Giudicato amministrativo e vincoli CEDU

Il libro dell anno del diritto 2019 (2019)

Giudicato amministrativo e vincoli CEDU

Claudio Contessa

La sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 12/2017 giunge all’esito di una complessa vicenda giudiziaria avente ad oggetto la conformità dell’ordinamento processuale amministrativo nazionale rispetto all’ordinamento CEDU. In particolare, veniva in rilievo la legittimità di tale ordinamento per la parte in cui non sembra ammettere la possibilità di esperire il rimedio revocatorio (art. 106 c.p.a.; artt. 395 e 396 c.p.c.) nel caso di sentenze amministrative ormai passate in giudicato ma di cui sia emerso il contrasto rispetto all’ordinamento CEDU. La sentenza della Corte costituzionale n. 123/2017 (resa su ordinanza di rimessione dello stesso Consiglio di Stato) ha dichiarato infondata la questione e l’Adunanza Plenaria, con la sentenza in esame, ha completato il quadro rendendo statuizioni di un certo interesse sistematico.

La ricognizione

La sentenza in rassegna rappresenta l esito di una complessa vicenda giudiziaria nell’ambito della quale è stata posta in discussione la legittimità costituzionale (in relazione all’art. 117, co. 1, Cost.) delle norme nazionali in tema di revocazione delle decisioni del giudice amministrativo per la parte in cui non consentono di annullare la sentenza amministrativa passata in giudicato di cui sia medio tempore emerso il carattere violativo della CEDU del 1950. La vicenda di causa ha tratto origine dall’infinita historia giudiziaria che ha interessato i cd. medici gettonati dell’Università di Napoli e che si ritiene qui di richiamare nei suoi tratti essenziali. Nel corso del 2004 il dott. Staibano e altri i quali prestavano servizio presso l Università di Napoli in qualità di gettonati , ossia, senza un rapporto stabile e continuativo adivano il TAR della Campania per sentire dichiarare che il rapporto instaurato da circa quindici anni con quell’ateneo (e formalmente qualificato come di attività professionale attraverso la stipula di contratti a termine) celasse in sostanza un rapporto di carattere subordinato.

All’esito del giudizio amministrativo (conclusosi in primo grado in senso parzialmente favorevole ai ricorrenti) l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ribaltava la decisione del TAR e dichiarava inammissibile per tardività il ricorso proposto in primo grado dagli interessati (sentenza n. 4/2007)1. Ciò in quanto l’art. 45, co. 17, del d.lgs. 31.3.1998, n. 80 (in seguito: art. 69, co. 7, d.lgs. 30.3.2001, n. 165, relativo alla proponibilità delle controversie lavoristiche inerenti il periodo del rapporto che va fino al 30.6.1998)2 deve essere inteso nel senso che la data del 15.9.2000 rappresenta il termine finale per la stessa proposizione dell’azione, pena la perdita – ad un tempo ‒ dell’actio e del ius sottostante.

Secondo l’Adunanza Plenaria, quindi, il richiamato termine non costituirebbe soltanto una sorta di spartiacque in punto di giurisdizione (consentendo anche dopo il suo decorso di proporre l’azione, ma dinanzi a un giudice diverso), ma rappresenterebbe piuttosto una data-limite entro la quale proporre la domanda di giustizia dinanzi al g.a., pena la definitiva preclusione di ogni tutela giudiziale.

È qui appena il caso di sottolineare che l’approccio seguito dall’Adunanza Plenaria nel 2007 risultava in questa fase storica sostanzialmente condiviso sia dalla Corte costituzionale (ord. n. 214/2004)3, sia dalla Corte di cassazione (n. 9101/2005)4.

Una volta passata in giudicato la sentenza dell’Adunanza Plenaria (ed esaurite, quindi, le vie di ricorso interne ai sensi dell’articolo 35 della CEDU del 1950)5 gli interessati adivano la C. eur. dir. uomo, lamentando che le definitive statuizioni rese dai giudici nazionali avessero prodotto in loro danno violazioni dell’art. 6 della CEDU (che sancisce il diritto ad un processo equo) e dell’art. 1, prot. 1 (che sancisce il diritto alla proprietà e all’intangibilità della sfera giuridica).

Con due sentenze del 4.2.2014 (Staibano c. Italia e Mottola c. Italia)6 la Corte di Strasburgo accoglieva i ricorsi e dichiarava che, nel pronunciare la sentenza n. 4/2007, i giudici italiani avessero effettivamente violato le disposizioni invocate, privando – fra l’altro ‒ gli interessati del diritto a un processo effettivo7.

