DELLA ROVERE, Girolamo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 37 (1989)

DELLA ROVERE, Girolamo

Enrico Stumpo

Nacque a Torino nel 1530 da Lelio, dei signori di Vinovo, e da Anna dei conti di Piossasco, da nobile e antica famiglia che aveva già avuto diversi vescovi e cardinali, tra i quali Domenico, Giovanni Ludovico e Giovanni Francesco, titolari della diocesi torinese nel '500. Venne avviato alla carriera ecclesiastica, mentre i fratelli Leonardo e Giovanni Francesco furono destinati a quella delle armi. Ingegno assai precoce, tanto da pubblicare una piccola raccolta di versi eroici e lirici a soli dieci anni (Decimum agentis annum Carmina), a Pavia, studiò in questa università, ma anche a Padova e a Parigi. Qui si trovava nel 1559, anno della morte del re Enrico II, per il quale compose un'orazione funebre, dedicata al, giovane Francesco II, pubblicata sempre a Pavia nel 1559 e oggi introvabile.

In tali anni fu nominato dal duca Emanuele Filiberto, che lo conosceva personalmente, oratore sabaudo presso la corte di Francia, mentre il giovane re Francesco II lo propose a Roma quale vescovo di Tolone, diocesi alla quale fu eletto il 26 genn. 1560.

Il D. rimase tuttavia a Parigi, presso la corte, quale ambasciatore residente di Emanuele Filiberto. La sua opera in tali anni fu tutta rivolta ad ottenere la restituzione al duca sabaudo delle cinque piazzeforti ancora occupate dai Francesi in Piemonte, fra cui la stessa Torino che, secondo i capitoli del trattato di Cateau-Cambrésis, avrebbero dovuto essere restituite ai Savoia. Ma dopo la morte di Francesco II (dicembre 1560) Caterina de' Medicil reggente per il figlio Carlo IX, non mostrò alcuna fretta di aprire la conferenza per discutere tale restituzione. Solo nel novembre del 1561 iniziarono nell'abbazia di St. Just, presso Lione, le prime trattative, cui parteciparono, da parte sabauda, i migliori diplomatici e giuristi dello Stato: C. Dal Pozzo e O. Cacherano d'Osasco, presidenti del Senato di Piemonte, L. Oddinet di Monfort, presidente della Camera dei conti, il celebre giureconsulto P. Belli, e lo stesso D., proveniente da Parigi. Le trattative si trascinarono per qualche mese e furono sospese per le resistenze alla restituzione avanzate dai governatori e comandanti francesi in Piemonte. Furono riprese nell'aprile 1562, al Louvre, in seguito a due avvenimenti che convinsero Caterina e la corte a cedere: la nascita dell'erede del duca sabaudo, Carlo Emanuele, e la violenta ripresa delle guerre di religione nel paese, che rendeva assai importante un'eventuale alleanza con il cattolico e potente Emanuele Filiberto. Grazie anche all'apporto del D. e del Montfort l'accordo fu infine raggiunto e firmato a Blois, l'8 ag. 1562. La Francia restituì Torino, Chieri, Chivasso, Villanova d'Asti e, più tardi, quando gli Spagnoli restituirono a loro volta al duca Asti e Santhià, anche Pinerolo.

Quasi a ricompensare la ferma azione svolta dal D. a Parigi, Emanuele Filiberto propose al pontefice la sua candidatura all'arcivescovado di Torino, vacante dopo la morte del card. Innocenzo Cibo, avvenuta a Trento nel dicembre 1562. Era questa "... di recuperare l'arcivescovado di Turino, stato tant'anni in nostra famiglia ..." un'aspirazione del D., già comunicata al duca per lettera, anni prima (Cento lettere..., p. 567). Ma benché il duca avesse scritto pffi volte a Pio IV, venne eletto il card. Iñigo d'Avalos, la cui nomina provocò tuttavia le risentite proteste del duca, che non desiderava un personaggio di Curia, non residente. Le insistenze di Emanuele Filiberto nel sottolineare la necessità di un arcivescovo residente, dopo quasi cinquant'anni di titolari non residenti, anche per meglio combattere i pericoli di un diffondersi dell'eresia in un paese che confinava con ugonotti, calvinisti e valdesi, ebbero infine successo (Lettere inedite di santi..., p. 197). Il 12 Maggio 1564 il D. ottenne il pallio, facendo poco dopo il suo ingresso solenne a Torino.

