CONTARINI, Girolamo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 28 (1983)

CONTARINI, Girolamo

Renzo Derosas

Patrizio veneziano, figlio di Francesco di Agostino, del ramo Contarini dei SS. Apostoli, e di Altafior Soranzo di Paride, ereditò dal padre il soprannome di Grillo. Mancando l'iscrizione alla Balla d'oro, non se ne conosce la data di nascita, collocabile nel 1450 c.; ebbe quattro fratelli, Marino, Piero detto il Grande, Giacomo e Agostino, e una sorella, Maddaluzza. Nel 1472 Sposò la figlia del doge Nicolò Tron, Orsa, da cui ebbe almeno due figli (benché non compaiano nei registri dell'Avogaria e nelle genealogie): Francesco, morto nella disfatta dell'esercito veneziano presso Vicenza del 7 ott. 1513, e Maddalena, sposata nel 1501 a Santo Tron. Solo questa ultima comunque compare nel testamento del padre, da cui ereditò un patrimonio di qualche entità: nella "condizion" da lui stilata per la decima del 1514, alla vigilia della morte, il C. risulta infatti proprietario di cinquantasei case a Venezia, nonché di qualche piccola proprietà a Mestre e Padova, per una rendita complessiva di 527 ducati annui.

Particolare attenzione occorre porre per non confonderlo con i numerosi omonimi contemporaneì, specialmente con Girolamo di Francesco di Andrea, membro della Quarantia civile, console dei mercanti e provveditore a Castelleone, e soprattutto con Girolamo di Moisè, anch'egli capitano delle galere di Barberia e poi capitano del Golfo (1493), e provveditore d'Armata dal 1494 al 1497, dal 1500 al 1501 e dal 1504 al 1508, alternandosi dunque in questa carica con Girolamo di Francesco, e restandovi anzi contemporaneamente a lui dal marzo al maggio del 1508, quando morì in un naufragio mentre tornava a Venezia per disarmare: coincidenza questa che fece confondere i due al cronista Leonardo Amaseo nonché ad altri eruditi e studiosi successivi.

La carriera del C. fu quasi esclusivamente marinara. Nel 1483 venne eletto capitano delle galere per il viaggio di Beirut e due anni dopo capitano per il viaggio di Barberia. Pino all'inizio del secolo non si ha notizia di altri suoi incarichi pubblici, dovendosi con ogni probabilità attribuire gli uffici di Sopra Camere nel 1488 e dei Signori di notte nel 1493 al suo omonimo nipote di Andrea. Nell'aprile e nel settembre del 1500, e nel marzo del 1501, venne scrutinato se a successo per gli incarichi di capitano delle galere grosse, di provveditore a Corfù e di provveditore in Armata; eletto poi nel dicembre 1501 capitano delle navi armate, rifiutò la carica contando evidentemente su di una collocazione di maggior rilievo, che si concretò, il 24 febbr. 1502, con l'elezione a provveditore d'Armata.

Era in corso la guerra coi Turchi, e il C., congiuntosi nel giugno al capitano generale da Mar Benetto Pesaro, partecipò alle operazioni della flotta veneta, fino alla conquista alla fine di agosto dell'importante scalo di Santa Maura, al cui presidio egli venne lasciato con alcune galere: qui dovrà rimanere fino al marzo seguente, non senza lamentarsi apertamente di essere costretto in tal modo ai margini del teatro di guerra, mentre "saria il dover ogniun partecipasse di la faticha", dedicandosi nondimeno alacremente alla fortificazione del borgo e reprimendo con spietata decisione i complotti della popolazione, legata ai Turchi da numerosi vincoli di parentela, per favorirne il ritorno in città. Quando poi, nonostante le raccomandazioni sue e del Pesaro, nel trattato di pace venne accordata la restituzione della piazza, il C. ebbe modo di dar prova di quell'irruente determinazione che costituirà un elemento distintivo del suo carattere e della sua condotta militare: egli stava infatti per raggiungere Corfii quando avuta da una nave cipriota la notizia - rivelatasi poi infondata - della morte del sultano, decise di tornare immediatamente a Santa Maura, "fortificandola quella meio che prima" e respingendo con le armi i Turchi stupefatti che erano venuti a prendeene possesso: un gesto avventato per cui - scrive il Sanuto - "nostri fo in gran pensamento".