In particolare la Corte di Strasburgo rilevava che il termine di cui all’art. 69, co. 7, del d.lgs. n. 165/2001, che in precedenza era stato interpretato dalla giurisprudenza nazionale come termine di proponibilità dell’azione davanti al giudice amministrativo (e con salvezza di proporre l’azione, dopo il suo decorso, dinanzi al giudice ordinario), era stato poi ritenuto termine di decadenza sostanziale da un successivo e diverso orientamento di cui la sentenza n. 4/2007 rappresenta l’epilogo.

Secondo la C. eur. dir. uomo, in particolare, il mutamento di indirizzo giurisprudenziale (e non già il termine previsto dalla norma in quanto tale, «finalizzato alla buona amministrazione della giustizia» e «in sé non eccessivamente breve») aveva impedito ai ricorrenti di ottenere tutela, nonostante avessero «adito i tribunali amministrativi in completa buona fede e sulla base di un’interpretazione plausibile delle norme sulla ripartizione delle competenze».

A questo punto della vicenda gli interessati adivano nuovamente il Consiglio di Stato chiedendo la revocazione della decisione del 2007, se del caso previa declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni processuali nazionali che non prevedono la possibilità di ricorrere allo strumento della revocazione in caso di sentenza ormai definitiva che risulti violativa della CEDU.

Nella tesi degli appellanti, infatti, lo strumento della revocazione risulterebbe dal punto di vista processuale il più adatto per elidere gli effetti di una sentenza nazionale che sia stata dichiarata in contrasto con gli obblighi convenzionali assunti dallo Stato.

Conseguentemente, in caso di difficoltà di ordine giuridico a riconoscere la revocabilità di tale sentenza (e al fine di garantire comunque il rispetto da parte dell’ordinamento degli obblighi assunti in sede internazionale), l’unica via percorribile sarebbe quella della declaratoria di incostituzionalità delle disposizioni nazionali in materia di revocazione.

La tesi in parola veniva in una prima fase sostanzialmente condivisa dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, chiamato in sede revocatoria a pronunciarsi sulla propria precedente decisione del 20078.

In particolare, con l’ordinanza n. 2 del 20159 l’Adunanza Plenaria, rilevato che il giudice nazionale non dispone di strumenti processuali per rivedere il giudicato in contrasto con l’ordinamento CEDU e ravvisata l’impossibilità di disapplicare le norme processuali nazionali in contrasto con quell’ordinamento, sollevava questione di legittimità costituzionale in ordine alle disposizioni nazionali in tema di revocazione (artt. 395 e 396 c.p.c.; art. 106 c.p.a.)

In particolare il Collegio escludeva la possibilità che la questione potesse essere risolta attraverso un’interpretazione delle pertinenti disposizioni processuali nazionali conforme al diritto della CEDU e concludeva quindi per la necessità di rimettere la questione alla Corte costituzionale.

Il Collegio richiamava in primo luogo la giurisprudenza della Consulta che ha escluso la valenza stricto sensu costituzionale delle disposizioni della CEDU e ne ha ribadito il carattere di norme interposte le quali rilevano ai fini di un’eventuale questione di legittimità costituzionale solo grazie alla previsione di cui all’articolo 117, co. 1, Cost. (ex multis sentt. nn. 348/2007, 349/2007, 303/2011).

I giudici di Palazzo Spada rammentavano poi che, nel caso di contrasto fra le norme interne e quelle convenzionali, non è utilizzabile il rimedio della disapplicazione delle prime (il che rappresenta un evidente punto di differenza rispetto alla conformazione rispetto all’ordinamento UE, in relazione al quale la disapplicazione della disposizione interna in contrasto non è soltanto possibile, ma più in generale doverosa da parte degli operatori nazionali).

osservava poi che, nel caso in esame, emergesse in modo oggettivo «una tensione tra le norme interne che disciplinano la revocazione della sentenza amministrativa passata in giudicato e l’obbligo assunto dall’Italia di conformarsi alle decisioni della Corte di Strasburgo (art. 46 CEDU)».

Il Collegio richiamava, poi, l’orientamento della C. eur. dir. uomo e del Comitato dei Ministri secondo cui, laddove la Corte abbia accertato una violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione, sorge per lo Stato l’obbligo di riparare tale violazione adottando le misure generali e/o individuali necessarie.