Le esitazioni del pontefice tuttavia, e di altri personaggi della Curia romana alla sua elezione, non erano del tutto infondate. Si temeva in primo luogo di far apparire tale diocesi quasi un appannaggio della famiglia Della Rovere, che vi aveva avuto già tre vescovi nella prima metà del secolo; il D., inoltre, sembrava un personaggio fornito di grandi abilità diplomatiche ma di scarse doti di riformatore, in quel particolare clima di Riforma cattolica che s'instaurò subito dopo il concilio di Trento; infine, si temevano i suoi già noti e saldi legami con la corte ducale e con Emanuele Filiberto. Timore, questo, confermato dagli stessi giudizi degli ambasciatori veneti del tempo: S. Cavalli, nel 1564 e F. Barbaro, nel 1581 (Grosso-Mellano, I, p. 150). Così come venne riconfermato più tardi dagli stessi nunzi pontifici: dal Lauro, nel 1580, che tuttavia sperava di utilizzare tale rapporto a favore della S. Sede, proponendo la candidatura del D. alla carica di gran cancelliere, in opposizione a quella assai più temuta a Roma del barone Oddinet di Montfort; dal Federici o dall'Offinelli, che temevano un'eventuale nomina del D. ad ambasciatore sabaudo a Roma (Erba, p. 44 n.; Grosso-Mellano, III, p. 28).

Molti problemi attendevano certamente il nuovo arcivescovo di Torino: molti parroci erano non residenti; l'analfabetismo diffuso a diversi livelli; i primi focolai d'eresia venivano scoperti nella stessa capitale, mentre alla periferia del ducato si diffondeva la presenza e l'azione dei valdesi nelle valli alpine, degli ugonotti in Savoia, dei calvinisti da Ginevra ai confini sabaudi. Sembra sicuro che il D. tenne un sinodo provinciale già nel 1565, del quale tuttavia non è rimasta alcuna documentazione. Due anni dopo avvenne l'erezione del seminario, mentre la lotta intrapresa contr o i parroci incapaci o non residenti coglieva i suoi primi successi: tra il 1565 e il 1567 ben quarantasette di essi rinunziarono alla parrocchia. Nello stesso periodo fu intrapresa un'offensiva contro i riformati delle valli di Luserna, a Caraglio e a Cuneo. Altri processi seguirono a Chieri e a Carignano. In tale campo assai importante fu l'opera dei nunzi pontifici: Vincenzo Lauro, vescovo di Mondovì (1568-1573 e 1580-85) e Girolamo Federici (1573-77), già intimo di Carlo Borromeo. L'azione contro il diffondersi dell'eresia fu condotta sia contro i gruppi delle valli, sia contro singoli personaggi che apparissero particolarmente pericolosi. Tra questi spiccavano la contessa Giacomina d'Entremont, vedova di G. di Coligny, la signora di Montafia e la contessa di Tenda, nonché alcuni personaggi della stessa corte della duchessa Margherita di Francia, che l'avevano seguita dalla Francia dopo il matrimonio. Contro questi ultimi appariva tuttavia assai difficile procedere per la protezione loro accordata alla corte ducale. Le incertezze mostrate al riguardo sia dal D. sia dal nunzio V. Lauro non furono apprezzate a Roma: entrambi apparivano agli occhi della Curia o dello stesso Pio V troppo legati al duca sabaudo e riguardosi verso la corte. Né la lentezza con la quale il D. procedeva all'applicazione dei canoni tridentini nella diocesi fu tollerata, anche per le frequenti allusioni al riguardo mosse, da Milano, da Carlo Borromeo. Nél 1572 il neoeletto Gregorio XIII decise di inviare il Lauro nunzio in Polonia, nominando al suo posto, dietro consiglio del Borromeo, Girolamo Federici, vescovo di Martorano, già governatore di Roma al tempo di Pio IV, vicario criminale a Milano e fermissimo governatore in Romagna.

