RUSCELLI, Girolamo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 89 (2017)

RUSCELLI, Girolamo

Paolo Procaccioli

RUSCELLI, Girolamo. – Girolamo di Francesco di Pietro di Antonio Ruscelli nacque a Viterbo nel 1518; non è noto il nome della madre. La data di nascita, desunta dal necrologio, corregge il 1504 della tradizione.

Fratello di Alessandro, Cristoforo e Raniero, apparteneva a una famiglia di ‘spadari’ che dal 1479 figurava tra le famiglie patrizie cittadine (Angeli, 2004, p. 451). Dopo una prima formazione locale si trasferì a Roma. La notizia di una stagione padovana è frutto di un fraintendimento; il Girolamo Roselli dell’epistolario aretiniano (Lettere, a cura di C. Gizzi - P. Procaccioli, I 265, del 2 dicembre 1537) era infatti un aretino e non il viterbese come invece ipotizzato nel Settecento (Farulli, 1717, p. 12; Papadopoli, 1726, p. 221).

L’affermazione «da già molt’anni havendo praticato se non tutte, la maggior parte delle città et delle persone principali dell’Europa» (Le dediche..., a cura di A. Iacono - P. Marini, 2011, p. 225), che si legge nella dedica ruscelliana al re di Polonia del Discorso sopra le Medaglie de gli Antichi di Sebastiano Erizzo (In Vinegia, appresso Giovanni Varisco, 1568), andrà intesa nel senso di una frequentazione epistolare. In ogni caso le tessere certe, specialmente per gli anni viterbesi e romani e più in generale per tutto il decennio preveneziano, sono poche e consegnano dati che al momento rimangono irrelati.

Nessuna notizia sulla sua formazione. Nel 1537 risulta tanto a Viterbo – in quella data il cardinale Niccolò Ridolfi gli diede alcuni componimenti di Veronica Gambara che circolavano con la falsa attribuzione a Vittoria Colonna (così nell’avviso ai lettori delle Rime di diversi eccellenti autori, In Vinegia, per Giovan Maria Bonelli, 1553) – quanto a Roma – nel Trattato del modo di comporre in versi nella lingua italiana (In Venetia, appresso Gio. Battista et Melchior Sessa, 1558) ricordò che quell’anno vi aveva conosciuto e frequentato Giulio Camillo. Più tardi l’Apologia contra i biasmatori della Continovatione d’Orlando furioso del Filogenio (In Vinegia, ad instantia di Nicolo Zoppino, 1543), il suo testo d’esordio, avrebbe indicato come suo patrono di quegli anni Ascanio Parisani. La prossimità di Ruscelli all’Accademia della Nuova Poesia promossa da Claudio Tolomei nella Roma degli ultimissimi anni Trenta è attestata invece dai distici barbari scritti in sua lode da Dionigi Atanagi e compresi nella silloge dei Versi et regole de la nuova poesia toscana (1539). Di lì a poco (1540 ca.) con il gentiluomo romano Tommaso Spica fondò l’Accademia dello Sdegno, un consesso che vedeva il cardinale Alessandro Farnese nella veste del protettore e Claudio Tolomei e Francesco Maria Molza in quelle di numi tutelari, e che contava come suoi membri, tra gli altri, il concittadino Latino Latini, Luca Contile, Dionigi Atanagi, Ottavio Pantagato, Giovanni Andrea dell’Anguillara, Pirro Ligorio, Giovan Battista Palatino. Quest’ultimo nel Libro nuovo (1540) ne ricordò la competenza di cultore di ‘cifre’ e indicò anzi in Ruscelli uno dei suoi maestri, riconoscendolo come tale al pari degli altri due sodali Trifone Benci e l’Atanagi.

Nel settembre del 1542 un polizzino di Paolo Giovio scrittogli da Roma lo raggiunse a Milano, dove era in rapporti non meglio precisati con Antoine Perrenot de Granvelle. Alla città dovette poi continuare a guardare nel tempo se ancora nel 1554 coinvolse nel progetto del Tempio per Giovanna d’Aragona vari poeti milanesi e se da Milano, ma nel 1563 e in seguito alla dedica delle Lettere di principi, gli sarebbe giunta, per volontà di Carlo Borromeo, una pensione annua di 50 ducati.

