna traccia delle labbra che ne mormorarono le prime parole, come il fiat creatore; ch'essa stia per ragion propria, pel solo fatto che è come dev'essere, ed è necessario che sia, palpitante di vita ed immutabile al pari di una statua di bronzo, di cui l'autore abbia avuto il coraggio divino di eclissarsi e sparire nella sua opera immortale.

Questa è la più eloquente pagina teorica che il Verga abbia scritto, e una certa abbondanza di aggettivi tradisce l'enfasi del neofita; ma valeva la pena di riportarla, per dire che essa non significa negazione o assenza di un ideale soggettivo nel narratore. Anzi per tal via si conferma quella che è la sua fondamentale esperienza, quell'esperienza per la quale le lacrime degli uomini sono le stesse lacrimae rerum, e nel mondo non risaltano individui, perché tirannica domina una legge che tutti eguaglia ed umilia, e non si distinguono i buoni dai cattivi, perché tutti sono dei vinti, e la passione, più che azione, è passività, è un patimento fatale, o, se si vuole, un'impassibile pazienza.

I metodi oggettivi del Verga dunque non sono dovuti a proposito estrinseco di tecnica letteraria, ma procedono da un essenziale problema di umanità: l'impersonalità del Verga è la stessa umiltà e impersonalità del destino umano. Uno scrittore cristiano, come il Manzoni, può accompagnarci per tutto il racconto, o con una parola di fede, o con un sorriso di indulgente ironia, o con un lieve abbandono di rassegnazione fiduciosa, poiché Dio, il Dio personale, il Dio-Passione, è nel cuore dello scrittore; ma, nel Verga, quello che è sentimento cristiano per i poveri diavoli ha tono depresso e una punta di ritrosia, e la volontà di Dio perde ogni contorno personale per diventare l'anonimo Destino, e la rassegnazione si circonfonde di una triste sfumatura di fatalismo.

Anche il dramma dell'amore, della passione per eccellenza lirica secondo il comune credere, non avrà quegli sviluppi affermativi che suole avere presso altri scrittori, e che pure voleva avere nel giovane Verga: il dramma dell'amore è sempre negativo, ed è soffocato dalla miseria o dal sangue. Lo scrittore anzi arriverà a poco a poco a una preterizione degli episodi amorosi nell'arte sua più adulta; come in Manzoni, per ragioni cristiane, anche nello scrittore siciliano, per ragioni di una diversa e più elementare religione, il motivo dell'amore presto si consuma. Nei capolavori della maturità esso sparisce affatto, o si attenua in reticenti e timidissime espressioni, come l'amore di Alfio per Mena nei Malavoglia. In Mastro-don Gesualdo il motivo dell'amore, introdotto di sbieco per l'idillio di Isabella e di Corrado La Gurna, nella redazione definitiva del romanzo, del 1889, viene stravolto autoironicamente, e la passione romantica della ignara fanciulla è irrisa continuamente dal genitore, particolarmente per quel che riguarda il suo Corrado La Gurna, contro cui mastro-don Gesualdo appunta le sue feroci ironie.

Noi abbiamo riportato in questa raccolta alcune pagine della prima redazione del Mastro-don Gesualdo. pubblicate nella «Nuova Antologia» del 1888, dalla quale si desume come l'artista fu lungamente combattuto tra una figurazione per dir cosi sentimentale, aderente a questi vagheggiamenti fantastici della fanciulla, e una figurazione ironica e polemica. Nel rifacimento di questa parte per l'edizione in volume del 1889, il Verga per l'appunto preferì smorzare il sentimentalismo dell'idillio, portandovi una luce di equivoca ironia. Anche il collaboratore di Isabella, il poeta spiantato Corrado La Gurna, viene presentato, sarcasticamente, come la solita alma sdegnosa, che scrive versi sublimi e cova porcherie; il falso eroe della soffitta, che fa l'orso e pensa ai casi suoi e ai suoi morti, sempre fasciato di perpetuo lutto, mentre tira diritto il colpo maestro per avere l'anima e la roba di Isabella con le sue trappolerie di poeta. Dirci anzi che le pagine più felici sono quelle dove è descritta la falsità di questo idillio, in contrasto col sano senso realistico di Gesualdo: « - Ah ... le canzonette? roba che non empie pancia, cari miei! - », così conclude don Gesualdo, una volta, per tagliar corto, a «quelle chiacchiere sconclusionate che vi tiravano gli sbadigli dalle calcagna», e per rimbeccare la zia Cirmena, la quale, per reggere il sacco al nipote, «s'era messa a far la sapiente anche lei, a parlare col squinci e linci».

Per tornare all'idea di questo amore che a poco a poco sparisce dal mondo verghiano, ricorderemo ancora una volta il Manzoni, in cui i terrestri ardori debbono conciliarsi in un pensiero superiore di offerta all'Eterno; nel Verga, la passione amorosa, essendo considerata anch'essa eticamente, trova i suoi limiti nella religione del focolare domestico, o nella preoccupazione del fare la roba, una divinità anche questa inclemente e che divora molti personaggi verghiani, da Mazzarò delle Novelle rusticane, dal protagonista di Mastro-don Gesualdo alla baronessa Rubiera e agli antagonisti del romanzo tardivo Dal tuo al mio.