«La finalità di tali misure è quella della restitutio in integrum in favore dell’interessato, ossia porre il ricorrente in una situazione analoga a quella in cui si troverebbe qualora la violazione non vi fosse stata» (pt. 12 della motivazione).

Le istituzioni della CEDU hanno indicato la riapertura del processo e la rimozione del giudicato come gli strumenti cardine attraverso i quali assicurare la richiamata restituito in integrum10.

Ebbene, se questa è la corretta impostazione che deve essere fornita alla questione, allora (osservava l’Adunanza Plenaria con l’ordinanza del 2015) si deve dubitare della conformità a Costituzione della normativa processuale nazionale (si tratta delle disposizioni sulla revocazione delle sentenze passate in giudicato nel giudizio amministrativo) le quali non consentono la riapertura del processo e la rimozione del giudicato a fronte di una sentenza della C. eur. dir. uomo che abbia giudicato “iniquo” il processo nazionale.

Del resto – osservava il rimettente ‒ in Italia tanto è avvenuto con riferimento ai processi penali grazie all’intervento della Corte costituzionale la quale, con la sentenza n. 113 del 2011, ha introdotto un nuovo caso di revisione, qualora ciò si renda necessario per conformarsi a una sentenza definitiva della C. eur. dir. uomo11.

La questione doveva, quindi, essere demandata alla Corte costituzionale la quale avrebbe dovuto giudicare la conformità delle richiamate disposizioni processuali con la disposizione interposta ai sensi dell’art. 117, co. 1, Cost.

Inoltre, l’A.P. riteneva che la questione andasse altresì vagliata dalla Consulta in base alle ulteriori norme-parametro rappresentate dall’art. 24 (in tema di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale) e dall’art. 111 (che sancisce e declina il principio giusto processo) della Costituzione. Tanto, alla luce del consolidato principio secondo cui le garanzie di azionabilità delle posizioni soggettive e di equo processo previste dalla Carta costituzionale non possono essere intese come di portata inferiore rispetto a quanto espresso dalla CEDU.

Le statuizioni rese da C. cost. n. 123/2017

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 123 del 201712, ha dichiarato in parte inammissibili e in parte infondate le questioni sollevate dal Consiglio di Stato con la richiamata ordinanza n. 2 del 2015.

In particolare, la Corte (nel riconfermare il valore centrale che la stabilità della cosa giudicata riveste nell’ambito dell’ordinamento giuridico interno, nel superiore interesse della certezza del diritto) ha stabilito che non sussiste (salvo che nella materia penale) l’obbligo per i giudici nazionali della revisione o riapertura del processo amministrativo, neppure laddove – come nel caso in esame – sia emerso il contrasto fra il giudicato e l’ordinamento convenzionale.

La Consulta ha premesso che la questione della rimozione del giudicato si pone soltanto per i soggetti che, dopo aver esaurito le vie di ricorso interne, abbiano altresì adito vittoriosamente la via convenzionale (ricorrendo dinanzi alla C. eur. dir. uomo). Al contrario, tale rimedio non può essere neppure astrattamente invocato da coloro che, una volta formatosi il giudicato interno, non abbiano assunto ulteriori iniziative dinanzi alla Corte di Strasburgo, in tal modo consentendo il consolidarsi della propria vicenda processuale.

Venendo invece alla posizione dei ricorrenti i quali, dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, abbiano in effetti adito la C. eur. dir. uomo con esiti vittoriosi, la Corte si è domandata (richiamando la pertinente giurisprudenza convenzionale) quanto siano pregnanti gli obblighi restitutori e ripristinatori gravanti in capo allo Stato.

Nel particolare ambito del settore penale l’ordinamento convenzionale impone (come affermato dalla Consulta con la sentenza n. 113 del 2011) la revisione del processo come misura paradigmatica di restitutio in integrum a fronte di decisioni definitive ma conclamatamente contrastanti con l’ordinamento CEDU.

A questo punto, però, la Corte costituzionale si è domandata se ai princìpi enunciati con la sentenza del 2011 debba essere riconosciuta valenza extrasettoriale e se – in particolare – essi trovino applicazione anche nel caso del processo civile e amministrativo.

La Corte, sulla base della giurisprudenza della C. eur. dir. uomo, ha risposto al quesito in senso negativo. Ha osservato in particolare che «l’obbligo di conformazione alle sentenze della Corte ha un contenuto variabile, che le misure ripristinatorie individuali diverse dall’indennizzo sono solo eventuali e vanno adottate esclusivamente laddove siano ‘necessarie’ per dare esecuzione alle sentenze stesse, e che il riesame del caso o la riapertura del processo sono tuttavia da ritenersi le misure più appropriate nel caso di violazione delle norme convenzionali sul giusto processo».

