SAVONAROLA, Girolamo

Enciclopedia Italiana (1936)

SAVONAROLA, Girolamo

Roberto Palmarocchi

Nato a Ferrara il 21 settembre 1452, morto a Firenze il 23 maggio 1498. La sua famiglia era oriunda di Padova. Il suo avo Michele S. (v.) professò scienza medica a Padova e si procurò una chiara rinomanza. Chiamato alla corte degli Estensi da Nicolò III, ebbe per sé e per i suoi discendenti la cittadinanza ferrarese. Suo figlio Nicolò sposò Elena de' Bonacorsi mantovana, e da queste nozze nacquero sette figli, uno dei quali fu Girolamo. La prima educazione di questo fu diretta dal nonno fino alla sua morte (1468). A 17 anni lasciò le dottrine umanistiche per prepararsi alla medicina, e si applicò intanto assiduamente alla logica e filosofia; studiò Platone e Aristotele, ma si dedicò soprattutto a Tommaso d'Aquino. Non pensava allora a lasciare il mondo. Sembra anzi che in quest'epoca s'innamorasse di una figlia naturale di Roberto Strozzi, e che, avendola chiesta in sposa, fosse respinto con una risposta sprezzante e offensiva. Se l'episodio è autentico, poté certo esercitare un'azione notevole sullo spirito del giovane e acuire in lui la latente avversione per le cose terrene. A vent'anni egli già si accorava della corruzione dei costumi, scrivendo la canzone De ruina mundi, e tre anni dopo, l'altra canzone De ruina Ecclesiae. Un sogno simbolico e una predica ascoltata a Faenza lo decisero per la vita claustrale. Il 24 aprile 1475 lasciò segretamente la casa paterna e si recò a Bologna, dove chiese di essere ricevuto nel convento di San Domenico. Dopo un anno di noviziato, fu ammesso ai voti solenni, e iniziò gli studî preparatorî per la predicazione. Le sue doti d'ingegno e la condotta esemplare dovettero attirargli la stima dei suoi superiori, i quali nel 1479 lo mandarono a Ferrara, perché si perfezionasse nella facoltà teologica di quella università. Nel 1482, quando la guerra con Venezia mise in pericolo la città, il convento fu sgombrato e il S. venne trasferito a San Marco in Firenze. Qui ebbe l'incarico di lettore, e si dedicò con passione ad esporre la Sacra Scrittura, applicando al presente le profezie bibliche e suscitando grande impressione nei suoi ascoltatori. Il suo primo tentativo di predicazione, che fu verso la fine del 1482 nel monastero delle Murate, non ebbe successo: parlava ancora il suo dialetto, aveva la voce fioca e il gesto sgraziato. È da credere però che di tali difetti si correggesse presto, perché nella quaresima del 1483 predicò in Orsanmichele, e nel 1484 in San Lorenzo. Nei due anni successivi, inviato a San Gimignano, enunciò per la prima volta dal pulpito le tre proposizioni che dovevano essere la base di tutta la sua predicazione futura: la Chiesa doveva essere castigata, poi rinnovata, e ciò era imminente. Al principio del 1487 fu richiamato a Ferrara per continuarvi il suo perfezionamento. Si è preteso che questo trasloco fosse provocato da Lorenzo de' Medici, ma di ciò non esiste alcuna prova. Poco dopo predicò a Brescia, dove avrebbe predetto i disastri che afflissero la città nel 1512: si tratta probabilmente di una delle molte profezie post eventum fabbricate dai biografi posteriori. Nel 1490, mentre si recava a Genova per il quaresimale, scrisse da Pavia alla madre una lettera, la quale, se testimonia il suo ardente zelo religioso, dimostra anche il suo completo distacco dagli affetti mondani, amor filiale compreso. Tornato a Brescia dopo Pasqua, ebbe notizia del suo richiamo a Firenze, dovuto alle insistenze di Lorenzo de' Medici, promosse a quanto sembra