Anche nella Vita dei campi (1880), che è la sola raccolta in cui è dato largo sviluppo alle ardenti passioni (e qui abbiamo riportato quattro novelle di quella raccolta), queste non hanno nulla di sensuale, e non possono neanche dirsi amori, nel senso usuale dell'espressione, poiché rientrano e sono subordinate ad una vaga religione taciuta, la religione della casa, della famiglia, dell'onestà. Gli omicidi d'amore delle novelle verghiane non uccidono per il geloso possesso della femmina, ma per la tutela della santità del focolare domestico. Così anche l'amore è umiliato sotto la legge dura della vita; esso dunque non è rappresentato nei possessi, quanto nelle privazioni; non è una sofferenza eroica ma misera, non è un dramma di vita ma di povere vite: anch'esso è peso fatale, un dovere angustiante, non sogno, ma prosa. La logica religiosa della famiglia, o dello stesso far la roba, lo assorbe in sé; e ancora una volta il dramma delle cose è più forte degli affetti e dei desideri degli uomini.

Cotesta visione oggettiva della vita, in fondo ha tutta la forza di una religione. Il tempio di cotesta religione è la casa, o «la roba», purificata da tutto il sentimento egoistico dell'avarizia, e della proprietà, ed assunto piuttosto nel suo senso trascendentale, come se ogni colpo di zappa o ogni covone trebbiato nell'aia fosse un omaggio all'eternità.

Nello sconsolato mondo verghiano non c'è mai posto per l'idillio, e, dove questo spunta, è subito oppresso da un'atmosfera di cruccio, da una cura assidua di quel travaglio quotidiano che mai può interrompersi, da quella preoccupazione per la lotta col mondo, che non ha mai tregua. Anche dopo le nozze, don Gesualdo non ha pace: tutto quel parentame del malaugurio, che non è intervenuto alla cerimonia, le maldicenze susurrate a mezza bocca sull'avventura prematrimoniale di Bianca col cugino Ninì Rubiera, e la canzonaccia sardonica che uno sfaccendato del paese, Ciolla, viene cantando sotto le finestre, e infine lo stesso viso dolorosamente contratto della donna, che si offre alle sue carezze come una vittima, fanno ribollire in lui tutte le antiche amarezze, tutte le sue cotidiane collere, e asprezze di lottatore. « - Bel divertimento!... Dopo tanti stenti, tanti bocconi amari! . . . tante spese fatte! .. . Si dovrebbe essere così contenti, qui. . . due che si volessero bene! . . . Nossignore! neanche questo mi tocca! Neanche il giorno delle nozze, santo e santissimo! . . . - » In questa irrequieta sofferenza, in questo cruccio perpetuo, che è come la legge flagellatrice voluta da una divinità enigmatica, dalla sorte maledetta, c'è il riscatto religioso dell'uomo, che voleva essere soltanto uomo della roba e per la roba. Così si spunta in noi ogni ripugnanza contro la sua avarizia guardinga, contro la sua febbrile avidità di guadagni: c'è una giustizia delle cose che lo raggiunge, l'anonimo e implacabile Destino che lo sferza, e la sua folle poesia della roba porta in se stessa il suo tribolo, il suo cilizio cotidiano.

Dei Malavoglia noi abbiamo rappresentato, in altre occasioni, la genesi polemica; i Malavoglia volevano essere uno studio sincero e spassionato, come avvertiva nella prefazione l'autore, del nascere e dello svilupparsi delle prime inquietudini per il benessere, nell'anima della povera gente. La vaga bramosia dell'ignoto, l'insoddisfazione delle proprie umili condizioni, doveva trascinare una casa patriarcale di pescatori alla rovina: il dramma oscuro del desiderio si svolgerà nell'anima di 'Ntoni, che è stato a fare il soldato, e ha conosciuto il mondo, il quale, fuorivia, è più bello che non sia ad Acitrezza; ma il patimento delle fantasticherie del giovane si allarga su tutti i consanguinei, e l'errore di uno solo segna la catastrofe di tutta una famiglia. Questo senso di fatalità che c'è in tutto il racconto, non insinuato per tesi dallo scrittore, ma direttamente sentito dai protagonisti dell'azione, dà al romanzo una intonazione tragica, che, per essere intessuta di svariati episodi umoristici che coloriscono tutta la vita di un villaggio, non perde mai però questo suo ritmo di perduto dolore, e la sua unità di ispirazione. «A ogni uccello il suo nido è bello», avevano detto gli antichi: 'Ntoni Malavoglia si è scordato di questo motto di saggezza; ed egli precipita nel vizio, e con lui si abbatte tutta la casa dei Malavoglia. Ma non si può dire neanche dove finisca la vita malavogliesca che si svolge tra le pareti della casa del nespolo, e dove incominci quella del villaggio. Nel romanzo è sempre presente la funzione di un coro vero e proprio, che viene compassionando o contrastando alle pene dei protagonisti. Alle sventure dei poveri Malavoglia partecipano tutti quelli del paese, con spirito di compassione o di antitesi, e non di rado con la crudele compassione che i poveri diavoli sanno mettere nel compianto delle disgrazie dei loro simili, e con quello spirito di antitesi che ci avverte della miseria di quegli stessi, che, forti oggi, domani anche loro forse saranno dei vinti, e miserabili come le altre povere vittime.