Ha osservato ancora la Consulta che la sussistenza di un vero e proprio obbligo di riapertura del processo (quale misura atta a garantire la restitutio in integrum) è predicabile esclusivamente nei confronti degli Stati i cui ordinamenti interni già prevedono strumenti di revisione delle sentenze passate in giudicato in caso di violazione delle norme convenzionali (come nel caso della Zweites Gesetz zur Modernisierung der JustizJustizmodernisierungsgesetz tedesca del 22.12.2006)13.

Al contrario, il carattere del tutto residuale del richiamato obbligo di in integrum restitutio (sub specie di riapertura del processo) non può comportare l’obbligo per tutti gli Stati membri (ivi compresi quelli che non prevedano tale rimedio in via ordinaria) di integrare necessariamente i propri ordinamenti processuali introducendo forme di revisione del processo.

In definitiva, secondo la Consulta, «nelle materie diverse da quella penale, dalla giurisprudenza convenzionale non emerge, allo stato, l’esistenza di un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo [laddove] la decisione di prevederla è rimessa agli Stati contraenti, i quali, peraltro, sono incoraggiati a provvedere in tal senso, pur con la dovuta attenzione per i vari e confliggenti interessi in gioco».

Del resto (come già chiarito dalla C. eur. dir. uomo con la sentenza sul caso Bochan c. Ucraina del 5.2.2015) spetta agli Stati contraenti scegliere come meglio conformarsi alle pronunce della corte «senza indebitamente stravolgere i principî della res iudicata o la certezza del diritto nel contenzioso civile, in particolare quando tale contenzioso riguarda terzi con i propri legittimi interessi da tutelare»14.

La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Consiglio di Stato è stata quindi dichiarata infondata. Come è intuibile, gli esiti del giudizio di costituzionalità hanno segnato in modo inevitabile quelli del giudizio amministrativo a quo.

La focalizzazione

Con la sentenza n. 12 del 2017, quindi, l’Adunanza del Consiglio di Stato ha definito il giudizio a valle della decisione della Corte costituzionale del 2017.

Come era ampiamente prevedibile, il Consiglio di Stato ha dichiarato la questione inammissibile per l’insussistenza dei presupposti richiesti ai fini dell’attivazione del rimedio revocatorio.

In particolare i giudici di Palazzo Spada, dopo aver ricostruito l’intero contesto procedimentale e processuale dinanzi sintetizzato, hanno in primo luogo escluso la possibilità di sollevare nuovamente la questione di legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. in relazione a parametri di legittimità diversi da quelli su cui si è concentrata la sentenza 123 del 2017.

È vero infatti (ha notato l’A.P.) che la Consulta ha dichiarato inammissibile la dedotta questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 24 e 111 Cost., ma è anche vero che la stessa Corte ha nondimeno esaminato la questione concludendo nel senso dell’insussistenza delle lamentate violazioni di tali ulteriori parametri.

Ha osservato al riguardo l’A.P. che «il parametro riposante nella compiuta garanzia del diritto di difesa in giudizio (anche alla luce dei principi del c.d. ‘giusto processo’) [è stato] integralmente valutato dalla Corte costituzionale, e non sembra al Collegio che possano in tal senso individuarsi ulteriori profili di dubbia compatibilità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. cui la Corte costituzionale non abbia già fornito risposta nella decisione n. 123 del 26 maggio 2017».

In secondo luogo l’Adunanza Plenaria ha escluso di poter rinviare la definizione del giudizio di revocazione a data successiva alla pronuncia della Corte costituzionale (chiamata a risolvere la questione di legittimità costituzionale sulle medesime disposizioni nuovamente sollevata con ordinanza delle Sezioni Unite n. 6891 del 2016)15.

Ha osservato infatti il Collegio che, qualunque fosse le decisione finale della Consulta sulla rimessione operata dalle Sezioni Unite, essa non avrebbe comunque potuto sortire alcun effetto in relazione alla vicenda di causa.

Ciò in quanto il presupposto da cui muovevano le Sezioni Unite era, a ben vedere, diametralmente opposto rispetto a quello che aveva portato i ricorrenti a proporre il proprio ricorso per revocazione.