dall'intercessione di Giovanni Pico della Mirandola. Il 1° agosto riprese le sue lezioni e prediche a San Marco, esponendo per un anno intero l'Apocalissi e riprendendo e sviluppando i temi già enunciati a San Gimignano. Dal giorno di Ognissanti del 1490 all'Epifania del 1491 tenne i XIX sermoni sulla Prima Epistola di San Giovanni, nei quali attaccò violentemente i vizî dominanti nella città. Durante la quaresima predicò in S. Maria del Fiore sulle Lamentazioni di Geremia, predicendo prossime tribolazioni e rovine. Negli avventi e nelle quaresime dal 1491 al 1494 tenne le prediche sul Genesi. Nell'avvento del 1492 precisò l'imminenza dell'uragano che doveva sconvolgere e rigenerare l'Italia, e annunziò la venuta del novello Ciro che sarebbe sceso d'oltralpe a compiere la vendetta divina. Nell'estate dello stesso anno espose il Salmo: Quam bonus Israel Deus. Di questo periodo sono diverse sue operette, come il Libro della vita viduale (Firenze 1495), il Trattato divoto e utile della umilità (ivi 1491), il Tractato dello amore di Iesu Cristo (ivi 1492) e alcuni scritti di logica e filosofia (1492). Dal luglio 1491 il S. era priore del convento di San Marco.

Nell'aprile del 1492 fu chiamato al letto di Lorenzo de' Medici, che benedisse morente. Si narra che egli avrebbe subordinato la confessione richiesta dall'infermo ad una professione di fede, all'impegno di restituire i beni illegittimamente posseduti e di rendere la libertà alla repubblica. Lorenzo avrebbe annuito alle prime due domande e respinto sdegnosamente la terza. Si tratta senza dubbio di leggenda, perché non se ne trova cenno nelle fonti contemporanee, e perché non è verosimile che il S. ponesse tali patti alla confessione: li avrebbe se mai posti all'assoluzione, e in questo caso il segreto sacerdotale avrebbe impedito la divulgazione del fatto. Ad ogni modo tutto ciò rientra nella questione dei rapporti del S. coi Medici, che non sono ancora stati studiati obiettivamente. Quello che si dice in proposito deriva generalmente da testimonianze posteriori, quando lo stesso S. e i suoi seguaci furono accusati d'esser tiepidi avversarî degli sbanditi, o più tardi quando si fece del S. un segnacolo di lotta repubblicana. Assai meglio documentato è invece l'appoggio che al S. diede Lorenzo nel 1490 per farlo tornare in Firenze, e quello anche più effettivo che egli ebbe tre anni dopo da Piero. Al principio del 1492 il S. aveva disegnato di restaurare nel suo convento l'antico rigore della Regola; difese le sue ragioni in due capitoli della Congregazione lombarda tenuti a Venezia. Le difficoltà incontrate lo indussero a promuovere la separazione di San Marco da quella congregazione. Tale proposta, che secondava la politica di Firenze, allora ostile a Milano, fu energicamente appoggiata da Piero e da Giovanni de' Medici, e ottenne pieno successo col breve papale del 22 maggio 1493. Alla separazione seguì l'assorbimento dei conventi di Fiesole, Prato e Pisa, e un tentativo, che tuttavia non riuscì, per quello di Siena.

Dietro questo movimento di espansione monastica non è difficile scorgere il tenace programma mediceo di consolidamento regionale. Non si può certo mettere in dubbio la sincerità con la quale il S. mirò al suo fine religioso, ma in questa occasione, come altre volte in futuro, il suo alto prestigio morale fu posto a servizio - e non sappiamo se e fino a qual punto egli se ne rendesse conto - d'interessi politici. L'effetto fu di suscitargli nemici irreconciliabili non solo nel suo ordine, ma anche tra i potentati italiani.