A Bologna lo riconducono la data topica dell’Apologia (13 maggio 1543) e un luogo della princeps dei Secreti di Alessio Piemontese (1555). Di tappe reggiane, nel 1543 e nel 1544, lo stesso Ruscelli avrebbe parlato introducendo il Furioso del 1556. A Napoli la sua presenza risulta documentata per gli anni 1547-49. Ma la prima data va senz’altro anticipata se il 18 gennaio 1547 Claudio Tolomei rispose alla proposta di adesione all’Accademia degli Ardenti avanzatagli proprio da Ruscelli, al quale chiese di essere raccomandato a Giulia Gonzaga. Pratiche, l’una e l’altra, che supponevano una familiarità pregressa con persone e ambienti.

L’ipotesi allo stato più economica è che Ruscelli abbia lasciato Milano in occasione del ritorno a Napoli di Maria d’Aragona, in una data al momento imprecisata ma successiva alla morte di Alfonso d’Avalos (avvenuta il 30 marzo 1546). A Napoli risulta prossimo agli accademici Ardenti e Sereni, consessi ambedue protetti dalla vedova del marchese del Vasto, e in rapporti con i fratelli Bernardino e Coriolano Martirano, con Giovan Battista d’Azzia marchese Della Terza, con il libraio Marc’Antonio Passero. Più tardi Torquato Tasso nel Minturno lo avrebbe ricordato come segretario del marchese di Torre Minore. È stato ipotizzato (Eamon - Paheau, 1984; Giorgio, 2003) che a Napoli Ruscelli abbia realmente frequentato quell’ipotetica Accademia Segreta della quale avrebbe fatto poi ampia menzione nell’avviso ai lettori dei suoi Secreti nuovi (postumi, 1567) e che sarebbe stata promossa dal principe di Salerno, Ferrante Sanseverino. Ma verosimilmente si trattava di un espediente narrativo con il quale vantare accumulo e verifica sperimentale di una materia al contrario di genesi tutta libresca.

Nel 1549 era a Venezia, forse per pubblicare le opere alle quali aveva lavorato fino ad allora, alcune delle quali annunciate dallo Zoppino nella lettera premessa all’Apologia. Vi giunse quasi sicuramente sul finire dell’estate se poté prendere parte a incontri con Trifon Gabriele (come ricordò nel 1551 dedicando un’edizione della Lettera di Alessandro Citolini), che sarebbe morto nell’ottobre. Nel maggio del 1550 si scusava con Aretino per non avergli ancora potuto far visita (Lettere, cit., p. 12). A Venezia sarebbe rimasto fino alla morte.

All’inizio fu prossimo al conte Fortunato Martinengo e partecipò alle riunioni delle accademie dei Dubbiosi (1552) e della Fratta (ca. 1552-54). Due consessi minori, raccolti il primo intorno al conte (a Brescia o a Venezia) e il secondo a Lucrezia Gonzaga signora di Fratta Polesine (militanza, quest’ultima, condivisa con Ortensio Lando, Luigi Groto, Lodovico Dolce, Giovanni Maria Bonardo). Ne nacquero proposte editoriali strategiche come la Lettura sopra un sonetto dell’Illustriss. Signor Marchese della Terza (1552) e il Tempio alla divina signora donna Giovanna d’Aragona (1554).

Altre frequentazioni veneziane furono Domenico Venier e Paolo Manuzio, ma fu soprattutto all’Aretino che Ruscelli dovette guardare all’arrivo in città. Da intendere come una conferma della grande familiarità raggiunta il fatto che nel 1556, immediatamente a ridosso dell’attacco portato da Anton Francesco Doni con il Teremoto, sarebbe stato proprio Ruscelli a incaricarsi della difesa di Aretino approntandone a caldo una Vita (perduta ma documentata da una fede di stampa di Domenico Venier datata 21 agosto) che possiamo supporre fosse un’apologia.

Tutta settecentesca la proposta che volle Ruscelli ascritto all’Accademia Veniera. La avanzò Pier Antonio Serassi editore delle Rime di Domenico Venier (1750) e la riprese più tardi Michele Maylender, ma ancorché probabile non è confortata dalla documentazione finora nota.

A Venezia dovette mettere su famiglia se risponde al vero quanto affermato da Virginia Panarelli, che nel 1587 testava dichiarandosi «relitta del .q. ms Hieronimo Ruscelli». Della donna, sorella di quel Teofilo che condivideva con Ruscelli interessi di idraulica e che il 22 febbraio 1572 era destinato a salire sul rogo romano come eretico, sono noti i testamenti del 15 maggio 1582 e del 16 aprile 1587 nei quali venne nominata principale beneficiaria Marina Percacino.