Ed infatti:

• mentre nel caso sottoposto al giudizio delle Sezioni Unite la sentenza del giudice amministrativo impugnata per motivi inerenti la giurisdizione non era passata in giudicato (restando tale effetto precluso dalla proposizione del ricorso ex art. 111 Cost.);

• al contrario, nel caso sottoposto all’esame dell’Adunanza Plenaria era proprio il passaggio in giudicato della sentenza amministrativa n. 4 del 2007 (asseritamente violativa dei principi della CEDU) a rappresentare il presupposto per la proposizione del rimedio revocatorio (in assenza di ulteriori e diversi strumenti processuali offerti dal sistema processuale nazionale)16.

Nel merito, l’Adunanza Plenaria (declinando in modo coerente – e invero prevedibile – le statuizioni rese dalla Corte costituzionale nel 2017) ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione rilevando che l’azione proposta dagli appellanti non trovi cittadinanza nel vigente ordinamento processuale nazionale.

Ha osservato al riguardo:

• che la Consulta ha escluso la possibilità di una integrazione per via giurisdizionale dei tassativi casi di impugnazione revocatoria indicati negli artt. 395 e 396 del c.p.c. ed espressamente richiamati dall’art. 106 del c.p.a. con riferimento al processo amministrativo;

• che non può trovare accoglimento la domanda finalizzata ad ottenere un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 106 del c.p.a., nonché degli artt. 395 e 396 c.p.c. ‒ e quindi, l’accoglimento in via diretta della domanda rescissoria proposta dagli appellanti – (si tratta, invero, di una possibilità che era stata già esclusa dall’ordinanza di rimessione n. 2 del 2015);

• che – come affermato con la più volte richiamata sentenza n. 123 del 2017 – «nelle materie diverse da quella penale, dalla giurisprudenza convenzionale non emerge, allo stato, l’esistenza di un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo, e che la decisione di prevederla è rimessa agli Stati contraenti, i quali, peraltro, sono incoraggiati a provvedere in tal senso, pur con la dovuta attenzione per i vari e confliggenti interessi in gioco».

In conclusione, l’Adunanza Plenaria ha dichiarato il ricorso per revocazione inammissibile in quanto proposto al di fuori dei tassativi casi in cui è possibile contestare l’errore revocatorio da cui si assume viziata la decisione del giudice amministrativo.

Il ricorso in parola, infatti, è stato proposto «per una ipotesi non contemplata dall’ordinamento giuridico, ed è noto che per la costante giurisprudenza civile ed amministrativa, ‘attesa la loro eccezionalità, i casi di revocazione della sentenza, tassativamente previsti dall’art. 395 cod. proc. civ., sono di stretta interpretazione, ai sensi dell’art. 14 delle preleggi’ (ex aliis Cass. Civ. Sez. Lav., sent. n. 1957 del 19 marzo 1983; Corte Conti reg., Sicilia, sez. giurisd., 14 maggio 1997, n. 112; Cons. Stato Sez. III, 24 maggio 2013, n. 2840)»17.

I profili problematici

La sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 12 del 2017 (e la sentenza della Corte costituzionale n. 123 del 2017, che ne ha fissato e anticipato i principali assunti sistematici) presenta l’indubbio vantaggio di aver recato adeguata chiarezza circa il bilanciamento fra i princìpi (invero, fra loro antinomici) che sempre si fronteggiano quando si discute dei rapporti fra salvaguardia del giudicato interno e violazione degli obblighi di fonte sovranazionale.

Nel caso da ultimo risolto dai giudici di Palazzo Spada si trattava infatti di stabilire:

• se riconoscere prevalenza alle esigenze di giustizia sostanziale (le quali avrebbero imposto di ammettere la riapertura del giudizio ormai definito oltre dieci anni addietro – ma in modo contrastante con la CEDU – con la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 4 del 2007);

• ovvero se riconoscere prevalenza ai concomitanti (e parimenti fondanti) princìpi di stabilità della res iudicata e di certezza del diritto i quali ostano – e con pochissime eccezioni – alla possibilità di ampliare le tassative ipotesi legali di riapertura dei giudizi.

In favore della prima soluzione militavano (fra le altre) l’esigenza di rafforzare gli strumenti volti alla costruzione di un sistema giuridico di tutela multilivello dei diritti fondamentali18, nonché l’esigenza di assicurare un tendenziale parallelismo fra l’enforcement delle sentenze della C. eur. dir. uomo e quelle della C. giust. UE (la quale ha ammesso ormai da alcuni lustri forme di temperamento del vincolo del giudicato interno).