Consegnata alfine Santa Maura, e rimasto comandante in capo di una flotta ridotta, essendo rimpatriato il Pesaro e l'altro provveditore Zuanne Zantani, il C. si trovò con il difficile compito di garantire la tranquillità dei traffici veneziani senza però turbare in alcun modo la pace appena raggiunta.

Alle sue continue segnalazioni delle razzie dei corsari turchi e alle insistenti richieste di poter agire con più decisione il Senato rispose preoccupatissimo, raccomandando ripetutamente di evitare ogni scontro, ordinandogli anzi di punire chiunque danneggiasse fuste turche e di limitarsi a segnalare ai sangiacchi le depredazioni subite, badando bene "che questo non fusse causa di mal"; al punto che il C., sconcertato, chiederà al Senato se dovrà restare passivo anche nel caso di un attacco armato.

Né il mantenimento di questo delicato equilibrio era l'unico problema che il C. doveva afflontare: una grave carestia, che lasciava affamate le popolazioni delle isole e le ciurme delle galere lo costrinse - non senza aver denunciato l'inazione dei rettori veneziani - a recarsi in Puglia per fare incetta di grano, senza esitare a fermare d'autorità persino una galera veneziana carica di biade per la città, suscitando così i pesanti rimproveri del Senato.

Neppure con i pubblici rappresentanti il C. si trovava ìn armonia: a Corfù fece arrestare il responsabile degli approvvigionamenti, a Cefalonia processò per malversazioni il capitano dell'isola, ancora a Corfù il bailo, esasperato per le sue continue intromissioni nell'amministrazione interna, prima chiese di essere richiamato a Venezia e poi si consolò denigrando sistematicamente nei suoi dispacci i progetti del C. di fortificazione del borgo, che preferì però non contrastare apertamente, "acciò non si dicha sia dissension alcuna". Quando finalmente poté tornare a Venezia nel luglio del 1506, il C. non mancò nella sua relazione al Collegio di attaccare lo stesso generale Pesaro, benché morto da tre anni, accusandolo di eccessiva timidezza e inconcludenza nella condotta della guerra.

Mancata nell'estate del 1506 la nomina a provveditore in Friuli e poi a Faenza, il 7 dicembre il C. venne eletto capitano a Ravenna, dove si recò sin dal marzo successivo, per non restarvi però che pochi mesi. In settembre la previsione dì un prossimo scontro con Massimiliano d'Asburgo consigliò infatti il Senato di eleggere un secondo provveditore, e fu appunto il C., probabilmente in virtù della risolutezza più volte dimostrata, ad essere scelto dal Maggior Consiglio.

Dal gennaio del 1508 egli fu di nuovoa Venezia, e partì con la flotta il 15 marzo successivo, alla volta dell'Istria. Dopo alcune azioni dimostrative, ricevuto il 10 aprile l'ordine di "romper e tuor qual impresa li par più facile", attaccò il castello di Duino e Trieste, che sottopose ad un incessante bombardamento, ottenendo presto la resa del primo, e dichiarandosi "contentissimo" della resistenza della seconda, "per poterli castigar a suo modo, più presto che si i se havesseno resi". Caduta alfine anche Trieste il 7 maggio, si rivolse subito, d'accordo con Bartolomeo d'Alviano e col provveditore generale Giorgio Corner, all'Istria, dove senza difficoltà conquistò e saccheggiò Pisino, Fiume ed altri castelli minori.