Nel 1494 il S. pronunziò, durante la quaresima, e ricominciando poi il 21 settembre, quarantacinque prediche, ancora sul Genesi. Il 1° novembre, mentre Piero de' Medici si trovava al campo francese, iniziò quelle sui Salmi e su Aggeo. Quando giunse notizia che Piero aveva ceduto le fortezze, la signoria mandò a Carlo VIII un'ambasceria, della quale fece parte il S. Questi parlò col re a Pisa e ne ricevette molte attestazioni di stima e di ossequio, ma nessuna concessione concreta. Dopo la caduta dei Medici e il distacco di Pisa, il S. s'incontrò di nuovo con Carlo VIII a Signa, ma le sue esortazioni non ebbero miglior esito della prima volta. Venuto il re a Firenze, si attribuì al S. il merito di averlo indotto a proseguire prontamente per Napoli; ma in realtà sembra che egli fosse mosso soprattutto dagl'incitamenti del D'Aubigny. I savonaroliani più accesi videro in queste vicende l'adempimento delle profezie del frate, ma gli osservatori più sereni cominciavano ad accorgersi che il novello Ciro non si curava affatto di mantenere gl'impegni presi e pensava piuttosto a spillar denari che a rigenerare l'Italia. Il 30 novembre il S. riprese le prediche sopra Aggeo. Intanto a Firenze si stava elaborando la riforma costituzionale della repubblica. Il S. favorì l'instaurazione di un regime sul tipo di quello veneto, quale era sostenuto specialmente da Paolantonio Soderini, ma nei particolari molti suoi suggerimenti rimasero inascoltati. Egli raccolse più tardi le sue idee nel Trattato circa il reggimento e governo della città di Firenze. Se le sue esortazioni alla pace interna giovarono a impedire eccessi e a calmare gli animi inaspriti, la sua proposta di un generale perdono incontrò resistenze insuperabili, e gli avversarî ne trassero nuovo argomento per accusarlo di parzialità verso i fuorusciti. Tentò anche il S. di moderare l'illimitato potere della signoria, basato sulle sei fave (due terzi dei voti), e nelle prediche sui Salmi, iniziate il 6 gennaio 1495, propugnò la istituzione di un Consiglio di ottanta o cento, tratto dal Consiglio Grande, al quale si potesse appellare contro le condanne della signoria. Queste proposte suscitarono l'opposizione violenta degli Arrabbiati, che costrinsero il S. a interrompere la predicazione e a recarsi a Lucca. Ma le pressioni dei suoi fautori e dei Bigi (partigiani dei Medici) ne procurarono il pronto ritorno, e il 1° marzo egli riprese le prediche su Giobbe. Il 18 fu approvato il diritto d'appello, ma ne fu deferita la competenza al Consiglio Grande. Continuava nel frattempo l'attività riformatrice del S., diretta a risanare il costume, specialmente nelle donne e nei fanciulli, e sempre più larga si faceva la schiera dei suoi aderenti, resi fanatici dall'ardente predicazione di penitenza del frate. Firenze per un certo periodo parve tutto un immenso monastero. Schiere di giovinetti appositamente istruiti, esercitavano una specie di polizia del costume. Penetravano nelle case, denunziavano bestemmiatori e giocatori, sequestravano libri e stampe di carattere mondano, oggetti di lusso e di abbigliamento femminile, per farne grandi falò sulle piazze, detti bruciamenti delle vanità. Del 1495 è il suo scritto Della semplicità della vita cristiana. Nel maggio, quando CarloVIII partì da Napoli per tornare in Francia e una lega generale degli stati italiani si formò contro di lui, il S. si applicò con ogni energia a mantenere Firenze nell'alleanza francese, pur non ottenendo da Carlo VIII, quando s'incontrò con lui a Poggibonsi, altro che assicurazioni verbali. Questo suo atteggiamento provocò l'intervento di Alessandro VI, che con breve del 21 luglio gl'intimò di recarsi a Roma per dare spiegazioni sulle sue pretese facoltà profetiche. Egli rispose