CALTABELLOTTA, Giovanni Vincenzo de Luna e Rosso e Spadafora conte di

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 16 (1973)

CALTABELLOTTA, Giovanni Vincenzo de Luna e Rosso e Spadafora conte di

Giuseppe Scichilone

Nacque, probabilmente, a Palermo, nella seconda metà del sec. XV e, giovanetto, assistette, l'11 luglio 1478, al giuramento che gli ambasciatori siciliani prestarono in Saragozza al re Ferdinando. Figlio di Sigismondo e di Beatrice Rosso e Spadafora, sposò Diana Moncada e da lei ebbe quattro figli. Deputato del Regno nel 1508, nel 1509 rivendicava il feudo di Misilcassim, presso Sciacca, già possesso dei suoi avi, nel cui territorio c'era una fortezza posta a due miglia dal mare e del quale riceveva investitura il 7 novembre del 1510.

Il C. sostenne una lunga causa dinanzi alla Regia Gran Corte per avere riconosciuto il diritto a succedere allo zio paterno Carlo nel possesso dei beni e nel titolo comitale, come primogenito del suo secondo fratello a lui premorto. Il diritto gli veniva contrastato dalla zia Eleonora, che con privilegio del 14 apr. 1497 era stata riconosciuta contessa di Caltabellotta; il C. impugnava la legittimità della successione, perché non avvenuta in linea maschile, e alla fine, il 31 ag. 1510, otteneva dal tribunale sentenza favorevole e il 23 dicembre dell'anno successivo riceveva l'investitura per la contea di Caltabellotta.

Intelligente, avveduto, ricco e potente, il C. svolse, negli anni immediatamente seguenti, un ruolo notevole nella storia dell'isola. Strategoto di Messina nel 1514, sostenne le ragioni dei Messinesi che volevano restassero assegnate alla corte stratigoziale le cause iniziate davanti la Regia Gran Corte quando il viceré stabiliva la propria residenza in Messina. Il sovrano riconobbe la fondatezza del reclamo dei Messinesi, confermando la validità dell'antico privilegio, che voleva che i cittadini di Messina non fossero sottratti alla giurisdizione dei tribunali cittadini.

Dopo la morte di Ferdinando d'Aragona, nel gennaio 1516, la maggior parte della nobiltà dell'isola si ribellò al viceré Ugo di Moncada; quando questi fuggì da Palermo e si rifugiò a Milazzo il C. gli offrì ospitalità e protezione a Messina, dove il Moncada entrò il 17 marzo. Calmatisi gli animi, il nuovo sovrano, Carlo d'Asburgo, chiamò a corte il Moncada e con dispaccio 8 luglio 1516, datato da Bruxelles, nominò il C. presidente del Regno, carica che il C. detenne - in un periodo di grande tensione fra il popolo e la nobiltà - fino al 1º maggio dell'anno successivo, cioè fino al giungere del nuovo viceré Ettore Pignatelli conte di Monteleone.

Assunta la carica, il C. si trattenne ancora un poco in Messina, provocando un pronto reclamo dei giurati di Palermo, che sollecitavano la presenza del presidente del Regno nella capitale. Egli lasciava allora Messina, ma prima puntava su Bivona, città appartenente ai suoi feudi, che si era schierata con i ribelli, ne riprendeva rapidamente possesso e puniva severamente i capi della rivolta. è da credere che così facesse non solo per ristabilire i suoi diritti di feudatario, ma anche per dare un esempio della severità con cui intendeva agire contro un'eventuale ripresa della rivolta. Nel complesso si può arguire che la sua azione dovette essere attenta e saggia se un cronista del tempo afferma: "Tam bene se gessit et cuncta composuit, ut non modicam et apud Regem et populos laudem sit assequutus" (Salvo Cozzo, p. 163).

Giunto il nuovo viceré, il C. restò a Palermo, dove si trovava il 23 luglio 1517, al momento della rivolta capeggiata da Giovanluca Squarcialupo. Questi aizzava il Popolo contro i seguaci del Moncada rimasti al potere e il C., temendo di essere travolto dalla sommossa, cercò scampo nella fuga. Con Sigismondo e un altro dei suoi figli, riuscì a lasciare la città poco prima che i rivoltosi occupassero la porta cittadina contigua alla sua casa e, dopo un viaggio denso di imprevisti e pericoli, raggiunse Alcamo, dove trovò sicuro rifugio. Il 4 febbr. 1519 ricevette l'investitura - per la morte della madre - della contea di Sclafani. Vedeva così ingrandirsi notevolmente la sua forza economica e politica; e forse proprio per rafforzare la posizione preminente della famiglia il C. dava in moglie al maggiore dei suoi figli Sigismondo, nel 1523, una Salviati, nipote di papa Leone X. Dopo le nozze, che si celebrarono a Roma, il C. donò al figlio il feudo di Caltabellotta col titolo comitale e si stabilì a Palermo.

