GIOVANNI X

Enciclopedia dei Papi (2000)

Giovanni  X

Claudia Gnocchi

Nato forse a Tossignano (Emilia-Romagna). Le notizie relative alla vita nel periodo precedente l'elezione arcivescovile presso la sede di Ravenna sono poche e provengono da due fonti: l'Antapodosis di Liutprando e l'Invectiva in Romam. Secondo la testimonianza di Liutprando, G. sarebbe stato diacono a Ravenna e l'arcivescovo Cailone, consacrato da Giovanni IX, lo avrebbe inviato spesso come suo legato a Roma, dove, in occasione dei suoi frequenti soggiorni, avrebbe intrecciato una relazione con Teodora, moglie di Teofilatto. In seguito egli fu eletto vescovo di Bologna, ma, prima di essere consacrato, fu chiamato, intorno al 905, alla sede di Ravenna, che nel frattempo si era resa vacante. Liutprando attribuisce il passaggio ad una sede così prestigiosa proprio all'influenza dell'amante Teodora. Più tardi, ancora grazie alla relazione con Teodora, egli avrebbe ottenuto il pontificato, succedendo a Landone.

Non si può naturalmente accogliere la testimonianza di Liutprando senza riserve, si può però supporre che G. abbia ottenuto la sede ravennate, se non per qualche illecita relazione, comunque grazie all'influenza della famiglia di Teofilatto, con la quale doveva essere in buoni rapporti. A Ravenna, nel periodo in cui avvenne l'elezione di G., era aperto un conflitto legato al protrarsi, anzi al riaccendersi, con l'ascesa al papato di Sergio III, della discussione sulla questione della validità delle ordinazioni impartite da papa Formoso, ed è probabile che proprio per evitare che prevalesse il partito formosiano, Teofilatto e il pontefice Sergio III si siano impegnati presso il partito avversario per appoggiare la candidatura di G., che dovevano conoscere bene grazie agli incarichi che spesso lo avevano portato a Roma - se quanto dice Liutprando è vero - quando era diacono. Con il conflitto tra formosiani e antiformosiani all'interno della Chiesa ravennate si intreccia la vicenda dell'elezione imperiale di Berengario, per la quale erano state avviate trattative già da Sergio III, trattative che però dovevano essersi interrotte con la morte del pontefice. In due sue lettere, la quinta e la sesta contenute nel cosiddetto rotolo opistografo di Antonio Pio, indirizzate una a Berengario, l'altra ai vescovi Adalberto di Bergamo e Ardingo di Brescia, G. afferma che la Chiesa ravennate si trova in gravi difficoltà ed espone la sua teoria sui rapporti tra la Chiesa e il Regno, rapporti che devono basarsi sul sostegno reciproco. Poiché è probabile che accennando ai problemi della Chiesa ravennate G. si riferisse proprio allo "scisma" tra formosiani e antiformosiani, si può pensare che Berengario abbia approfittato della ripresa delle ostilità tra le due fazioni per inserirsi "naturalmente su posizioni antiformosiane, in un gioco politico dagli orizzonti più vasti di quelli nei quali si era mosso fino allora e che, prima o poi, gli avrebbe valso la corona imperiale" (G. Arnaldi, Alberico di Roma). L'ultimo documento che attesti la presenza di G. a Ravenna è datato 5 febbraio 914; la stessa fonte attesta che Landone, suo predecessore, è ancora vivo.