Sia stato o no segretario, come pure apparirebbe dalle pagine del Minturno tassiano e prima ancora dal possesso di competenze proprie di quella professionalità (tali erano senz’altro le ‘cifre’, la pratica epistolare e la discussione tecnica sulle ‘Signorie’), la vicenda biografica di Ruscelli risulta nettamente bipartita. Suddivisa tra una prima stagione cortigiana e una seconda risolta completamente e fruttuosamente all’interno della prospettiva del letterato di tipografia, che in Italia era praticabile su vasta scala solo a Venezia.

In laguna si era dato con successo al «mistiero di correttor di stampe» (così Girolamo Muzio nelle Battaglie per difesa dell’italica lingua, Torino 1994, p. 85), al punto da divenire in pochissimo tempo un protagonista riconosciuto di quella pratica fino a contendere, senza sfigurare, con Dolce, il campione locale. Dopo un’iniziale collaborazione tra i due si accese infatti una rivalità professionale connessa all’edizione del Decameron, intrapresa dal veneziano per Giolito e dal viterbese per Valgrisi. Al di là delle divergenze linguistico-filologiche – divergenze che fino ad allora non erano state di ostacolo né alla frequentazione né alla collaborazione – a far precipitare le cose dovette essere soprattutto il fastidio di Dolce per l’intraprendenza dell’altro, che minacciava di mettere in discussione una primazia consolidata. Ne seguì uno scambio durissimo di accuse consegnato agli avvisi ai lettori rispettivamente del Decameron (1552) e della seconda edizione delle Osservationi della volgar lingua (1552) per Dolce, e del Decameron (sempre 1552) per Ruscelli. Il Consiglio dei Dieci dispose che quelle pagine venissero espunte, ma alcuni esemplari non censurati restituiscono la violenza dello scontro (si leggono in appendice a Telve, 2011, pp. 135-148). L’anno successivo Ruscelli con i Tre discorsi sferrò un attacco a tutto campo contro il Dolce editore boccacciano, traduttore ovidiano e grammatico, cosa che obbligò il veneziano a cercare appoggi, peraltro senza grande successo, presso amici autorevoli (uno di essi fu Varchi). Sopraffatto dalla fondatezza di buona parte delle argomentazioni ruscelliane, si rassegnò a farne tesoro e di lì a pochi anni i rapporti tra i due tornarono buoni.

Lo scontro fu anche l’occasione per l’esordio di Ruscelli imprenditore editoriale. Alla sua persona infatti faceva capo la ‘compagnia’ della quale era ufficialmente titolare Plinio Pietrasanta (alla «mia stamparia in compagnia» avrebbe alluso più tardi nel verbale del processo intentatogli per la stampa del Capitolo del fuso, Archivio di Stato di Venezia, S. Uffizio, Processi, b. 159, c. 255 v). Ai Tre discorsi seguirono una trentina di edizioni interrotte dalla disavventura giudiziaria. Processato, agli inquisitori che il 13 agosto 1555 lo convocarono insieme a Pietrasanta con l’accusa di avere stampato l’operetta senza la prescritta licenza dei superiori, dichiarò di essersi limitato a rivedere e pubblicare a nome suo un testo anonimo, ma molto scorretto che disse già edito e che pertanto riteneva autorizzato. L’espediente lo salvò da una condanna pesante, ma pose fine al suo impegno diretto nell’attività editoriale. Non gli fece perdere però né la fiducia degli stampatori né quella delle autorità cittadine, come dimostrano una produzione sovrabbondante e le fedi di stampa delle quali venne richiesto negli anni successivi. Il tutto a conferma di un radicamento effettivo nella società, e non solo nel mondo delle tipografie. Anche, è stato ipotizzato con buon fondamento (Celaschi-Gregori, 2015), grazie al sostegno finanziario del potente gruppo commerciale che faceva capo a Beatriz de Luna.

La documentazione epistolare consente inoltre di appurare che Ruscelli all’attività professionale del correttore-editore affiancava quella di consulente librario per importanti personalità non veneziane, a cominciare dal duca di Ferrara.