In favore della seconda soluzione militavano invece argomenti desunti dagli stessi atti della CEDU (con particolare riguardo alla raccomandazione R-2000-2 del Comitato dei Ministri del 19.1.2000 sulla riapertura dei processi, la quale non impone in modo indifferenziato la revisione dei giudizi conclusisi con una sentenza contrastante con l’ordinamento CEDU), nonché la consapevolezza che è la stessa CEDU, all’art. 41, a contemplare – e quindi ad ammettere – che l’ordinamento del singolo Stato membro possa non assicurare una riparazione completa a fronte della violazione della Convenzione (in tal modo dando adito al rimedio sussidiario dell’equa soddisfazione).

Come è stato osservato in dottrina, «l’importanza della decisione si coglie dunque nel fatto di aver mantenuto fermo il punto di equilibrio tra l’esigenza di assicurare giustizia in senso sostanziale e quella di certezza del diritto, come attualmente assicurato nell’ordinamento nazionale dalla disciplina della revocazione straordinaria»19.

Ad avviso di chi scrive, l’importanza della decisione in rassegna consiste altresì nell’aver sottolineato che spetta alla discrezionalità (e alla responsabilità) del legislatore individuare un adeguato punto di bilanciamento fra i due richiamati ordini di princìpi, se del caso optando per l’ampliamento delle ipotesi di revocazione straordinaria o di revisione dei processi (in tal modo evitando che tale compito sia incongruamente demandato alla sede giurisdizionale).

La decisione in esame lascia comunque residuare almeno due profili problematici.

In primo luogo essa palesa in modo quanto mai evidente il vero e proprio iato sistematico che esiste fra il grado di effettività (anche in relazione alle categorie processuali nazionali e alla tenuta del giudicato interno) riconosciuto alle sentenze della C. giust. UE e quello che può essere riconosciuto alle sentenze della C. eur. dir. uomo20.

È vero che la giurisprudenza della C. giust. UE non ha ammesso in modo incondizionato la possibilità di travolgere il giudicato anticomunitario e che le impegnative statuizioni rese con la sentenza sul caso Lucchini del luglio 2007 sono state in seguito in parte temperate con la decisione sul caso Olimpiclub del marzo 200821. È altresì vero, tuttavia, che la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo ha posto con forza la questione del bilanciamento fra l’esigenza di salvaguardia del giudicato nazionale e quella di garantire in massimo grado il principio della primauté comunitaria.

Nulla di tutto ciò si riscontra, al contrario, per quanto riguarda le ipotesi di contrasto fra il giudicato nazionale e le disposizioni della CEDU.

Per tali ipotesi (oltre alla nota inutilizzabilità del rimedio della disapplicazione) è stato ormai chiarito che non possa essere invocata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni processuali nazionali che non ammettono (al di fuori dell’ambito penale) forme di riapertura o di revisione del giudizio conclusosi con una decisione in contrasto con l’ordinamento convenzionale.

Se a ciò si aggiunge il carattere all’evidenza non pienamente satisfattivo del rimedio dell’equa riparazione (art. 41 della CEDU)22, ne emerge un’evidente discrasia fra i due ordinamenti per ciò che riguarda la capacità effettiva di assicurare l’instaurazione di un sistema giuridico di tutela multilivello dei diritti fondamentali.

E tale discrasia risulta tanto più evidente se solo si consideri che mentre la giurisprudenza della Corte di giustizia ha reso le affermazioni più pregnanti in tema di incisione del vincolo del giudicato interno in materie di contenuto squisitamente economico e concorrenziale23, al contrario la giurisprudenza della C. eur. dir uomo stenta a conseguire un effettivo grado di enforcement delle proprie statuizioni proprio nel cruciale settore della tutela dei diritti inviolabili dell’individuo.

Un secondo ordine di criticità emerge dal passaggio della sentenza della Corte costituzionale n. 123 del 2017 (puntualmente ripreso dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 12 del 2017) in cui si afferma che soltanto gli ordinamenti nazionali che già contemplano forme di revisione e riapertura dei processi – e della res iudicata – possono essere gravati dell’onere di attivare tali strumenti processuali quante volte emerga un giudicato interno violativo degli obblighi convenzionali.

Al contrario (in base ad espressi richiami della stessa C. eur. dir. uomo e del Comitato dei Ministri) l’obbligo di conformarsi agli obblighi rinvenienti dall’ordinamento convenzionale non può giungere sino al punto di imporre ai singoli Stati l’introduzione nei propri ordinamenti di siffatte forme di revisione o di riapertura.