La nomina del Federici a nunzio in Savoia fu una sorpresa poco gradita per il duca e per lo stesso D., che avevano sperato in un prolungamento della missione del Lauro. Il Federici era preceduto dalla fama di esperto criminalista (fu sua la sentenza che condannò a morte il card. Carlo Carafa, nel 1560), di tenace difensore degli interessi ecclesiastici contro l'ingerenza del potere civile, nonché di severo riformatore, educato alla scuola di Carlo Borromeo. Con questo ultimo in effetti egli si tenne sempre in contatto durante 1 quattro anni della sua nunziatura, ottenendone entusiastici consensi alla sua azione riformatrice. E se ben presto e gli seppe acquistarsi, se non la fiducia, l'indubbio rispetto di Emanuele Filiberto, assai più tempestosi furono i suoi rapporti con il D., che egli vedeva troppo incerto e poco attivo. Indubbiamente la sua presenza a Torino costituì un costante stimolo all'azione riformatrice del D.: alla fine del 1573 il Federici iniziò la sua visita alla diocesi torinese, ma - come notava Carlo Borromeo - "non già con tutta la satisfattione dell'arcivescovo ..." (Grosso-Mellano, I, p. 147). Iniziarono i primi screzi con il D., che si lamentò a Roma delle visite da lui condotte presso i monasteri femminili, ottenendone in risposta il duro giudizio del nunzio sulla sua "natura piacevole e poco risoluta". Il nunzio proseguì la sua azione: visitò Asti, Vercelli, spingendosi fino in Savoia e forzando quasi il D. a tenere il sinodo provinciale nell'aprile 1574, cui seguì la pubblicazione delle Constitutioni synodali, l'anno seguente. (ibid., pp. 160-66). Due anni dopo apparvero invece i Generalia decreta in visitatione edita ... del Federici, che costituirono un avvenimento di grande importanza per la Riforma cattolica nel ducato sabaudo. Essi trattavano della "cura anirnaruni", dei seminari diocesani, dei vicari foranei, delle confraternite della dottrina cristiana, dei sinodi diocesani e provinciali. E, più tardi, furono in gran parte confermati dalla visita apostolica di mons. A. Peruzzi, i cui Decreta furono pubblicati a Torino nel 1586. Non sembra che il D. gradisse in modo particolare l'azione di tali visitatori: tuttavia è indubbio che fu in gran parte per merito loro se i canoni tridentini furono largamente applicati in quegli anni. Il Federici lasciò la nunziatura nel 1577, eletto vescovo di Lodi, su domanda dei Borromeo, e in riconoscimento della sua opera, assai apprezzata dal card. T. Gallio e dallo stesso Gregorio XIII.

Con i suoi successori, Prospero Santacroce Publicola prima, di nuovo il Lauro dopo, il D. non ebbe più scontri, anche se mostrò di apprezzare poco la visita apostolica del Peruzzi nel 1582. D'altro canto, la stessa atmosfera religiosa andava mutando nel ducato. L'eresia sembrava molto meno pericolosa, la riforma del clero procedeva, seppur lentamente, e un nuovo clima andava creandosi, meno teso e, forse, più adatto alla tempra del Della Rovere. Nel 1578 vi fu la traslazione della Ss. Sindone da Chambéry a Torino, per permettere il pellegrinaggio del Borromeo, che si trattenne qualche giorno nella capitale sabauda. L'azione del D. fu successivamente indirizzata a favore dell'introduzione dei gesuiti nel ducato e a Torino, nell'allargamento delle missioni cattoliche nelle valli valdesi e nel marchesato di Saluzzo.