La data precisa dell'elezione di G. a vescovo di Roma è difficile da stabilire; probabilmente ebbe luogo tra la fine del mese di marzo e gli inizi di aprile del 914. Le cause del trasferimento di G. da Ravenna a Roma sono sconosciute. Nonostante i trasferimenti avvenuti dopo la polemica antiformosiana, quello di Stefano VI e di Sergio III, i canoni che proibivano tale pratica erano tuttora in vigore (Giovanni IX aveva ribadito la validità della norma al concilio di Ravenna, nell'898). D'altra parte anche prima dell'elezione di Formoso c'erano stati dei trasferimenti di vescovi da una sede ad un'altra, e più in particolare da altre sedi alla Sede romana; ma la polemica antiformosiana, in cui si scontravano interessi di ben più ampia portata, e che aveva preso spunto da questa infrazione per invalidare tutti gli atti di quel papa, nel 914 si era ormai esaurita. Teofilatto e la sua famiglia avevano ottenuto il potere, e ormai in difesa di Formoso scriverà - proprio negli anni del pontificato di G. - soltanto l'autore anonimo dell'Invectiva. G. non dovette dunque preoccuparsi di giustificare il suo trasferimento presso la Sede romana, dove si suppone che sia stato chiamato proprio dagli esponenti dell'aristocrazia locale.

È stata sottolineata da alcuni studiosi un'affinità tra il pontificato di G. e quello di Giovanni VIII; il primo elemento a suggerire tale affinità sarebbe l'impegno di entrambi nella lotta contro i Saraceni stanziati nell'Italia meridionale. Giovanni VIII non era riuscito a portare a compimento l'impresa di scacciare i Saraceni dall'Italia meridionale; anzi, secondo alcuni studiosi vi "aveva deposto […] il seme di avvenimenti funesti" (P. Fedele) concedendo a Pandolfo di Capua un territorio che si estendeva dalle colline di Formia al Garigliano. Poiché infatti i Gaetani, in seguito a questa donazione, videro diminuita la loro libertà e chiesero aiuto ai Saraceni di Agropoli. Giovanni VIII dovette allora intervenire per porre fine a questa alleanza e, per compensare Docibile e Giovanni, duchi di Gaeta, il pontefice fece loro dono del patrimonio di Traetto e della città di Fondi. Dopo la morte di Giovanni, i Gaetani si allearono però di nuovo con i Saraceni e ottennero che questi si trasferissero dalle colline di Formia sulla riva destra del Garigliano, il fiume che costituiva ora, dopo l'accrescimento dei possedimenti di Gaeta, il confine meridionale del Ducato. Da qui i Saraceni presero a saccheggiare l'Italia per quasi quarant'anni, prima che si formasse contro di loro un'alleanza abbastanza forte da cacciarli. Il merito di aver promosso la lega che sconfisse i Saraceni nella battaglia del Garigliano (915) è attribuito da alcuni storici proprio a Giovanni X. P. Fedele non condivise invece questa ipotesi: secondo lo studioso ci si dovrebbe attenere strettamente alla testimonianza di Leone Ostiense il quale, parlando delle trattative precedenti la costituzione della lega, non menziona affatto Giovanni. Fu invece Atenolfo I di Capua e Benevento, insieme al figlio Landolfo, a promuovere le trattative, come testimoniano gli Annales Beneventani e il Chronicon comitum Capuae; ma oltre alla conferma, che appare ovvia, da parte delle fonti locali, è facile immaginare quanto ai principi di Capua e Benevento dovesse stare a cuore la liberazione del Garigliano, dal momento che questo fiume scorreva proprio al confine tra il Ducato di Gaeta e la Contea di Capua, ed essendo i Gaetani alleati con i Saraceni, quelli che ricevevano il maggior danno dallo stanziamento di questi ultimi erano proprio i principi di Capua.