Abbiamo accennato alla genesi polemica dei Malavoglia: la prima idea del romanzo risale al tempo, tra il 1876 e il 1880, in cui il Verga veniva scrivendo le novelle di Vita dei campi. In Fantasticheria, indirizzata, come sappiamo, ad una amica, lo scrittore ci annunzia l'abbozzo di quel suo romanzo, e colorisce rapidamente i personaggi principali, il significato ideale, la catastrofe dell'umile storia, il «nodo» del racconto, come egli diceva, atto a illuminare la necessità fatale e anche la grandezza del dramma modesto e ignoto di quegli attori plebei. Il dramma non manca di interesse, concludeva lo scrittore; perché c'è una legge fatale ed è questa, che allorquando uno di quella povera gente, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dal gruppo per vaghezza dell'ignoto, o per brama di meglio o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo, da pesce vorace com'è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. Forse noi abbiamo torto, quando avvezzi e lusingati nel riconoscere e stimare i dolori complicati e squisiti, le passioni sublimi, i febbrili affanni della vita di ozio e di lusso, trascuriamo quelle umili sofferenze degnandole tutt'al più di una nostra smorfia di filantropica pietà e di compatimento. Sarà cotesto l'ideale dell'ostrica, ma per le ostriche l'argomento più interessante deve essere quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio; e noi non abbiamo altro motivo, per trovarlo ridicolo, che quello di non essere nati ostriche anche noi. Il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua, e duchesse di là, quella religione della famiglia, che si riflette sul mestiere, sulla casa e sui sassi che la circondano sono, se si riesce a vincere la poca nobiltà di certi nostri pregiudizi, cose serissime e rispettabilissime anch'esse. «Farmi» conclude lo scrittore «che le irrequietudini del pensiero vagabondo s'addormenterebbero nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione.»

Del Verga abbiamo scritto in varie occasioni come egli rappresenti un rinnovamento della letteratura italiana, non solo per i nuovi miti e i nuovi personaggi che egli introduce, scelti tra i contadini e i più umili primitivi, ma perché egli è l'inventore di un nuovo linguaggio poetico. Se col Manzoni la lingua si poteva dire italo-francese, per le larghe esperienze che dei due paesi lo scrittore aveva riportato e segnato nella sua mente fin dagli anni giovanili, e perché il Settecento ci aveva trasmesso una Francia abbraccicata all'Italia, e nonostante tutto sua generosa matrigna, per il Verga si può ripetere altrettanto, in quanto la letteratura francese nella seconda metà dell'Ottocento è stata molto familiare al nostro autore, perché ancora troppo fusa nel nostro sangue, nonostante gli energici sforzi misogallici di Vittorio Alfieri; ma come lingua italiana egli non segue più il modulo manzoniano, che era quella del classico fiorentino, ampliato e trasfigurato in una lingua europea, ma ne crea uno nuovo, estraendolo direi dalla voce dei suoi stessi protagonisti. Il dialetto siciliano, e perché fuso nel sangue dello scrittore, e per omaggio al principio della poetica veristica, rimane dunque fondamentalmente la lingua con la quale contrasta lo scrittore, per l'elaborazione del suo nuovo linguaggio poetico. E dove questa specie di idea platonica, questo specimen atavico del linguaggio poetico del Verga, impallidisce e si fa incerto, allora anche la prosa dello scrittore si irrigidisce e si schematizza, e l'artista non sente più la necessità interiore di continuare a scrivere i suoi nuovi racconti e romanzi. In questo senso il dialetto siciliano, cellula della sua lingua poetica, costituisce la spia del limite creativo del Verga.

Per ogni scrittore, esiste sempre un'idea platonica della lingua, a cui egli si sforza di adeguarsi, non riuscendovi, per fortuna, o almeno a lui così pare, mai pienamente. E nell'illusorio contrasto con questa lingua degli angeli, con questo fantasma d'un suo lontanissimo cielo, lo scrittore riesce veramente artista, poeta, per la durezza stessa e per la quasi delusione dello sforzo a lungo durato. Ma quando non si combatte più, quando la cellula non è più un trepido desiderio, ed essa si è tutta spiegata e incarnata, allora la lingua si è già meccanizzata e comincia il mestiere: si hanno i paralipomeni dell'opera. Il Verga più grande è nella lingua nativa da lui difficoltosamente trasfigurata, e nel momento della sua più intensa trasfigurazione. Quando il modulo è già fissato, lo scrittore decade, e rinunzia a scrivere la Duchessa di Leyra, perché, come il modulo della prosa dei Malavoglia non era più buono per la prosa di Mastro-don Gesualdo. così il modulo della prosa di Mastro-don Gesualdo non serviva al nuovo romanzo del mondo nobilesco di Palermo.

Anche la prosa del Manzoni è molto probabile che all'orecchio di un lombardo musicalmente assai scaltrito debba suonare, almeno in alcuni tratti, come una traduzione illustre della sua parlata meneghina, quasi che anche per lui ci fosse stato questo modello platonico della sua lingua lombarda, e si debba però avvertire qua e là qualche intoppo, o almeno l'ingegnosità culta della traduzione. Del resto, anche per il Fogazzaro si può fare la stessa asserzione: l'ideale platonico del Fogazzaro è sempre il dialetto vicentino, come per Emilio De Marchi è sempre il dialetto ambrosiano. Nel mondo moderno, e forse non solo in quello se si pensa al caso del Boiardo e dell'Ariosto, non si nasce più in una lingua nazionale, ma si addiviene a una lingua nazionale attraverso una profonda e tormentata esperienza di carattere regionale.

Alessandro Manzoni elaborò uno strumento letterariamente assai versatile, come lingua di un artista che racconta non soltanto le vicende di due poveri valligiani, ma anche quelle di «prencipi e potentati», e qualificati personaggi, cioè le vicende morali storiche di tutto un secolo e di una civiltà ambiziosa e, comunque, illustre. Ma raccontò anche le vicende in cui vibrano la lingua e l'accento religioso del Dio-Passione, del Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola. D'accordo, che l'argomento non fa la lingua, ma si cita l'argomento come simbolo sensibile della specola altissima da cui il Manzoni mirò muoversi e agitarsi quel suo mondo. Orbene, anche per Verga, e per tutto Verga, è stata fatta la proposizione assurda ed ingenua che egli avrebbe dovuto scrivere almeno i Malavoglia in dialetto; ma il pio desiderio e la strana richiesta testimoniano al vivo qual fondo dialettale c'è nella sua prosa, a quello stesso modo che nel Manzoni di Renzo, di Bortolo, di Agnese, di Perpetua, del barrocciaio di Monza, l'acuto lettore lombardo sente la presenza invisibile di quell'altra lingua di Carlo Porta, in cui egli, in un assurdo amore della sua musica municipale, vorrebbe istintivamente ritradurla. E non mancano dei buoni studi che dimostrano la «milanesità», col vocabolario del Cherubini alla mano, della lingua di Alessandro Manzoni.