Talvolta egli fu anche assorbito dalla sua passione di letterato. Già il duca lo aveva nominato, anni prima, riformatore dello Studio torinese. Scrisse anche qualche composizione poetica, ma "fu assai miglior prelato e diplomatico che poeta" (Egidi, p.269). Fu anche incaricato dal duca, in questi anni, insieme a Ludovico di Rochefort e ad altri diciassette studiosi, della compilazione di un Teatro universale di tutte le scienze (Storia d. Piemonte, p. 675) sorta di enciclopedia ideata dallo stesso Emanuele Filiberto, che restò tuttavia allo stadio di progetto.

La lunga attività del D. alla guida della sua diocesi, soprattutto dopo i buoni rapporti instaurati con i nunzi successori del Federici, fu infine apprezzata anche a Roma, dove del resto l'arcivescovo si era recato più volte. Così nel 1586, anche per l'intervento del giovane duca Carlo Emanuele, il D. fu elevato al cardinalato da Sisto V, che, due anni dopo lo assegnò alla congregazione dell'Indice. Nel 1590 il D. redasse un'importante relazione della Visita ad limina dell'arcidiocesi, assai interessante per comprendere lo stato religioso, morale ed economico della mensa arcivescovile (Grosso-Mellano, I, pp. 247-50).

Dalla relazione emerge nettamente il progresso verificatosi nei circa trent'anni del governo del Della Rovere. Si accenna al concilio provinciale del 1565 e a "parecchi sinodi diocesani tenuti da me", come pure alle visite del D. e dei nunzi. L'ortodossia è assicurata con le scuole della dotirina cristiana, la professione di fede richiesta pubblicamente a "tutti i maestri, pubblici dottori, collegi e magistrati"; la predicazione svolta da "circa sessanta predicatori"; le pubbliche lezioni di catechesi e di morale tenute "nella stessa Metropolitana". La relazione fu firmata dallo stesso D. e, nelle sue linee essenziali, confermata dalle lettere di mons. G. Ottinelli, nunzio pontificio a Torino.

L'anno seguente il D. si recò a Roma per partecipare al conclave seguito alla morte di Innocenzo IX. Ammalatosi improvvisamente, morì a Roma il 26 genn. 1592, assistito dal card. Aldobrandini che, quattro giorni dopo, divenne papa Clemente VIII.

Fu sepolto, secondo le sue disposizioni testamentarie, in S. Pietro in Vincoli, di cui portava il titolo cardinalizio e che aveva restaurato ed arricchito di vari ornamenti e arredi; i nipoti Lelio e Giulio vi eressero un monumento sepolcrale, con un elogio funebre.

La sua scelta biblioteca, ricca di codici greci e latini, passò dapprima al duca di Urbino, quindi, sotto Alessandro VII, fu portata a Roma, e collocata parte nella Biblioteca Vaticana, parte nell'Alessandrina.