Già nel 903 Atenolfo I aveva tentato di attaccare i Saraceni soltanto con l'aiuto degli Amalfitani ma senza successo e, rendendosi conto dell'impossibilità di riuscire nell'impresa senza validi alleati, inviò suo figlio Landolfo a Costantinopoli per chiedere aiuto a Leone VI il Saggio, che promise di dare il suo sostegno. Fu soltanto dopo che l'esercito della lega, costituita dai principi di Capua, Salerno, Napoli, Gaeta, e con l'appoggio della flotta bizantina, si era mosso per accamparsi sulla riva sinistra del Garigliano, che partì da Roma anche G. insieme con Alberico di Spoleto - di cui parla Benedetto del Soratte nel suo Chronicon - per accamparsi sulla riva destra e chiudere in trappola i Saraceni. G., in una lettera al vescovo di Colonia Erimanno, scriverà di aver combattuto di persona. T. Venni corregge in parte le posizioni di P. Fedele: lo studioso condivide l'idea che l'attività dei principi di Benevento e Capua (Atenolfo I e Landolfo) sia stata fondamentale, ma sostiene che i principi da soli non erano in grado di organizzare una lega così importante ed efficace come quella che sconfisse i Saraceni al Garigliano. Secondo lo studioso a G., eletto non molto tempo prima della battaglia decisiva, non mancò il tempo per riprendere le trattative, già avviate da Landolfo, ma che ancora non avevano dato frutti tangibili, con Bisanzio, e ottenere così l'invio della flotta bizantina. Lo studioso sottolinea inoltre che soltanto con la conferma della donazione del patrimonio di Traetto fatta da Giovanni VIII, G. riuscì ad ottenere che i Gaetani si unissero alla lega, senza contare che anche il duca Gregorio di Napoli, dapprima alleato di Landolfo, aveva abbandonato la lega per poi rientrarvi all'arrivo della flotta bizantina. Infine, secondo lo studioso, per G. questa vittoria, che egli considerò un successo personale, costituì la base su cui poggiare la sua attività futura.

Per quel che riguarda i rapporti di G. con Corrado I di Franconia va ricordato che, quando quest'ultimo salì al trono, nel 911, il Regno tedesco era minacciato all'esterno dagli Ungari e all'interno da alcuni principi tra cui Enrico di Sassonia; nel conflitto con i principi del suo Regno, Corrado fu appoggiato dal clero tedesco (tranne quello di Sassonia). Nel 916 si riunì il sinodo di Hohen-altheim sotto la presidenza di Pietro di Ostia, inviato dal papa "affinché in qualche modo estirpasse le diaboliche piante cresciute nelle nostre terre e sedasse le nefandissime congiure di alcuni uomini perversi". A quanto sembra, la debolezza di Corrado impose al pontefice di sostituirsi a lui nel ristabilirne l'autorità. Quanto alla questione relativa alla ingerenza dei laici nell'elezione dei vescovi, G., coerente con le posizioni assunte nel sinodo di Hohenaltheim (sostegno dell'autorità regia e totale collaborazione con essa) lasciò l'elezione del vescovo di Amburgo nelle mani del re. Quando Corrado annullò l'elezione di Leidrado, uno dei suoi avversari, a vescovo di Amburgo e favorì l'elezione del chierico Unni di Brema, G. inviò a questi il "pallium".

Anche Carlo il Semplice in Francia era in conflitto con i suoi feudatari. Nel corso di una prima rivolta, avvenuta nel 920, Carlo fu sostenuto dall'arcivescovo di Reims Eriveo. Il vescovo di Liegi Ilduino (eletto dal clero e dal popolo della città) si era schierato con i feudatari laici. Carlo, dopo la ribellione, depose Ilduino e fece eleggere al suo posto l'abate Richero. Poiché l'arcivescovo di Colonia Erimanno non volle riconoscere il nuovo vescovo, fu richiesto l'intervento del papa. G. rispose con due lettere, una a Carlo e una a Erimanno. In entrambe le lettere G. sottolineò il "valore decisivo che ha nell'elezione vescovile il consenso regio". G. poi si riservò di giudicare chi tra i due candidati fosse il più degno di ottenere la sede vescovile dopo averli esaminati di persona e scelse, come c'era da aspettarsi, Richero. G. inoltre volle che ad accompagnare a Roma i due candidati fosse proprio Erimanno; egli infatti voleva ingiungergli personalmente di non danneggiare mai più il Regno di Carlo ("aliquam laesionem vestro in regno inferre"). La fortuna di Carlo intanto stava precipitando; i feudatari gli opposero prima Roberto I poi Rodolfo: nel 923 Eriberto di Vermandois lo imprigionò a tradimento e nel 925 mandò a Roma il vescovo di Soissons Ebbone per chiedere la conferma dell'elezione di Ugo, suo figlio, a vescovo di Reims. Dal racconto di Flodoardo sembrerebbe che G. non abbia opposto resistenza, salvo affidare ad Ebbone le funzioni episcopali in sostituzione del fanciullo che aveva ancora cinque anni. G. sapeva che Rodolfo non era contrario all'elezione e si attenne alla sua consueta politica, di appoggio dell'autorità regia, anche se al trono era giunto un nuovo re.