Ma Luigi Capuana coraggiosamente aveva dichiarato quello che era stato lo sforzo del Verga, e suo, per creare questa lingua nuova dei loro racconti; non i trecentisti, non Dino Compagni e la Crusca, non i comici del Cinquecento, ma una prosa parlata, era balenata a loro, come ideale e modello, e tutta punteggiata di richiami e di ritmi e cantilene locali.

Perfino Federico De Roberto si tormentò molto sulla lingua nella quale egli avrebbe voluto scrivere i suoi romanzi: anch'egli andava distinguendo una lingua aulica, come per esempio, la dannunziana, atta a formulare con precisione un'analisi psicologica, o a descrivere uno stato d'animo fine e poetico, ed una lingua borghese, la manzoniana, buona per intenderci nelle espressioni della vita comune; se un artista, egli si domandava, volesse tentare il connubio tra il romanzo psicologico e il romanzo di costume, quale quello verghiano, che lingua lo scrittore deve adoperare? Forse il Verga scrive l'italiano? si domandava il De Roberto. Ha fatto certamente dei progressi il Verga dai Carbonari della montagna, scritto nel '61, fino alle sue ultime produzioni nell'italianità della lingua, ma lo strumento agevole per il futuro romanzo non è stato fabbricato ancora da nessuno. Come si vede, il problema del linguaggio poetico tormenta la mente di ogni scrittore, perché non c'è alcuna divinità ignota, il vocabolario o l'accademia, che gli possa fornire il modulo per poter manifestare l'ombra del beato regno segnata vagamente nel suo capo. Ogni artista vero deve ritrovare la sua lingua e ammonire i successori, con le parole di Adamo, su nel Paradiso dantesco: «La lingua che io parlai fu tutta spenta».

E il De Roberto risolvé il suo problema scrivendo quella prosa dei Viceré, una prosa per dir cosi parlata, ma diffusa di una patina di erudizione e di una certa preziosità aristocratico-spagnoleggiante.

Del Verga qui sono accolti gli scritti più significativi: intanto Eva, che sta a rappresentare questo suo ingresso nella letteratura nazionale, e che si presenta scritta in un linguaggio che correva dall'una all'altra parte d'Italia, ma con un velo di lingua francese, con la quale lingua il Verga ebbe molta familiarità fin dalla prima giovinezza. Poi Nedda. che per una parte, per il famoso ritratto della protagonista, è manzoneggiante, perché quel ritratto è calcato sui moduli dei ritratti manzoniani, mentre nel cuore del racconto scoppia la rivoluzione del suo nuovo metodo di verista, e di «scrittore provinciale». Difatti in Nedda. o c'è il dialogo diretto, piegato a un'inflessione che è un commento interno di chi parla e dell'artista che trascrive per lui; o c'è il dialogo raccontato, in cui lo scrittore, con l'aria di riassumere, presenta in iscorcio i sentimenti dei personaggi mescolandoli a qualche rapida didascalia. In questo periodo il Verga ancora non è riuscito a creare in sé la sua lingua platonica, cellula il dialetto siciliano, perché talvolta il dialetto appare nella sua crudezza, e questa crudezza continuerà ancora per qualche tratto in Cavalleria rusticana, e nella Lupa; il Verga padrone del suo nuovo linguaggio si dimostrerà soltanto nei Malavoglia (1880-81). Sono significative le parole che egli scriveva a Carlo del Balzo, critico dei Malavoglia. attorno a quel tempo: «Se dovessi tornare a scrivere I Malavoglia, li scriverei allo stesso modo, tanto mi pare necessaria ed inerente al soggetto la forma. Non vi dico che non si possa fare cento volte meglio, non vi dico che son riuscito a dare ai miei personaggi il colorito giusto; ma è quel colorito che cerco, difficoltà immensa! - Lo vedo allo scontento che mi lascia la prova fatta, ma sino a quando non si sarà superata, sino a quando ci culleremo nella solita nenia delle frasi lisciate da 50 anni, non avremo una vera e seria opera d'arte in Italia. - Di questo son convinto.»

Orbene queste parole del Verga scritte ad un suo critico sono l'esplicazione del suo manifesto letterario implicito nei Malavoglia. e per questo noi diciamo che egli è l'iniziatore di una nuova letteratura. Se non sapessimo per altra via che Cavalleria rusticana e La lupa furono i due primi bozzetti della Vita dei campi. ce ne accorgeremmo anche per alcune testimonianze di carattere linguistico. In essi, il dialetto siciliano urta e ribolle e borbotta un po' troppo bruscamente ancora, nel nuovo doglio. Specialmente in Cavalleria rusticana, il dialetto permane ancora nella sua materialità rusticale, o nella sua traduzione stentata, proprio come in Nedda. Anche le bestemmie degli interlocutori ancora non sono state profondamente idealizzate nella lingua dello scrittore. Il «santo diavolone» è bestemmia troppo veristicamente proverbiale, perché il colore espressivo sia un'originalità dell'artista. In Jeli il pastore, le bestemmie sono riepilogate, oppure sono ritmate sul piano delle persone e dei riti e dei miti della chiesa, più che sul piano della religione vera e propria:

Il fattore si sfogava a calci e scapaccioni su di Jeli, e tirava pei piedi gli angeli e i santi del paradiso.

non so chi mi tenga dallo stenderti per terra accanto a quel puledro che valeva assai più di te, con tutto il battesimo porco che ti diede quel prete ladro!