Confrontato con quello degli altri letterati attivi nelle tipografie cittadine e noti a lungo con l’etichetta riduttiva di ‘poligrafi’, l’attivismo di Ruscelli curatore editoriale si caratterizza per un raggio d’azione ampio e per un alto tasso di disponibilità al nuovo. All’inizio la sua produzione rispecchiò le competenze canoniche del letterato, in particolare del grammatico. Fu la stagione delle discussioni linguistiche, filologiche ed esegetiche esemplificabili nelle edizioni boccacciane e ariostesche, nella scrittura polemica dei Tre discorsi, in quella trattatistica della Lettera al Mutio in difesa delle Signorie. Più tardi si impegnò in progetti audaci come quello dichiarato nella premessa al Modo (1558), che prevedeva la costituzione di una compagnia finalizzata alla commercializzazione su larga scala di libri di grande impegno della tradizione volgare. All’adesione alle novità del momento (raccolte di rime e lettere) si accompagnarono sviluppi in direzioni nuove o poco frequentate (le lettere di principi e le imprese soprattutto), con in mezzo il dilemma dei Secreti.

Rimane ancora problematica, ma non così enigmatica come appariva fino a pochi anni fa, la natura esatta del rapporto tra Ruscelli e Alessio Piemontese. A una sovrapposizione piena delle due figure spinge una serie di indizi documentari e di testimonianze, a cominciare da quelle relative agli specifici interessi del viterbese, indicato precocemente come cultore notorio di ‘segreti’. Interessi e voci che si accompagnavano al nome di Ruscelli già dagli anni romani e che Dolce allegava come capo d’accusa prima nelle carte premesse alla seconda edizione delle Osservationi (1552), poi in una lettera a Benedetto Varchi del 27 maggio 1553.

Un discorso a sé merita l’attenzione costante per il libro illustrato, della quale sono riprova soprattutto le edizioni valgrisiane del Decameron (1552), del Furioso (1556), del discorso dell’Erizzo Sopra le medaglie antiche (1559) e del Tolomeo (1561), e quella Zenaro delle Imprese illustri (1566).

Ma la vasta bibliografia dell’autore dichiara in maniera inequivoca che al di là delle opinioni sui vari punti di volta in volta in discussione, negli intensi anni veneziani Ruscelli si rivelò un campione di quell’editoria che tendeva a rispondere alle esigenze di affinamento soprattutto linguistico del nuovo lettore (e di non pochi autori: tra quanti gli affidarono la curatela delle loro opere basti ricordare Bernardo Tasso, Sebastiano Erizzo, Daniele Barbaro) con l’offerta di edizioni di classici arricchite di corredi sempre più folti di sussidi critici (specie in direzione linguistico-grammaticale) ed eruditi. L’obiettivo, dichiarato espressamente nella dedica del volgarizzamento platonico di Sebastiano Erizzo, era di «aiutare a finir di condurre al colmo questa bellissima lingua nostra» (Le dediche, cit., p. 66). In questa ottica l’edizione di un classico si trasformava in un manuale di retorica e di lingua (Giovanni Boccaccio, Francesco Petrarca, soprattutto Ludovico Ariosto); la grammatica in una riflessione generale sulla lingua (cosa che finì per condannare i Commentarii della lingua italiana, più volte annunciati, a essere editi postumi, nel 1581); una trattazione di metrica e un rimario in una presa in carico della lingua della poesia e del ‘modo’ di farla (Del modo di comporre in versi nella lingua italiana, 1559); una raccolta poetica in un ‘tempio’ alla cui edificazione erano invitati a concorrere tutti i poeti di tutte le lingue (Tempio, 1554); una silloge epistolare in un abbozzo di cronaca nazionale (Lettere di principi, 1562). Una logica analoga è riscontrabile nella Geografia, nelle Imprese, nei Secreti, nelle sillogi liriche e in quelle epistolari o teatrali.

Questo spiega lo sviluppo abnorme delle sue dediche, che oltre a svolgere la funzione canonica di procacciare finanziamenti, o cercare o ribadire prossimità politiche o ideali, miravano costantemente a promuovere il disegno perseguito. Non stupisce che molte delle sue iniziative editoriali siano insieme frutto di relazioni pregresse e momento dell’ambizioso progetto dichiarato con spavalda lucidità nella dedica del Modo.

È vero che tutto questo lo esponeva a semplificazioni e arbitri, ma ai più trasmetteva l’idea della sua capacità di dominare i complessi argomenti affrontati. Il che spiega la fascinazione esercitata sui lettori e il rispetto di molti colleghi come pure la repulsione di quanti ne denunciarono per tempo approssimazioni e forzature.

La vittoria su Dolce e tanto attivismo non devono infatti far pensare a un Ruscelli triumphans. Al contrario, gli ultimi anni furono funestati oltre che dall’aggravarsi delle condizioni di una salute sempre cagionevole anche da disavventure finanziarie (un intimo quale Sebastiamo Erizzo ne parlò in una lettera a Marco Venier del maggio 1565). Nella notte tra il 9 e il 10 maggio 1566 Ruscelli morì di idropisia nella sua casa veneziana.