La tesi sviluppata dalla Corte costituzionale appare corretta e adeguatamente fondata sugli atti di matrice convenzionale dinanzi richiamati.

Lo sviluppo di tale tesi tuttavia, è evidentemente idoneo (ove condotto alle estreme conseguenze) a produrre effetti centrifughi e potenzialmente erosivi della coesione e della fiducia fra le Parti contraenti, innescando vere e proprie “fughe all’indietro” o vere e proprie competizioni al ribasso in punto di tutela giurisdizionale dei diritti.

Allo stato attuale, infatti, risulta che alcuni fra i Paesi caratterizzati dalla più antica tradizione in tema di tutela dei diritti fondamentali in ambito continentale si siano effettivamente dotati di meccanismi volti ad assicurare la prevalenza dei princìpi convenzionali anche a fronte di statuizioni munite della forza della res iudicata (è questo, in particolare, il caso della Francia, della Germania e della Spagna)24.

Ma un sistema che impone obblighi più pregnanti ai Paesi che si siano dotati di strumenti più incisivi ed evolutivi, mentre esenta da tali obblighi i Paesi che non garantiscono forme processuali più incisive di conformazione agli obblighi convenzionali è evidentemente un sistema il quale rischia di innescare pericolose forme di competizione “al ribasso” fra gli Stati.

Si rischia in tal modo di intraprendere una direzione opposta a quella dell’istituzione di forme tutela multilivello dei diritti fondamentali in ambito continentale e, in ultima analisi, di determinare vere e proprie forme di regressione in un ambito in cui nessuna acquisizione può davvero dirsi definitiva e non più revocabile in dubbio.

Note

1 In Giorn. dir. amm., 2007, 5, 532; Corr. mer., 2007, 536, ss., con nota di M.L. Maddalena.

2 Ai sensi della disposizione in questione, «le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000».

3 C. cost., 5.7.2004, n. 214, in Lav. pubbl. amm., 2004, 647, con nota di S. Pasqua; in Guida dir., 2004, 31, 82, con nota di M. Gentile. L’orientamento da ultimo prevalso presso le superiori giurisdizioni nazionali «ricollegava alla scadenza di tale termine la radicale perdita del diritto a far valere, in ogni sede, ogni tipo di contenzioso» (in tal senso C. cost., 26.5.2017, n. 123).

4 Cass., S.U., 3.5.2005, n. 9101, in Giur. it.Mass., 2005; in Foro amm. – Cons. St., 2005, 1338.

5 Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con l. 4.8.1955, n. 848. Ai sensi dell’art. 35, § 1 «la Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, qual è inteso secondo i princìpi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva».

6 C. eur. dir. uomo, 4.2.2014, Staibano c. Italia, in Gazz. forense, 2014, 4, 194, con nota di M. Corleto.

7 In particolare, con le sentenze del gennaio 2014 la C. eur. dir. uomo accerta la violazione da parte dell’Italia (e per essa, delle sue giurisdizioni) dell’art. 6, § 1, della CEDU, relativo al diritto di accesso a un tribunale, poiché, anche se tale diritto non è assoluto (potendo in astratto essere condizionato), nel caso di specie era risultato ingiustamente leso

nella sua sostanza. La Corte rileva altresì la violazione dell’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione stessa: i ricorrenti erano titolari di un «bene» ai sensi del citato

parametro convenzionale, poiché il loro diritto di credito pensionistico aveva una base sufficiente nel diritto interno alla luce della giurisprudenza all’epoca consolidata, e la decisione del Consiglio di Stato aveva svuotato la loro legittima aspettativa al conseguimento di tale bene.

8 Dal punto di vista processuale, infatti, è del tutto corretto che l’istanza di revocazione di una decisione dell’A.P. sia stata sottoposta al vaglio della stessa Adunanza, sia pure in diversa composizione.

9 Cons. St., A.P., 4.3.2015, n. 2, in Corr. giur., 2015, 1427, con nota di G. Vitale e in Giur. it., 2015, 2710 con nota di P. Patrito.

10 Va inoltre osservato che la raccomandazione R(2000)2 sulla riapertura dei processi, adottata dal Comitato dei Ministri il 19.1.2000, pur soffermandosi in particolare su quelli penali, non esclude tuttavia quelli civili e amministrativi. Gli Stati membri sono incoraggiati alla riapertura dei processi laddove ricorrano due condizioni: a) che la parte lesa continui a soffrire serie conseguenze negative a causa della sentenza nazionale che non possano essere adeguatamente ristorate attraverso l’equa soddisfazione prevista dall’art. 41 della CEDU; b) che la C. eur. dir. uomo «abbia riconosciuto la sentenza domestica quale fonte di una violazione degli obblighi convenzionali per ragioni sostanziali o procedurali».