Qui lo scrittore ha trasfigurato le interiezioni proverbiali, traducendole nel suo linguaggio lirico di artista, e rendendone a pieno l'empito iracondo. Il «santo diavolone» tornerà nei Malavoglia, ma soltanto a esprimere la commedia ambigua della falsa ira e dell'interesse; è Piedipapera che invoca il «santo diavolone» per recitare meglio la commedia sua di sensale, che, con l'aria di rappresentare la giustizia, piega tutto dalla parte di zio Crocifisso.

Del resto nei Malavoglia non ci sono bestemmiatori (il nume della religione è la casa, e il suo salmista è padron 'Ntoni e contro la casa nessuno bestemmia); solo nel Mastro-don Gesualdo, dove la religione si fa più terrena, con quegli idoli ossessivi della roba, e delle belle terre, e dei tari l'uno sopra l'altro, si torna a bestemmiare. Per lo più il «santo e santissimo» è il riepilogo lirico, e mirabile, di tutte le bestemmie del sempre crucciato don Gesualdo. L'artista affinava sempre i suoi modi, e si allontanava da quelle che potevano apparire maniere troppo proverbiali. Il «santo diavolone» era un'interiezione da poesia dialettale, come tante ce ne sono nella poesia romanesca; il Fogazzaro, tutto chiuso nel suo Lombardo-Veneto, circondato da marchese e da contesse, non poteva intendere cotesto spirito che circolava nella civiltà siciliana, e quando introdusse il barone di Santa Giulia nel Daniele Cortis non trovò di meglio che fargli esclamare, trivialmente, il solito «santo diavolo».

La chiusa dei Malavoglia riafferma la fede nell'unica divinità superstite, nell'unico tempio che resta sempre in piedi, fra le rovine di tutte le fedi e di tutte le speranze del mondo verghiano. Se la casa dei Malavoglia è andata distrutta, il simbolo trascendentale della casa resta intatto: ecco la filosofia ultima del romanzo. La visita finale di 'Ntoni e il suo volontario allontanamento sono come una specie di cerimonia religiosa, in cui il tempio, che era stato offeso nei suoi principi, viene riconsacrato.

Prima d'andarsene voleva fare un giro per la casa, onde vedere se ogni cosa fosse al suo posto come prima.

Viene riconsacrato il tempio, e sono convocati idealmente gli assenti e i perduti: padron 'Ntoni che è partito per un viaggio lontano, più lontano di Trieste e d'Alessandria d'Egitto, è li presente, tacito nume; ed è presente anche l'ultima dei Malavoglia, la Lia, la vittima colpevole, che la città ha perduto senza che se ne sappia più nulla.

- Qui pure il nonno avrebbe voluto metterci il vitello; qui c'erano le chiocce, e qui dormivano le ragazze, quando c'era anche quell'altra ... - Ma allora non aggiunse altro, e stette zitto a guardare intorno, cogli occhi lustri.

Insieme con questa consacrazione, c'è il castigo liberamente scelto e liberamente accettato; 'Ntoni, nell'atto stesso che riconosce la santità del focolare domestico, si esclude da sé da quel tempio, pronunzia la sua condanna e si allontana.

-... qui non posso starci. Addio, perdonatemi tutti.

Ed egli se ne va con la sua sporta sotto il braccio. E nessuno osa dirgli di restare. Gli ultimi eredi che si aggrappano disperatamente alla vita, per ricostruire la casa e celebrare ancora una volta la legge della saggezza antica, stanno lì, dolci ma inesorabili giudici, nella loro muta e dolente semplicità, a ripetere l'ammonimento, e a sanzionare il doloroso rimprovero per la sorte di quelli che da quella legge antica si dipartirono. E tutte le cose e il paesaggio attorno pare acconsentano, in una loro tragica impassibilità, a quella lenta esecuzione di pena. Quel paesaggio, che è stato sempre un po' l'anima reticente di tutto il romanzo, qui riesce fuori a cantare il suo ultimo coro sommesso. Ed è un coro assai patetico, ma composto di voci anche realisticamente trite: rumori noti, voci che si chiamano dietro gli usci, sbattere d'imposte, passi per le strade buie. L'ultimo particolare, il ricordo di Rocco Spatu, il fannullone del paese, che con le mani nelle tasche tossiva e sputacchiava, dà tale suggello di trito realismo a questa melodia finale del romanzo. Il mare, che s'era fatto di amaranto, «tutto seminato di barche che avevano cominciato la loro giornata anche loro», era un motivo quasi di troppo larga serenità, e bisognava invece temperare e quasi soffocare la freschezza di quel respiro marino, con delle note più umili e più prosaiche. «Ma il primo di tutti a cominciare la sua giornata è stato Rocco Spatu.» Paiono parole stupide e insignificanti, e invero lo stupore impassibile del protagonista non può meglio effondersi, che fermandosi su un particolare insignificante e assai secondario. Avviene quello stesso, quando, tormentati da una grande pena, noi ci balocchiamo a ripetere un ritornello qualsiasi, una qualunque frase convenzionale o insensata, sulla quale sentiamo di riposare e di distrarre un poco il nostro dolore.