Portate così a termine fulmincamente le operazioni militari, a metà giugno la tregua stipulata con gli Imperiali gli permise di portarsi in Levante, con la particolare commissione di inquisire sull'operato dei rettori delle isole: autorità che egli non esitò a far valere, annullando a Corfù tutte le concessioni di terreni, assegnati anziché a "povere famiglie" di coloni, "a soldati, stipendiati et scrivani, senza alchuno respecto".

Nel marzo e aprile del 1509, dopo la stipulazione della lega di Cambrai, stazionò in Puglia per assicurare i domini veneti dalla minaccia delle truppe spagnole, ma poi gli sviluppi della guerra lo costrinsero a risalire nuovamente il golfo: nel giugno si spostò a Capodistria per organizzarne la difesa, alla fine di luglio venne chiamato a Chioggia per presidiare il confine lungo il Po. Nuovamente all'assedio di Trieste in agosto, fu costretto dalle minacce del duca di Ferrara a ritornare precipitosamente a Chioggia; di qui il 10 settembre, su ordine del Senato, riuscì a risalire il Brenta sino a Padova con 500 uomini, arrecando così un contributo essenziale alla difesa della città assediata.

Non appena poi, all'inizio di ottobre, venne tolto l'assefflo, il C. chiese subito di poter tornare alla flotta per scagliarsi contro Ferrara, "chè hora il tempo di farsi pentir al ditto ducha de li error commessi". Anche da Chioggia continuò a insistere "molto gajardamente" con il Senato perché si andasse "a ruinar il Ferrarese"; ma quando poi, dopo molte esitazioni, si concentrarono le truppe venete alla Polesella, un madornale errore tattico dei generale Angelo Trevisan portò il 21 dicembre alla distruzione dell'avamposto veneziano e alla cattura di due galere da parte dei Ferraresi.

Richiamato e processato il Trevisan, la riprovazione pubblica si riverberò anche sul C., che però non ebbe difficoltà ad indicare la causa del disastro nell'insipienza e nella testardaggine del generale, e ancor più nella pavidità dei sopracomiti, i quali, anziché cercare come lui di salvare le proprie navi, si diedero "chi... a la fuga, chi a scapolar robe et chi putane".

Rimasto comunque alle foci del Po fino a tutto maggio 1510, impegnato a tener sotto controllo le ciurme esasperate dalla mancanza di denaro. più che a rintuzzare le sporadiche sortite dei Ferraresi, il 9 giugno, d'ordine dei Consiglio dei dieci, il C. dovette andare a Lesina, dove le violenze commesse da tre nobili a danno di alcune donne del popolo avevano provocato una sollevazione generale dagli evidenti connotati antiaristocratici, con l'imposizione di capitoli in cui plebei e nobili erano posti, quanto all'accesso al Consiglio e ai carichi fiscali, su di un piano di sostanziale parità.

Trovata l'isola con tutto il popolo in armi e i nobili atterriti o in fuga, il C. riuscì a imporre la propria autorità facendo sciogliere gli assembramenti, ma nel contempo raccomandò una severa repressione per evitare che da questo esempio restasse contagiata - come di fatto avverrà - tutta la Dalmazia. Ma a Venezia si preferì per il momento, date le difficoltà della guerra e l'impressione destata dallo spirito antiveneziano della nobiltà suddita, evitare di usare la maniera forte.

Tornato quindi a Corfù, il C. ricevette l'ordine, in virtù della nuova lega col papa, di portarsi con la flotta nel Tirreno per tentare la conquista di Genova, occupata dai Francesi.