In Oriente G. dovette intervenire nell'annoso problema del quarto matrimonio di Leone VI il Saggio, che non finiva di provocare disordini.

Il primo matrimonio di Leone con Teofane era stato voluto, sembra, dal padre Basilio più che dallo stesso Leone e l'imperatrice, dopo la morte della loro unica figlia, aveva voluto ritirarsi in convento. Leone voleva risposarsi, giustificando il suo desiderio con motivazioni dinastiche dato che egli non aveva figli; la morte di Teofane nel novembre 893 e la morte del marito della sua antica amante Zoe, avvenuta poco tempo dopo, resero possibile la nuova unione di Leone. Anche Zoe però morì, nell'estate dell'896, lasciando a Leone una figlia: Anna. L'imperatore, al quale non sembrava opportuno un terzo matrimonio, che sarebbe stato accolto male dalla Chiesa, la fece proclamare Augusta. Anna però doveva sposare Ludovico di Provenza e lasciare Costantinopoli; Leone allora decise di sposarsi per la terza volta, nell'899, senza però avere maggior fortuna che nel passato, poiché anche la terza moglie morì, lasciando un bambino che non le sopravvisse a lungo. A questo punto Leone, che voleva risposarsi nonostante le prescrizioni della Chiesa che vietavano assolutamente il quarto matrimonio, scelse un nuovo patriarca: Nicola il Mistico, che, per aver partecipato ad una congiura contro l'imperatore ed essere stato scoperto, doveva mostrarsi ora, se voleva salvare la propria vita, molto accondiscendente. Dalla nuova unione di Leone, non ancora legittimata, era nato intanto, nel 905, Costantino (Porfirogenito). Costantino venne battezzato a patto che Leone si separasse dalla madre, cosa che egli fece, salvo poi reintrodurla a palazzo con tutti gli onori e consultare riguardo al suo problema il pontefice e i patriarchi di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, dato che Nicola cercava di invitarlo alla prudenza e non si decideva a celebrare le nozze. A questo punto Nicola, temendo che, una volta risolto il problema del quarto matrimonio, egli sarebbe diventato un inutile alleato, e per di più con un passato di cospiratore, e poiché le notizie che venivano da Roma, dove era papa Sergio III, erano favorevoli a Leone, divenne un avversario intransigente della condotta dell'imperatore e dell'intervento del pontefice. Il conflitto tra il patriarca e l'imperatore durò fino all'arrivo dei legati del papa, nel febbraio del 907; Leone quindi fece deporre Nicola, minacciandolo di processarlo per tradimento mentre i vescovi e gli inviati dagli altri patriarcati concessero la dispensa per il matrimonio. Come successore di Nicola fu scelto Eutimio. Il nuovo patriarca, d'accordo con i legati del pontefice e con gli altri, adottò una soluzione equilibrata: ratificò le quarte nozze di Leone ma sottolineò che tale dispensa non cambiava in nessun modo la disciplina in vigore nella Chiesa d'Oriente. La deposizione di Nicola intanto aveva provocato un vero e proprio scisma all'interno del clero bizantino, scisma che continuò anche dopo la morte dell'imperatore, avvenuta nel maggio del 912, e dopo la reintegrazione di Nicola, fino al 920. Il sinodo di unione (920-921), promosso dal patriarca, che, alla morte di Alessandro, reggente per il giovane Costantino, era stato nominato a sua volta capo del consiglio di reggenza, riconciliò le due fazioni del clero bizantino e condannò il quarto matrimonio in linea di principio pur riconoscendo quello di Leone post factum. Nicola cercò, dopo aver concluso il conflitto interno, una riconciliazione con il papa. Per questo scrisse nel 920 o nel 921 una lettera a G., invitandolo a riprendere i rapporti con Costantinopoli. Nel 923 G. inviò due legati, con i quali Nicola, senza tornare sulla questione dottrinale della tetragamia, sulla quale in Occidente si continuava ad osservare una maggiore tolleranza, celebrò la rinnovata unione delle Chiese. La missione dei legati doveva proseguire in Bulgaria, con lo scopo di restaurarvi la sovranità della Chiesa di Roma.