Si osservi ancora che il ritorno di tutte quelle piccole cose, secondo il ritmo di un'abitudine quotidiana, finisce con l'avere la solennità del Tempo, che trascorre impassibile, eterno e sempre eguale a se medesimo. La vita di Acitrezza torna a essere la medesima di ieri, e quella di oggi sarà la vita di domani. Vanni Pizzuto accende il lumicino nella sua bottega, lo zio Santoro presto si accoccolerà davanti all'osteria a incominciare la sua giornata anche lui. Rocco Spatu si scatarra da uomo vinoso e sfaccendato, tutti gli usci tornano ad aprirsi; e quelle umili cose sono come avvicinate e ingrandite da quel cielo, in cui la vita torna, anche lassù, la medesima.

Egli levò il capo a guardare i Tre re che luccicavano e la Puddara che annunziava l'alba, come l'aveva vista tante volte. Allora tornò a chinare il capo sul petto, e a pensare a tutta la sua storia.

Avvicinate e ingrandite le umili cose ancora da quel mare, che torna a brontolare «la solita storia lì sotto, in mezzo ai fariglioni, perché il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole», e che via via si fa bianco, sotto le luci dell'alba, e poi d'amaranto, e si popola di barche, come ogni mattina. Tutto è immutato in quel piccolo mondo, come nell'universo: e questa eternità del tempo e delle cose, accennata con particolari anche meschini, finisce con l'essere la condanna più tragica del reietto, dell'escluso. Il suo esodo non pare la partenza da una casa, da un paese, ma da un emisfero, dall'universo stesso, per un viaggio senza lido e senza ritorno.

A questa pena del reietto e dell'escluso si accorda anche la pena di quelli che restano, i quali «non osavano fiatare, perché ci avevano il cuore stretto in una morsa». Ho detto che l'ultimo atto di questa religione del Verga è la ricostruzione della casa e la sua riconsacrazione; ma, si consideri bene, quella ricostruzione non vuole essere una conclusione idillica. La casa non è un porto di quiete e di benessere, non è il rifugio tranquillo del piccolo egoismo, ma è il monticello bruno a cui tornano ad aggrapparsi le formiche, dopo lo spasimo e il viavai della dispersione e della tempesta. Però, abbiamo ripetuto sempre che la casa del Verga è la casa-calvario, a cui ci si affeziona per le stesse pene che essa costa. Non viene dunque smentito l'originario pessimismo dello scrittore; qualche critico, con l'aria di voler regalare qualche cosa a Verga, ha voluto vedere in questa chiusa del romanzo come un accenno a un rinascente ottimismo, a una sua fede positiva. Ma niente affatto: la fede del Verga rimane sempre dolorosa e disperata. Direi che tutte le fedi profonde hanno sempre qualche cosa di tragico e di insoluto; anche la stessa fede manzoniana, che par coronata programmaticamente dall'idillio (chi confida nel Signore, nel Signor risorgerà), sarebbe davvero troppo banale, e comoda alla fine, se noi potessimo riposare pacificamente in una conclusione. La conclusione in Manzoni c'è e non c'è mai, è una conclusione irrequieta: il mondo, pur con quel cielo di misericordia e di pace che sta sopra a noi, rimane il mondo dei torti e delle ingiustizie, e a questi torti e a queste ingiustizie si volge la rappresentazione artistica dello scrittore, anche se avvertiamo su di noi il respiro grave di una pace celeste che un giorno verrà.

Nella religione verghiana della casa, tanto permane questo modo tragico, che tutti vogliono in qualche modo sacrificarsi ad essa. Si sacrifica alla casa, oltre che 'Ntoni, Lia, la quale, dopo che ha peccato, si attribuisce da sé la maledizione e la condanna.

- Voglio andarmene! non voglio starci più qui - e l'andava dicendo al canterano, e alle seggiole, come una pazza, che invano sua sorella le andava dietro piangendo.

Si sacrifica lo stesso padron 'Ntoni, perché ora che i Malavoglia errano di qua e di là, vuole andarsene via anche lui, perché il suo pugno non vale più niente, quel pugno che in altri tempi sembrava fatto di legno di noce, e balbettava: « - Cosa ci ho a far qui io ? ; . . . - e gli pareva di rubare la minestra che gli davano.» « - Se mi mandate all'ospedale, sarà meglio: qui ve li mangio io i denari della settimana. - » E muore all'ospedale della città.

E si sacrifica anche la più incolpevole di tutti, Mena Malavoglia, la quale pare si carichi dei peccati di tutti gli altri. Quando compare Alfio se la vuol prendere, dacché la casa dei Malavoglia s'era sfasciata, ed egli avrebbe potuto dirsi un bel partito, la ragazza badava a ripetere « - Ora non son più da maritare . . . Ho 26 anni, ed è passato il tempo di maritarmi. - » E se ne va a stare in soffitta, come le casseruole vecchie, aspettando i figliuoli d'Alessi per far la mamma. E si osservi come essa tagli corto alle insistenze affettuose di Alfio, ricordando la sorte della sorella perduta:

-Non me lo late dire, compar Alfio! Non mi fate parlare! Ora se io mi maritassi, la gente tornerebbe a parlare di mia sorella Lia, giacché nessuno oserebbe prendersela una Malavoglia, dopo quello che è successo. Voi pel primo ve ne pentireste.

E la nota più tragica di questi sacrifizi è che tutti vi assentano, senza discussione, le vittime e i collocutori. Compare Alfio, alle parole di Alena, commenta, senza reagire:

-Avete ragione, comare Mena! ... a questo non ei avevo mai pensato. Maledetta la sorte che ha fatto nascere tanti guai!