Lo documentano le carte dei Provveditori alla Sanità, che registrano età, causa di morte e luogo di sepoltura di «Ms. Jer.mo ruscellj da Viterbo: danj 48: Amalado mexj 9: da Jndropixia et febre – s. lucha». Da parte sua Damiano Zenaro nella nota Ai lettori con cui un mese dopo licenziava la princeps delle Imprese illustri ricordava che l’autore era morto «il dì ix. del mese passato, che fu il Giouedì a xiij. hore» (p. 565). Dell’aggravarsi progressivo della malattia e delle condizioni disperate del letterato siamo edotti da lettere di Giuseppe Pallavicino (a Francesco Sansovino, del primo dicembre 1565), di Luigi Groto (del 29 aprile 1566, a Giovanni Maria Bonardi) e di Sebastiano Erizzo (a Pier Antonio Tollentini, del 9-10 maggio). Più tardi il sempre ben informato Francesco Sansovino nel paratesto dell’edizione 1568 delle Trasformationi di Dolce (a c. †4r) avrebbe riferito che Aretino, Ruscelli e Dolce erano sepolti in uno stesso sepolcro nella chiesa di S. Luca, prossima a Rialto.

Se in vita le polemiche, a cominciare da quella con Dolce, erano destinate a rientrare, bilanciate dal favore dei lettori, le dure critiche postume – pubbliche (Muzio, Lodovico Castelvetro) o no (Vincenzo Borghini, Traiano Boccalini) che fossero – affiancate ai nuovi indirizzi della letteratura e della critica, determinarono la sfortuna del viterbese. Con il risultato che per secoli Ruscelli e gli altri letterati di tipografia sarebbero stati condannati a un destino di marginalizzazione. Dal quale sono stati riscattati solo in tempi recenti grazie a sensibilità e ottiche nuove, che accanto a quelli della convenzione propriamente letteraria hanno recuperato al dibattito altri ruoli e percorsi, a cominciare da quelli della mediazione editoriale. Con le verifiche conseguenti che hanno soppiantato paradigmi inadeguati o anacronistici e, storicizzandoli, hanno problematizzato funzioni e carriere, a cominciare proprio da quelle delle figure professionali collegate al libro, e ne hanno consentito una presa in carico non pregiudiziale.

Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Sant’Uffizio. Processi, b. 159: Acta S. Officii Venetiarum 1554-1555, f. V, cc. 254v-255r (a carico di Plinio Pietrasanta) e 255v-256r (a carico di Ruscelli); Riformatori dello Studio di Padova 284 (fedi di stampa), cc. 110r, 147v, 160r, 199r, 247r, 279r, 280r; Provveditori alla Sanità. Necrologi, reg. 802, c. 1v; Notarile. Testamenti, bb. 1266 n. 43, del 15 maggio 1582, e 583 n. 576, del 16 aprile 1587 (testamenti di Virginia Panarelli).