Fonti e Bibl.: Le fonti relative al D. sono assai numerose, in particolare la sua corrispondenza diplomatica ed ecclesiastica, conservata a Torino e a Roma. Qui si ricorderanno solo le serie più importanti. In Arch. di St. di Torino, Archivio di corte, Lettere ministri, Francia, mazzi 2-4 (1560-64); Lettere particolari,D, mm. 20-23; Lettere vescovi, Torino, bb. 1-4 (1564-90); Lettere cardinali, m. 7 (1587-92); Torino, Archivio arciv., Insertio scrip. card. D., Miscell. 2747, docc. 2380-89 (lett. del D. al nipote mons. di Moretta); Arch. segr. Vaticano, Segret. di Stato, Nunziat. Savoia, voll.3-24 (1564-91), con continui accenni all'opera del D., ma anche con numerose sue lettere; Lettere cardinali, D. (1586-92); Lettere vescovi, Torino (1564-92); S. Congreg. Conc., Relat. dioces. ad limina, Torino 1590, Card. D. (29.3.1590); Bibl. apost. Vaticana, Urb. lat. 879, II, f. 635; 12345, ff. 80-81 (test. del D., 25 genn. 1592); G . Della Rovere, Sommario delle Constitutioni synodali di Turino...,Torino 1575; Constitutiones sinodales...,Taurini 1577; Lettere inedite di santi, papi, principi..., a cura di L. Cibrario, Torino 1861, p. 197; Cento lettere concernenti la storia del Piemonte,a cura di V. Promis, in Misc. di st. ital., s. 1,IX (1870), pp. 69-73; Nunziatura di Savoia, I, 1560-1573, a cura di F. Fonzi, Roma 1960, pp. XVII, XXIV, 51, 69 e passim (con lettere del D.); F. Della Chiesa, S. R. E. cardinalium, archiepisc., episcoporum et abbatum Pedemontanae regionis ... historia..., Augustae Taurin. 1645, pp. 207, 289; P.G. Bacci, Vita di s. Filippo Neri, Roma 1745, p. 63; G. B. Semeria, Storia della Chiesa metropolitana di Torino .... Torino 1840, pp. 287 ss.; T. Vallauri, Storia della poesia in Piemonte, Torino 1841, ad Indicem; D. Cerri, Memorie istoriche intorno alla nob. ma e ant. ma famiglia Della Rovere, Torino 1858, pp. 68 ss.; F. Savio, Le famiglie Della Rovere e Tana parenti di s. Luigi Gonzaga..., Pisa 1890, p. 86; A. Pascal, La società e la Chiesain Piemonte nel secolo XVI, considerate in se stesse enei loro rapporti con la Riforma, Pinerolo 1912, pp. 71 ss. e passim; Id., La lotta contro la Riforma in Piemonte al tempo di Emanuele Filiberto, studiata nelle relaz. diplom. tra la corte sabauda e la S. Sede (1559-1580), in Bull. de la Soc. d'hist. vaudoise, 1929, n. 53, pp. 5-88 passim; 1930, n. 55, pp. 5-108 passim; G. Jalla, La Riforma in Piemonte..., ibid., 1920, n. 42, pp. 5-49 passim; 1921, n. 43, pp. 5-56 passim; L.von Pastor, Storia deipapi..., X, Roma 1928, pp. 173, 184; Emanuele Filiberto. Quarto centenario..., Torino 1928, pp. III, 114, 329, 338, 420; P. Egidi, Emanuele Filiberto II (1559-1580),Torino 1928, pp. 71, 77, 83, 169, 184; V. Cian, Le lettere e la cultura letterariain Piemonte, in Studi pubblicati... nel IV centenario ... di Emanuele Filiberto, Torino 1928, I, pp. 287 ss.; M. Grosso-M. F. Mellano, La Controriforma nell'arcidiocesi di Torino (1558-1610), I, Ilcard. G. D. e il suo tempo, Città del Vaticano 1957, passim; II-III, ibid. 1957, pp. 5, 10, 17 s. e passim; Storia del Piemonte, Torino 1960, II, pp. 607, 673, 675; A. Erba, La Chiesa sabauda tra Cinque e Seicento. Ortodossia tridentina, gallioanesimo savoiardo e assolutismo ducale (1580-1630), Roma 1979, pp. 21 s., 44 n., 210 s., 353 s., 284, 292 e passim; G.Moroni, Diz. di erudiz. stor., LIX, p. 197; G. Gulik-C.Eubel, Hierarchia catholica..., III, Monasterii 1923, pp. 309, 315.

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