Nel giugno 1528 il C. era a Trapani capitano d'armi per apprestare difese contro la flotta turca, di cui si temeva imminente un attacco contro la città. Qui lo raggiunse la notizia di un grave affronto fatto al figlio da Giacomo Perollo barone di Pandolfina e portulano di Sciacca e come capo della famiglia decise di agire direttamente. Saputo che il Perollo si era recato a Messina, per incontrarsi col viceré, inviò un gruppo di armati agli ordini di Michele Impugiades a Pietro di Vigna ad appostarsi nei pressi della torre di Misilcassim per tendergli un agguato sulla via del ritorno e ucciderlo. Ma il Perollo, avvertito in tempo, riuscì ad evitare l'aggressione, rientrando salvo a Sciacca. Di lì a poco però la tensione tra il Perollo e Sigismondo doveva giungere al punto di rottura e le due fazioni vennero alle armi e il sangue scorse in Sciacca per diversi giorni (secondo caso di Sciacca 19-23 luglio 1529). Il vecchio conte non partecipò agli scontri, ma è certo che in quei giorni era nel castello di Caltabellotta e da molti cronisti viene indicato come il vero ispiratore del drammatico evento.

La lotta si concluse con la vittoria di Sigismondo, ma la pronta reazione del viceré consigliò al C. di abbandonare l'isola con Sigismondo, dichiarato bandito, la nuora e i tre nipoti. Meta dei fuggiaschi fu Roma, dove Clemente VII, zio della nuora, assicurava asilo e protezione.

Appena giunto a Roma, per quanto avanti negli anni, il C. partì verso la corte imperiale per esporre a Carlo V la propria versione degli avvenimenti e mitigare il quadro che di essi aveva fatto il viceré. L'imperatore, ascoltatolo, gli ordinò di rientrare nell'isola, di porsi a disposizione dei tribunali e di presentare a quei giudici le proprie discolpe.

Il C., tornato nell'isola, dovette presentarsi davanti ai giudici della Magna Curia perché accusato dalla vedova di Giacomo Perollo d'essere stato l'ispiratore e l'organizzatore del grave fatto di sangue, ma alla conclusione del processo gli fu comminata solo una lieve condanna per avere aiutato i rei a fuggire dall'isola: i giudici escludevano ogni sua responsabilità diretta negli eventi.

Al C. riusciva così di evitare una più dura condanna, ma gli restava l'onere di riassestare il patrimonio familiare decimato da confische e distruzioni e dall'indennizzo che aveva dovuto versare agli eredi del Perollo. Dovette pertanto vendere parte delle sue terre, ma per intercessione di Clemente VII presso l'imperatore otteneva poi anche la restituzione dei beni confiscatigli dal Regio Fisco.

Ma gli sforzi del C. non furono diretti solo in questo senso; infatti egli operò anche in modo da ridare alla famiglia il prestigio e la preminente posizione che già aveva avuto in seno alla grande nobiltà isolana. E nel 1544 lo ritroviamo in posto di grande responsabilità: egli è, infatti, nominato capitano d'armi e vicario per la città di Trapani e deve affrontare una situazione politica d'estrema gravità.

Il 6 giugno i giurati della città minacciano di dimettersi perché esenzioni e privilegi, di cui godevano tanti cittadini, e che essi consideravano ingiusti, rendevano impossibile raccogliere le somme necessarie per continuare la costruzione delle opere di difesa della città. Il C. riuscì a convincerli a recedere dalla decisione e poco dopo si riprendeva il lavoro di completamento delle fortificazioni pagando, a carico dei cittadini trapanesi, seimila giornate di lavoro agli operai.

Mentre le opere murarie procedevano alacremente il C., per rafforzare l'armamento delle fortezze, il 9 maggio non esitava a confiscare quasi tutto l'armamento di una nave ragusea di passaggio nel porto, col pretesto che l'equipaggio apparteneva a popolazione che nulla aveva da temere dalla flotta del Barbarossa. Altre armi furono in seguito tolte ad altre navi di passaggio, ma più tardi dovettero essere restituite, così che per la difesa della città il C. non riuscì a mettere insieme che dodici pezzi d'artiglieria, di cui sette di ferro e cinque di bronzo.Nello stesso periodo il C. fu inviato come commissario della Regia Curia in diverse città dell'isola per esigere crediti della corte. Il 21 dic. 1544 l'incarico fu dato per Castrogiovanni, nell'anno successivo per Sciacca, per la terra di la Grutti, per Licata, per Agrigento. Nel 1546 deve recarsi sempre come commissario a Nicosia e di nuovo a Castrogiovanni. Tutto ciò testimonia che nel giro di poco più di un decennio il C. aveva saputo riconquistare a sé ed alla famiglia l'antico prestigio ed era riuscito a reinserirsi nel gruppo dei collaboratori della Corona, operando anche in modo che il suo successore, il nipote Pietro, trovasse la via spianata per una rapida affermazione. Morì a Sciacca nel 1548.

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