il 31, giustificando l'impossibilità di muoversi, e il 18 agosto pubblicò il Compendio di revelatione. Sembra che la lettera del 31 fosse intercettata dai suoi nemici, perché l'8 settembre un nuovo breve papale ordinava che il S. fosse sottoposto a giudizio, e San Marco riunito alla Congregazione lombarda. Le nuove giustificazioni del S. e l'azione della signoria e di alcuni cardinali indussero Alessandro a revocare le sue decisioni, limitandosi, con altro breve del 16 ottobre, a interdirgli la predicazione finché non si fosse recato a Roma. Il S. predicò ancora il 18 e il 25, poi, ricevuto il breve, tacque. Sulla fine del 1495 lo scoraggiamento e l'irritazione dominavano in Firenze. La vendita che i Francesi avevano fatta della cittadella di Pisa ai Pisani e di Sarzana ai Genovesi aveva inasprito i contrasti cittadini. Le sorti del S. si andavano legando sempre più alle mutevoli fortune della politica. La signoria, dopo avere inutilmente insistito perché il papa revocasse il divieto di predicazione, l'11 febbraio 1496 ordinò al S. di riprendere la sua attività. Il 17 egli iniziò le prediche sopra Amos, nelle quali accentuò le sue critiche alle gerarchie ecclesiastiche. Il papa inviò una nuova proibizione e fece aprire a Roma un processo penale contro di lui; consentì poi a sospenderlo, col patto che il S. avrebbe tenuto un linguaggio più riguardoso e si sarebbe astenuto dalla politica. Dopo il quaresimale, il S. fece un breve soggiorno a Prato, e dall'8 maggio, nelle domeniche e nei giorni festivi dell'estate e dell'autunno, predicò in Firenze sopra Ruth e Michea. Si dice che in quest'epoca Alessandro, temendo il ritorno di Carlo VIII e cercando una via d'intesa, offrisse al S. il cappello cardinalizio. Ma la resa del duca di Montpensier rafforzò la Lega e diede in Firenze il sopravvento agli Arrabbiati. Dal 3 luglio fu vietato al S. di predicare; la venuta di Massimiliano (v.) rese ancora più difficile la sua posizione, ma l'insuccesso dell'impresa produsse una reazione favorevole, ed egli risalì il pulpito il 28 ottobre. Un colpo più grave gli venne il 7 novembre dal papa con la creazione della Congregazione romano-toscana, alla quale quella di San Marco doveva riunirsi sotto pena di scomunica, perdendo con ciò il S. la sua carica di vicario generale. Il 27 novembre egli iniziò le prediche su Ezechiele, che coutinuò nella quaresima del '97 e terminò il 4 maggio. Alla fine di dicembre era stato eletto gonfaloniere Francesco Valori; da questo momento i Frateschi appaiono inquadrati in una fazione politica. Ma la tregua che Carlo VIII concluse con la Lega produsse di nuovo il predominio degli Arrabbiati, e violenti tumulti scoppiarono nella città. Il 13 maggio il papa scomunicò il S.; la scomunica fu pubblicata il 17 giugno, ma il S. non ne tenne conto. Nell'agosto si scoprì un complotto per il ritorno dei Medici, e Giannozzo Pucci, Giovanni Cambi, Bernardo del Nero, Lorenzo Tornabuoni e Niccolò Ridolfi furono condannati a morte e giustiziati, essendo negato loro l'appello al Consiglio Grande previsto dalla legge: il S. non intervenne, probabilmente per purgarsi del sospetto di favorire i medicei. Il Valori trionfava, ma l'esecuzione dei cinque allontanò dal S. tutti i Bigi, e anche i Piagnoni giù moderati. Il 13 ottobre il S. scrisse al papa una lettera in cui ne impetrava il perdono. Si è supposto che fosse intercettata, ma il nessun effetto di essa si può meglio spiegare col fatto che neppure allora egli si sottometteva al decreto del 7 novembre. Intanto le spese della guerra pisana e le continue richieste di denaro del re aggravavano la crisi finanziaria, e la signoria ricorse a un prestito forzoso che esasperò il malcontento. Il S. continuò ad esercitare il suo ministero: celebrò e comunicò nella notte di Natale e il giorno dell'Epifania (1498), e a questa cerimonia la signoria intervenne ufficialmente. L'11 febbraio il S. iniziò le prediche sull'Esodo, nelle quali si scagliò con maggior violenza contro la corte di Roma e il papa. Questi con breve del 26 febbraio intimò alla repubblica di mandare a Roma il S. sotto pena d'interdetto, ma si lasciò poi indurre a consigli più miti, sempre però a patto che il S. cessasse di predicare. Il 17 marzo la signoria raccomandò al S. d'interrompere le prediche, e il 18 egli salì il pulpito per l'ultima volta. Subito dopo indirizzò al papa una lettera di sfida e progettò la riunione di un concilio che giudicasse e deponesse Alessandro. I partiti fiorentini si preparavano intanto all'urto decisivo. Il 25 marzo frate Francesco di Puglia sfidò il S. alla prova del fuoco, e fra Domenico di Pescia accettò la sfida. La prova fu fissata per il 7 aprile. I cavilli dei francescani la mandarono a monte, ma il tranello era riuscito, perché la delusione del mancato miracolo assottigliò ancora le schiere dei Frateschi. Il giorno seguente, la città fu a rumore. Il Valori fu ucciso e si diede l'assalto a San Marco. Dopo una strenua difesa, il S. si consegnò alla signoria e fu arrestato con Domenico da Pescia e Silvestro Maruffi. Il 7 aprile era morto Carlo VIII. Nel Consiglio degli Ottanta si decise di risparmiare i Frateschi e di colpire solo il S. Il divieto canonico di procedere contro tonsurati fu subito tolto da Alessandro, che chiese la consegna degli accusati. Il 10 aprile incominciarono gl'interrogatorî e il S. fu sottoposto alla tortura. Il 19 aprile si pubblicò il primo processo che, con le sue deposizioni abilmente manipolate, produsse enorme impressione. Un nuovo esame ebbe luogo fra il 21 e il 24. Anche la relazione del secondo processo si può considerare in gran parte una falsificazione. Il papa intanto aveva consentito che l'affare si concludesse in Firenze e mandato due commissarî apostolici: Gioachino Tormiani, generale dei predicatori e Francesco Romolino, uditore del governatore di Roma. Questi giunsero a Firenze il 19 maggio, e il 20 il Romolino iniziò il terzo processo, del quale non si hanno che redazioni incomplete e inattendibili. Il 22 fu pronunziata la condanna a morte, e il 23 i tre frati, dopo aver ascoltata la messa nel Palazzo dei Signori, ed essere stati sconsacrati dal vescovo ausiliario B. Paganotti, furono condotti al patibolo, impiccati, e i loro cadaveri furono arsi.

La responsabilità dell'iniqua condanna è stata variamente attribuita: secondo alcuni essa ricade sui Fiorentini, secondo altri sulla corte di Roma. È certo che il S. stesso diede ai suoi nemici l'occasione di abbatterlo, immischiandosi e invischiandosi nella politica e avallando con la sua autorità morale i fatti e i misfatti di una fazione. Ma la causa più profonda della sua caduta fu la sua illusione di arrestare il cammino dei tempi, il suo sforzo d'imporre agl'Italiani del Quattrocento una concezione di vita ormai superata. Una storia compiuta della sua fortuna nei secoli ancora si desidera, ma si può dire che ogni generazione ha aggiunto qualcosa al suo monumento, sicché col volgere del tempo la statua dell'uomo è divenuta quella di un gigante. Ma non è che un agglomerato di strati eterogenei. I primi apologisti e biografi, che lo venerarono come profeta e come martire, arricchirono la sua storia di una quantità di elementi fantastici: anche quegli studiosi che genericamente negano l'esistenza di una leggenda fratesca, finiscono con l'ammetterla nei particolari. Un po' più tardi il suo nome fu assunto come simbolo di riscossa antimedicea e di difesa repubblicana. Nei secoli successivi, e specialmente nell'Ottocento, i