Ma fu impresa difficile, più ancora che per le difese della città presidiata da truppa numerosa e da una forte flotta, per le divisioni e le ostilità tra gli stessi attaccanti: da una parte i condotticri genovesi Ottaviano Fregoso e Girolamo Doria, in realtà ostili alla conquista e solo preoccupati di ben figurare col papa, dall'altra i Veneziani, tutt'altro che entusiasti di combattere lungo una costa ostile, per un obiettivo sentito come profondamente estraneo, e presto coscienti della malafede degli alleati. Dopo una serie di manovre inconcludenti per tutto il mese di luglio, costretto di continuo a dissociarsi da proposte puramente provocatorie, fatte dai Genovesi al solo scopo di poter addossare ai Veneziani la responsabilità del probabile insuccesso, il C. si fermò per tutto agosto a Civitavecchia ad attendere rinforzi, ricevuto più volte da Giulio II, che lo incitava a tornare all'impresa e pose al suo fianco Franco Giberti come commissario pontificio. Ma neppure nelle spedizioni successive le cose migliorarono: mentre il Giberti "per non spender" bocciava i piani del C. per un colpo di mano contro la flotta nemica alla rada a Porto venere, i Genovesi insistevano sulla loro pretesa di ureinvasione per mare della città. Alla fine il C. fu costretto a cedere, e inviò quattro galere cariche di fanti; ma proprio quando stavano per arrivare ai moli i comandanti genovesi ingiunsero ai sopracomiti di invertire la rotta., tornando in mare aperto. Divenuto così palese che i Genovesi andavano "come la bissa a l'incanto a questa impresa", la campagna si trascinava fiaccamente tra diverbi e malumori; attestatosi in novembre a Piombino, il C. si rifiutò fermamente, per la cattiva stagione incipiente, di obbedire agli ordini del Giberti e del papa di tornare sulla costa ligure, confortato dal "consulto di questi sopracomiti e di tutta la marinarezza", e chiese invece insistentemente a Venezia di essere richiamato in Adriatico: partirà solo il 29 dicembre da Civitavecchia, arrivando il 15 febbr. 1511 a Corfù dopo un viaggio disastroso, la flotta dispersa e danneggiata dalle tempeste, tre galere naufragate; ma ancora dovrà restare in carica per tutto il 1511, impegnato nuovamente a sedare i tumulti popolari in Dalmazia, e ad organizzare attacchi contro Trieste, prima di poter finalmente disarmare, a quattro anni dalla partenza, il 27 genn. 1512.

Chiamato alla zonta del Senato ininterrottamente dal 1512 al 1515, il 10 febbr. 1513 il C. venne eletto assieme al cognato Pietro Querini nell'ufficio straordinario di provveditore esecutore, coll'incarico di sopperire agli urgenti bisogni militari, di arruolamento e di approvvigionamento, che a mano a mano venivano emergendo nel corso della guerra. Il 19 giugno venne eletto anche "in loco di Procurator"; ma quando, il 1° ottobre, la situazione militare precipitò e vennero nuovamente minacciate Padova e Treviso, fu uno dei pochissimi ad accogliere l'appello del doge Loredan, recandosi immediatamente e a proprie spese a presidiare Padova alla testa di 1.200 uomini. per portarsi poi 18 ottobre a Treviso, rimasta del tutto sguarnita dopo la rotta dell'esercito veneziano. Tornato a Venezia nel gennaio del 1514, per pochi voti mancò l'elezione a capitano generale da Mar, secondo solo ad Andrea Gritti. Richiesto nuovamente d'urgenza il 26 luglio un presidio di 200 uomini per Padova, ancora una volta non esitò ad assumersene il comando, rifiutando qualsiasi compenso, e tomando un mese dopo a cessato allarme. Era talmente scontata anzi la disponibilità del C. a queste imprese, che quando il 12 novembre la nuova rotta di Albarè riportò il fronte sotto Padova, il Collegio con procedura del tutto inconsueta si rivolse direttamente a lui, che si dispose subito a muoversi, fermato solo dal rapido miglioramento della situazione. Nel frattempo, come provveditore esecutore riscosse il plauso generale per la trovata, subito resa esecutiva, di ricavare i denari necessari all'Arsenale da una imposta sulle meretrici della città. Venne infine eletto capitano a Padova il 22, apr. 1515, ma morì a Venezia l'11 giugno 1515. prima di poter partire; "et morite - è l'epitaffio di Marin Sanuto - con fama di horno da ben, maxime in mar valente capitanio; saria stato zeneral".