11 C. cost., 7.4.2011, n. 113, in Corr. giur., 2011, 1242, con nota di R. Conti; in Dir. pen. e processo, 2011, 833, con nota di L. Parlato.

12 C. cost., 26.5.2017, n. 123, in federalismi.it, 2017, con nota di Francario, F., La violazione del principio del giusto processo dichiarata dalla CEDU non è motivo di revocazione della sentenza passata in giudicato; in Foro it., 2017, I, 2180, con nota di D’Alessandro, E., Il giudicato amministrativo (e quello civile) per ora non cedono all’impatto con la Corte europea dei diritti dell’uomo; e in giurcost.org., 2017, con nota di R.G. Conti.

13 In termini analoghi la loi n. 2016-1547 du 18 novembre 2016 de modernisation de la justice du XXIe siècle, la quale ha introdotto nel code de l’organisation judiciaire francese la possibilità di chiedere la revocazione delle sentenze civili rese in materia di stato delle persone in caso di condanna da parte della C. eur. dir. uomo nei casi in cui, per la sua natura e gravità, la violazione convenzionale abbia cagionato un danno non risarcibile con l’equa soddisfazione.

14 Sul punto, D’Alessandro, E., Il giudicato amministrativo, cit., § 3.

15 Con l’ordinanza in parola le S.U. hanno, in sintesi, posto la questione se l’ingiustizia di una sentenza amministrativa per contrasto con successiva sentenza della C. eur. dir. uomo la quale abbia riconosciuto la violazione del diritto al giudice possa essere dedotta dinanzi alle S.U. «per motivi inerenti la giurisdizione» (art. 111, ult. co., Cost.). Sul punto, v. Francario, F., La violazione del principio, cit., § 8. È qui appena il caso di osservare che, con ordinanza 18.1.2018, n. 6, la Corte costituzionale ha comunque dichiarato inammissibile la questione sollevata dalle Sezioni Unite con l’ordinanza n. 6891 del 2016.

16 Secondo l’A.P., infatti, «la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 4 del 2007 è passata in giudicato, ne discende la non refluenza, sulla odierna causa, della futura decisione della Corte Costituzionale sulla questione rimessale (quale ne sia l’esito)» (punto 1.3.5 della motivazione).

17 Punto 7 della motivazione in diritto.

18 Sul punto, v. Cassese, S., I tribunali di Babele. I giudizi alla ricerca di un nuovo ordine globale, Roma, 2009, 103.

19 Francario, F., La violazione del principio, cit., § 5.

20 Sia qui consentito richiamare Contessa, C., Fin dove arriva il diritto comunitario? (Gli incerti confini del giudicato interno), in Corr. mer., 2006, 785 ss.

21 Si tratta della sentenza 3.9.2008 in causa C-2/08. Con la decisione in questione la Corte di Lussemburgo ha anzi sottolineato la valenza del giudicato nazionale e ha ribadito «l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali. Infatti, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione. … Ne consegue che il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione».

22 Il carattere di non piena satisfattività di tale rimedio è chiarito dallo stesso articolo 41 della CEDU, il quale ne ammette l’esperibilità soltanto laddove «il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze [della] violazione».

23 È qui il caso di rammentare che la sentenza Lucchini del 2007 (che rappresenta a ben vedere l’apice del processo di erosione delle categorie del giudicato interno ad opera della C. giust. UE) è stata resa nella materia degli aiuti di Stato alle imprese di cui all’articolo 197 del TFUE.

24 Per quanto riguarda le esperienze tedesca e francese, ci si limita a rinviare a quanto già osservato retro al § 2.1. Per quanto riguarda, invece, l’esperienza spagnola, giova qui rammentare che a partire dall’1.1.2015, attraverso la modifica della ley orgánica 6/1985, de 1 de julio, del Poder Judicial, è stato introdotto all’art. 5 bis una nuova ipotesi di recurso de revisión di tutte le sentenze in contrasto con una pronuncia definitiva della C. eur. dir. uomo, purché la violazione, per la sua natura e gravità, comporti effetti che persistono e che non possono cessare in altro modo che con la revisione.

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