protestanti ne fecero un precursore di Lutero, il Tommaseo e i piagnoni toscani un democratico e un profeta della conciliazione fra religione e scienza. A ogni modo il S. non fu una mente creatrice né un precursore di tempi nuovi. Ci si può quindi domandare perché ebbe tanti seguaci da vivo e tanti ammiratori dopo morto. L'eco che egli destò nei suoi contemporanei, anche in uomini che, come il Guicciardini, erano refrattarî ai trasporti mistici, si spiega con quel tanto di medievale (ed era assai più che comunemente non si creda) che sopravviveva nelle coscienze del sec. XV. L'entusiasmo della folla derivò, oltreché dal fascino dell'eloquenza, dall'attrazione che gli annunziatori di prossimi sconvolgimenti operano su tutti i malcontenti, dal consenso che il suo atteggiamento verso Carlo VIII trovava in una città per tradizione e per interesse amica alla Francia, e finalmente dall'adesione dei pochi che deploravano la corruzione dei costumi e l'avvilimento della religione (che fossero pochi dimostra il fatto che la sua attività religiosa e morale non lasciò tracce durevoli). La sua tragica illusione fu di credersi seguito da una schiera compatta di fedeli, mentre i più lo servirono e se ne servirono per interessi diversi e contingenti. A ingrandire la sua fama tra i posteri contribuì la crudeltà e l'iniquità del suo supplizio, e soprattutto lo zelo di quelli che, dopo averlo travestito a loro somiglianza, cercarono attraverso la sua esaltazione, di giustificare e innalzare sé stessi. Ma se lo storico imparziale è costretto a negare il profeta, a condannare il politico, a ridurre la statura del pensatore, egli non può che inchinarsi con riverenza all'uomo e al credente, che con perfetta purità di cuore dedicò tutto sé stesso a un ideale più che umano, e per questo ideale accettò tutte le rinunzie e sacrificò finalmente la vita.

Ediz.: Per le edizioni antiche è utile il catalogo: Bibliotheca Savonaroliana, Firenze 1898. Per le Prediche le migliori edizioni sono quelle pubblicate, vivente ancora il S., a cura di Lorenzo Violi. Molte ristampe, per lo più assai scorrette, furono fatte a Venezia nel sec. XVI. Un'edizione delle Prediche sopra Ruth e Michea fu pubblicata da G. Baccini a Firenze, nel 1889. L'Ente nazionale di cultura di Firenze ha iniziato una nuova edizione di tutte le Prediche, di cui sono apparsi i primi due volumi a cura di F. Cognasso, e il terzo a cura di R. Palmarocchi (Firenze 1930-35). Una raccolta delle Lettere è stata curata da R. Ridolfi (Firenze 1932). Delle altre opere non esiste un'edizione complessiva; si ricordano: Poesie, a cura di A. De Rians (Firenze 1847); Poesie, a cura di C. Capponi (Firenze 1862, rist. Lanciano 1914); Trionfo della croce, a cura di L. Ferretti (Siena 1899); Trattato circa il reggimento e governo della città di Firenze, a cura di A. De Rians (Firenze 1847). Una buona scelta degli scritti è S. Prediche e scritti, a cura di M. Ferrara (Milano 1930, con bibliografia). Tra le antiche biografie sonoo da ricordare quelle di Pacifico Burlamacchi (Lucca 1761), di G. F. Pico (Parigi 1674) e di Serafino Razzi (inedita).

Bibl.: Ricordiamo le opere più significative: F. T. Perrens, J. S., Parigi 1853; P. Villari, Storia di G. S. e de' suoi tempi, Firenze 1859-61 (2ª ed., ivi 1887-1888; 3ª ed., ivi 1910; 4ª ed., ivi 1926); A. Gherardi, Nuovi documenti e studi intorno a G. S., ivi 1878, 2ª ed., ivi 1887 (con bibl.); L. Ranke, S. und die flor. Republik, in Hist.- biographischen Studien, Lipsia 1877, pp. 81-357; L. Pastor, in Storia dei papi. S. e Alessandro VI, Roma 1925, III, pp. 379-418; id., Zur Beurheilung S.s, Friburgo i. B. 1898; P. Luotto, Il vero S. e il S. di L. Pastor, Firenze 1897; G. Schnitzer, S., Monaco 1924 (trad. ital., Milano 1931).