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Miscell. codici, I, Storia veneta, 18: M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, II, p. 497; Ibid., Avogaria di Comun, Cronaca matrimoni, reg. 107, c. 61; il testamento della moglie è Ibid., Cancelleria infer., Miscell. testamenti. b. 27, n. 2462; la "condizion" è Ibid., Dieci savi alle decime, b. 16, SS. Apostoli n. 23; lettere del C. come provveditore in Armata Ibid., Senato, Provved. da Terra e da Mar, b. 1194, e in Capi del Cons. dei dieci, Lettere di Rettori e altre cariche, b. 300. Una biografia corretta del C. in Venezia, Bibl. del Civ. Museo Correr, Cod. Cicogna, 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti del Maggior Consiglio, I, c. 172; un buon albero genealogico e documenti privati per cause ereditarie Ibid., Mss. P. D. C 1128: Eredità Contarini, cc. 9-26. È invece zeppa di errori e confonde insieme tre Girolami Contarini diversi la biografia tracciata da G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, I, c. 289v, in Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 15 (= 9304). Fonte principale per la biografia del C., con l'avvertenza che gli indici sono spesso inesatti, è M. Sanuto, Diarii, III-LVIII, Venezia 1880-1903; si vedano inoltre: La obsidtone di Padua del MDIX. Poemetto contemp. a cura di A. Medin, Bologna 1892, pp. 46, 67, 101, 567, 266; N. Degli Agostini, Lisuccessi bellici seguiti nella Italia dal fatto d'arme di Gieradada del MCCCCCIX fin al presente MCCCCCXXI..., Venezia 1521, pp. non num., canto VI; L. Da Porto, Lettere storiche... dall'anno 1509 al 1528, a c. di B. Bressan, Firenze 1857, pp. 123, 163; P. Bembo, Rerum Venetarum historiae libri XII, in Degl'istorici delle cose veneziane..., II, Venezia 1748, pp. 328. 372 s., 381 s., 385 s., 394; D. Barbaro, Storia veneta... dall'anno 1512 al 1515..., a cura di T. Gar, in Arch. stor. ital., VII (1844), 2, p. 1012; G. Valentinelli, Regesta docum. Germaniae historiam illustrantium..., München 1964, pp. 238 s.; Diarii udinesi..., di L. e G. Amaseo e G. A. Azio, a cura di A. Ceruti, Venezia 1884, pp. 13 s., 31, 37, 46 s. (ma non 51), 140, 174; Idiari di G. Priuli, in Rer. Ital. Script., 2 ediz., XXIV, 3, a c. di R. Cessi, II, pp. 215, 226, 235; IV, pp. 83, 178, 240, 266, 269, 460, 469; N. Machiavelli, Legazioni e commissarie, a c. di S. Bertelli, Milano 1964, p. 1279 (ma non p. 161); F. Guicciardini, Storia d'Italia, a c. di C. Panigada, III, Bari 1967, pp. 27 s.; A. Mocenigo, La guerra di Cambrai..., Venetia 1562, pp. 25, 50 s., 100; G. Bonifacio, Historia trivigiana ..., Trivigi 1591, p. 700; E. A. Cicogna, Delle Inscriz. Venez., II, Venezia 1827, p. 427; S. Gigante, Fiume nel sec. XVI, in Bull. d. R. Deput. fiumana di st. patria, IV (1918), pp. 7-12, 16; A. Tamaro, Storia di Trieste, II, Roma 1924, pp. 12 s., 15, 24 ss., 41; S. Gigante, Storia del Comune di Fiume, Firenze 1928, p. 42; A. Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500, Bari 1964, pp. 221 s.; A. Prosperi, Traevangelismo e controriforma, G. M. Giberti (1495-1543), Roma 1969, p. 6.

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