E compare Alfio, solo allora, si mette il cuore in pace: così forte e irresistibile è l'argomento. Il peccato di uno è il peccato di tutti, e tutti bisogna che diano una mano per scontarlo. E come il debito dei lupini, che è il debito non di padron 'Ntoni, ma della casa. Così, alla decisione di 'Ntoni di allontanarsi per sempre da Acitrezza, il fratello non sa reagire se non con parole debolissime: « - Se volessi anche tu ci hai la tua casa. Di là c'è apposta il letto per te. - » Ma subito dopo gli butta le braccia al collo, non per trattenerlo, ma per sanzionare la sua dipartita.

L'ombra tragica dunque rimane per sempre, pure in quella casa ricostruita e riconsacrata. Non si possono, per esempio, fare i conti della settimana e colorire i disegni per l'avvenire, all'ombra del nespolo e con le scodelle fra le ginocchia, senza che non si ripresenti il fantasma del vecchio solitario e abbandonato, l'umile salmista, che è morto laggiù all'ospedale, e allora le chiacchiere muoiono di botto.

a tutti pareva d'avere il povero vecchio davanti agli occhi, come l'avevano visto l'ultima volta che erano andati a trovarlo in quella gran cameraccia coi letti in fila, che bisognava cercarlo per trovarlo, e il nonno li aspettava come un'anima del purgatorio, cogli occhi alla porta, sebbene non ci vedesse quasi, e li andava toccando, per accertarsi che erano loro, e poi non diceva più nulla, mentre gli si vedeva in faccia che aveva tante cose da dire, e spezzava il cuore con quella pena che gli si leggeva in faccia e non la poteva dire. Quando gli narrarono poi che avevano riscattata la casa del nespolo, e volevano portarselo a Trezza di nuovo, rispose di sì, e di sì, cogli occhi, che gli tornavano a luccicare, e quasi faceva la bocca a riso, quel riso della gente che non ride più, o che ride per l'ultima volta, e vi rimane fitto nel cuore come un coltello. Cosi successe ai Malavoglia quando il lunedì tornarono col carro di compar Alfio per riprendersi il nonno, e non lo trovarono più.

La sparizione tacita dello stesso profeta di questa religione del focolare domestico, è come l'accettazione passivamente tragica di una sua sentenza abituale: che chi è inutile alla casa deve pur sparire per non mangiare il pane a tradimento, e quando non c'è più olio, il lume deve pur spegnersi. Però in tutto questo mondo malavogliesco è inesorabile e severa la legge della soffocazione e della consunzione degli individui, purché sopravviva il nume e il principio universale.

Poi abbiamo accolto in questo volume tutte le Novelle rusticane, salvo II mistero, che è poco felice, e l'epilogo Di là dal mare, che è un ricordo sentimentale dello scrittore, e lega con le novelle soltanto come cerimonia sul triste e malinconico paesaggio siciliano nel colloquio amoroso con una amica.

Una volta ci è avvenuto di scrivere che in Verga c'è una specie di polilalia, e di questa polilalia possono essere testimoni i Malavoglia e II marito di Elena, che furono composti quasi contemporaneamente: la lingua del Marito di Elena è completamente diversa dalla lingua dei Malavoglia. Il marito di Elena è il romanzo della piccola borghesia trasferito nella provincia attorno a Napoli; ci può essere la reminiscenza del linguaggio ideale nato ad Acitrezza, ma invero esso non vi domina.

Malamente il romanzo è stato interpretato come il dramma di una Bovary verghiana: se il modello del grande artista francese è pur presente, l'interesse del Verga è per il dramma del filius familias, che vede crollare un suo sogno di felicità domestica, a causa della vanità e della leggerezza della sua compagna. E l'artista raggiunge effetti potenti, solo quando i capricci della sensualità della donna si abbattono contro i pacifici ed umili affetti casalinghi. Tragedia della casa anche questa, anche se l'autore pensava a farne altro. Il focolare domestico resta sempre il luogo sacro donde procedono tutte le lotte e le tristezze verghiane, e la casa del nespolo, centro ideale del capolavoro dell'artista, allarga la sua ombra su tutte le tragedie di questo mondo. Già anche nei romanzi giovanili possiamo notare il dissidio di tutti i protagonisti, tra un ideale fantastico di vita complicata, e l'umile trascurato ideale della vecchia casa di provincia.

Il marito di Elena

Riportando il Mastro-don Gesualdo. composto prima nel 1888, e poi definitivamente nel 1889, noi abbiamo anche voluto esemplificare un nuovo momento della storia poetica del Verga. Il mutamento di mondo, dal piccolo villaggio peschereccio al borgo campagnuolo, con risentimenti della città vicina o dei grossi centri di vita amministrativa, si riflette nel periodare, nelle immagini e nello stile. Non c'è più quel rigoroso e geloso idiotismo proprio della prosa malavogliesca; le maglie si sono allargate, e per una consapevole ambizione. Già il primo annunzio di questo allargamento del linguaggio verghiano lo avevamo avuto nelle Novelle rusticane;, ma nel Mastro-don Gesualdo lo scrittore è già definitivamente libero dalle suggestioni e dai ricordi della sua vecchia prosa malavogliesca. Gli esperimenti di questi sette o otto anni (1881-88 o 1889) lo hanno portato lontano dalla casa del nespolo; una nuova religione è maturata, quella della «roba», emersa già in alcuni bozzetti delle Rusticane. La lingua e la prosa mutano col mutare della religione: un nuovo dio ormai governa la fantasia commossa dello scrittore, e non c'è più quella dispersione di essiccate o vaghe e ancora incerte divinità delle precedenti raccolte.