Le opere di Ruscelli sono descritte in A. Iacono, Bibliografia di G. R. Le edizioni del Cinquecento, in appendice A. Gregori, Saggio di censimento delle edizioni dei Secreti, Introduzione di P. Procaccioli, Manziana 2011. La figura e l’opera di Ruscelli sono state al centro di un progetto che ha previsto edizioni (Lettere, a cura di C. Gizzi - P. Procaccioli, Manziana 2010; Le dediche e gli ‘avvisi ai lettori’, a cura di A. Iacono - P. Marini, Manziana 2011; Tre discorsi a M. Lodovico Dolce, rist. anast. dell’edizione Venetia, Plinio Pietrasanta, 1553, ed. in cofanetto con S. Telve, R. grammatico e polemista. “I Tre discorsi” a M. Ludovico Dolce, Manziana 2011) e studi (G.R. Dall’accademia alla corte alla tipografia. Atti del Convegno internazionale di studi, Viterbo... 2011, a cura di P. Procaccioli - P. Marini, Manziana 2012; M. Celaschi - A. Gregori, Da G. R. a Alessio Piemontese. I Secreti in Italia e in Europa dal Cinque al Settecento, Manziana 2015). La bibliografia precedente comprende Versi et regole della nuova poesia toscana, Roma, Blado, 1539, c. S1rv; G.B. Palatino, Libro nuovo d’imparare a scrivere tutte sorte lettere antiche et moderne di tutte nationi, Roma, Baldassarre di Francesco Cartolari, 1540, c. D5v (sez. Delle cifre); P. Farulli, Annali, ovvero Notizie istoriche dell’antica, nobile e valorosa città d’Arezzo in Toscana, Foligno 1717; J.C. Zeltner, Theatrum virorum eruditorum qui speciatim typographiis laudabilem operam praestiterunt, Nurnberg 1720, pp. 479-482; N.C. Papadopoli, Historia Gymnasii Patavini, Venezia 1726; V. Borghini, Ruscelleide, ovvero Dante difeso dalle accuse di G. R., Note raccolte da C. Arlìa, Città di Castello 1898; M. Maylender, Storia dell’accademie d’Italia, V, Bologna 1926-1930, p. 141; J. Ferguson, The secrets of Alexis. A sixteenth century collection of medical and technical receipts, in Proceedings of the Royal Society of medicine. Section on the history of medicine, 1927, n. 24, pp. 225-246; L. Morini, Ruscelli e le pretese varianti ariostesche al “Furioso” del ’32, in In ricordo di Cesare Angelini. Studi di letteratura e filologia, a cura di F. Alessio - A. Stella, Milano 1979, pp. 160-184; P.F. Grendler, L’inquisiszione romana e l’editoria a Venezia. 1540-1605, Roma 1983; W. Eamon - F. Paheau, The Accademia Segreta of G. R.. A sixteenth-century Italian scientific society, in Isis, 1984, n. 75, pp. 327-342; E. Camillo, Ancora su Donno Alessio Piemontese. Il libro di segreti tra popolarità e accademia, in Giornale storico della letteratura italiana, CLXII (1985), pp. 539-553; L. Bolzoni, Riuso e riscrittura di immagini: dal Palatino al Della Porta, dal Doni a Federico Zuccari, al Toscanella, in Scritture di scritture. Testi, generi, modelli nel Rinascimento, a cura di G. Mazzacurati - M. Plaisance, Roma 1987, pp. 171-206; C. Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel Cinquecento, Roma 1988; G. Tancke, G.R. e il suo contributo alla lessicografia italiana, in Miscellanea di studi romanzi, offerta a G. Gasca Queirazza per il suo 65° compleanno, a cura di A. Cornagliotti et al., presentazione di M. Pfister, Alessandria 1988, pp. 1023-1031; E. Bottasso, Alessio Piemontese e le sue avventure bibliografiche, in Biblioteche oggi, VII (1989), pp. 63-84; G. Rabitti, La «Vita di Giacomo Zane» scritta dal R. Prolegomeni per una monografia, in Quaderni veneti, 1990, n. 11, pp. 7-45; A. Quondam, Il rimario e la raccolta. Strumenti e tipologie editoriali del petrarchismo, in Id., Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del classicismo, Modena 1991, pp. 123-150; P. Trovato, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1470-1570), Bologna 1991; W. Eamon, Science and the secrets of nature, Princeton 1994 (trad. it. Genova 1999); L. 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R., in Studi di grammatica italiana, XXIV (2005), pp. 43-77; A. Maranini, Tra candele e crescenti. L’impresa di Solimano nell’opera di G. R., in Schede umanistiche, 2006, n. 2, pp. 93-143; G. Vagenheim, Appunti per una prosopografia dell’Accademia dello Sdegno a Roma: Pirro Ligorio, Latino Latini, Ottavio Pantagato e altri, in Studi umanistici piceni, 2006, n. 26, pp. 211-226; V. Borghini, Scritti su Dante, a cura di G. Chiecchi, Roma-Padova 2009; G. Chiecchi, Vincenzio Borghini e il cosiddetto ‘falso Vellutello’, in Lettere italiane, LXI (2009), pp. 281-290; P. Procaccioli, G.R., in Autografi dei letterati italiani. Il Cinquecento, a cura di M. Motolese - P. Procaccioli - E. Russo, consulenza paleografica di A. Ciaralli, I, Roma 2009, pp. 309-317 (alle pp. 310-311 una Nota paleografica di A. Ciaralli); I. Andreoli, L’Orlando Furioso «tutto ricorretto et di nuove figure adornato». L’edizione Valgrisi (1556) nel contesto della storia editoriale ed illustrativa del poema fra Italia e Francia nel Cinquecento, in Autour du livre italien ancien en Normandie. Intorno al libro italiano antico in Normandia, a cura di S. Fabrizio-Costa, Bern-Berlin 2011, pp. 41-131.

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