Intanto a Roma erano scomparsi i vecchi alleati di G., Teofilatto e Alberico, mentre si consolidava la posizione del fratello di G., Pietro. Marozia, figlia di Teofilatto e vedova di Alberico, sposò tra il 925 e il 927 Guido di Toscana. Nel 926 i legati del papa ricevettero il nuovo re d'Italia Ugo di Provenza a Pisa e probabilmente tentarono di prendere accordi per il conferimento a Ugo della corona imperiale. Di fronte a questo pericolo i marchesi di Toscana si allearono con l'aristocrazia romana contro G. e Pietro. Gli avvenimenti assunsero una piega particolarmente drammatica prima del Natale 927, dopo che Pietro si era rifugiato a Orte chiamando in sua difesa gli Ungari. Guido di Toscana riuscì infatti a sconfiggere questi ultimi e a far fuggire Pietro di nuovo a Roma, dove sarebbe stato ucciso, mentre pochi mesi più tardi, tra il maggio e il giugno 928, G. fu imprigionato e deposto. Fallì così il tentativo di G. di opporsi al potere dell'aristocrazia locale cercando l'appoggio del re d'Italia Ugo di Provenza - un tentativo, questo, di cercare aiuto presso un'autorità "lontana" contro degli "scomodi vicini" (G. Arnaldi, Papa Formoso) che non è nuovo da parte di un papa altomedievale. Il successivo tentativo di Ugo di assumere il potere a Roma sposando Marozia fallirà, poiché questa sarà imprigionata e Ugo cacciato. L'aristocrazia romana si era liberata di entrambe le autorità: regia e papale. G. morì probabilmente nel 929, in carcere, forse di morte violenta, non senza aver visto due altri pontefici succedergli sul trono di Pietro.

fonti e bibliografia

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Invectiva in Romam, (cfr. p.54) [...] in E. Dümmler, Gesta Berengarii Imperatoris. Beiträge zur Geschichte Italien im Anfange des 10. Jahrhunderts, Halle 1871, p. 153.

P. Fedele, La battaglia del Garigliano, "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 22, 1899, pp. 181-211.

T. Venni, Giovanni X, ibid., 56, 1936, pp. 1-136.

G. Arnaldi, Papa Formoso e gli imperatori della casa di Spoleto, "Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Napoli", 1, 1951.

Dictionnaire de théologie catholique, VIII, 1, Paris 1924, s.v., coll. 616-18; ibid., IX, 1, ivi 1926, s.v. Léon le Sage, coll. 365-79.

G. Arnaldi, Alberico di Roma, in D.B.I., I, pp. 647-56.

N. Cilento, Atenolfo, ibid., IV, pp. 519-20.

G. Arnaldi, Berengario I, ibid., IX, pp. 1-26; sul problema del trasferimento di G. da Ravenna a Roma si v. la voce Formoso.

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