Del Mastro-don Gesualdo ci rimane l'impressione finale, oltre che del vigoroso e crucciato protagonista, l'immagine di quel mondo feudale, che si veniva sfasciando sotto gli occhi del nostro scrittore. Il romanzo di Mastro-don Gesualdo è anche il romanzo dei nobili decaduti, dei Trao («Virtutem a sanguine traho»), di cui a Vizzini si indica la vecchia casa decrepita. Presentati come fantasmi del passato, che, nella loro dolente e vaga follia, stanno a significare la caducità e la vanità di molte menzogne: la nobiltà, la nascita, la stessa «roba» (che può essere solo dei padri che la fecero con le loro mani): due gufi tali e quali, che si rintanano da una stanza all'altra, col terrore irrigidito e fisso nei loro occhi di barbagianni, per tutte quelle novità del mondo, che continua ad andare per la sua strada, mentre essi sono attaccati alle loro pergamene, ai loro stemmi, alle carte della lite con la corte di Spagna, ai ritratti affumicati degli avi.

Questa poesia tragica del passato che scompare, senza lasciare un rimpianto nostalgico di sé, ma comunicando solo l'impressione d'una disorientata follia, che si ostina a vagolare tra gente nuova, e positiva e indifferente, è una delle note più intense del narrare del Verga. Nel mondo verghiano come non c'è una fede religiosa nell'al di là, così non c'è un riverente e patetico riconoscimento della grandezza sociale che fu. La grandezza che fu è soltanto una triste follia, non c'è che il lavoro nuovo che crea la «roba». Accanto ai Trao, c'è la baronessa Rubiera, una consanguinea ideale di mastro-don Gesualdo, anch'essa una costruttrice e vittima della «roba», che conosciamo al momento culminante della sua potenza economica; e poi la ritroviamo, nell'ultima parte del romanzo, nel pieno della decadenza morale e fisica, paralitica, la lingua grossa e le labbra paonazze, che piange le sue lacrime grosse e silenziose sulle guance flosce. Anch'essa un'altra vittima avara della roba, una divinità questa che finisce sempre col divorare, con saturnia inclemenza, i suoi favoriti ed adepti.

Dobbiamo credere alla fede politica del frequentatore assiduo del Casino dei Nobili di Catania o dobbiamo credere alla fede politica, quale si leva da tutte le pagine dello scrittore, ispirate a una condolenza universale per le privazioni dei poveri, e a una satira inclemente di tutti i rappresentanti della vecchia società feudale? La satira contro tutti i baroni spiantati è proprio feroce nel Verga; lo stile dello scrittore è flagellante, e non si arresta nemmeno nella rappresentazione di quelle vergini di matura verginità (mature, non precisamente nel senso oraziano e tassesco del termine) che affollano le vecchie case baronali, in attesa del marito e del partito buono che dovrà servire a rialzare le sorti del patrimonio domestico. Le sventurate vestali della «roba» invecchiano coi loro cartocci nei capelli, invecchiano sotto acconciature grottesche, rosse, verdi, gialle, disseccate e impresciuttite dal lungo celibato, o pavonazze e sorridenti nei grossi busti cinghiati: così come conosciamo le Margarone, nel Mastro-don Gesualdo, la notte dell'incendio del palazzo Trao, e il giorno della festa del santo patrono in casa Sganci.

Il Verga scrittore non è né mazziniano né unitario né conservatore o antisocialista: la sua sconsolata visione della vita (un diverso pessimismo il suo dal pessimismo cattolico del Manzoni) gli suggerì soltanto una mesta cantilena, che quasi insensibilmente si traduce in un'aspra critica delle ingiustizie del mondo. In questo senso il Verga ci viene incontro simile ad alcuni scrittori russi dell'Ottocento, come Gogol, che non profetizzano un nuovo assetto sociale, ma lo preparano intanto, e ne suggeriscono dolorosamente la fatale necessità.

A questo punto, tra i due grandi romanzi, interviene il teatro, che indubbiamente è interessante, rapido, geniale; ma il teatro verghiano non è altro che la divulgazione mondana di quel suo mondo segreto che l'autore aveva espresso con alta poesia o nelle Novelle o nei Malavoglia o in Mastro-don Gesualdo, allo stesso modo, saremmo tentati di dire, che molta parte del teatro cinquecentesco è una divulgazione del Decameron del lontano Trecento. Però noi non sappiamo dargli quella enorme importanza che alcuni vorrebbero attribuirgli. Certamente esso ha influito sullo svecchiamento del repertorio tradizionale, ma anche il Di Giacomo, con Assunta Spina, col Mese Mariano, e con 'O voto, malamente ridotto da un suo collaboratore, ha influito su questo rinnovamento del teatro nazionale; eppure l'originalità del Di Giacomo rimane sempre nelle Ariette e sunette, e in tutto il suo ricco volume di poesie, e l'originalità del Verga rimane sempre nella Vita dei campi, nelle Novelle rusticane, nei Malavoglia. e in Mastro-don Gesualdo.

Così abbiamo accolto un centinaio di lettere del Verga, delle quali importanti particolarmente quelle indirizzate a Luigi Capuana; e poi alcune (assolutamente inedite) indirizzate a Mariano Salluzzo, amicissimo e coetaneo di Verga. Un terzo gruppo di lettere è quello indirizzato al suo traduttore Eduardo Rod, pubblicate recentemente dall'editore Le Monnier, e qui appaiono perché integrate in alcuni punti, dove l'editore non ha letto bene la grafia del Verga, che, come è noto, era tutta a zampette di mosca. E poi ancora un gruppo di lettere, indirizzate a Salvatore di Giacomo, e all'autore di questa raccolta.

Il Verga fu sempre gelosissimo delle sue segrete aspirazioni, e le sue lettere confermano la sostanza fondamentale della sua arte; egli vi parla sempre del suo segreto tecnico, e del suo particolare linguaggio, e del suo particolare ideale di una prosa moderna. Però esse integrano necessariamente tutta l'opera dell'artista.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE