GIUGURTA

Enciclopedia Italiana (1933)

GIUGURTA (Iugurtha, 'Ιογόρϑας)

Gaetano De Sanctis.

Principe numidico, figlio di Mastanabale, figlio alla sua volta di Masinissa. Nacque circa il 160 a. C. Masinissa, re dei Numidi, morendo nel 148, lasciò il regno ai tre figli, Gulussa, Micipsa e Mastanabale. Micipsa, che sopravvisse ai fratelli e rimase unico re, lasciò alla sua morte (118) il regno ai figli Iempsale e Aderbale e al nipote G. da lui adottato, quantunque nato da una concubina. G. si era segnalato alla testa d'un corpo numidico ausiliario, inviato ai Romani che assediavano Numanzia (134) sotto il comando di Scipione Emiliano, e aveva in quell'occasione stretto legami con ufficiali appartenenti all'aristocrazia romana. Intorno alla divisione del regno sorse subito discordia fra i tre principi. Iempsale fu assassinato, e il suo assassinio è dalla nostra tradizione, avversa a G., attribuito a quest'ultimo. Scoppiò poi guerra tra G. e Aderbale, il quale, vinto, venne a Roma a chiedere l'aiuto del Senato. Sebbene vi fosse chi fin d'allora desiderava una guerra a fondo con G., per meglio assicurare in Numidia il predominio di Roma, il Senato prese la deliberazione moderata di dividere il regno fra i due pretendenti. Questa deliberazione era dettata dalle contingenze, poiché una guerra in Numidia doveva prevedersi, come fu, dura, e di rendimento assai scarso, non mirandosi punto allora all'occupazione e colonizzazione del paese. Non v'è quindi ragione di attribuirla con Sallustio alla venalità del Senato romano. Una commissione senatoria di dieci membri, con a capo L. Opimio, quello che, console nel 121, aveva sopraffatto C. Gracco e i suoi partigiani, procedette alla divisione del regno, assegnandone la parte orientale, contigua alla provincia romana d'Africa con la capitale Cirta, ad Aderbale e la parte occidentale contigua alla Mauretania a G. Tale divisione, che assegnava ad Aderbale, protetto da Roma, la parte più ricca e civile del regno, era vantaggiosa ai Romani i quali avevano così alla loro frontiera un principe amico, e vantaggiosa ad Aderbale che poteva più facilmente avere il loro aiuto; conforme inoltre agl'interessi dei mercanti italici, assai numerosi in Cirta. Non v'è quindi nessuna ragione di asserire, con Sallustio, che Opimio fosse corrotto dall'oro di G.; la condanna che egli ebbe più tardi dal tribunale partigiano dei cavalieri non è argomento contro di lui. Scoppiò per altro presto la guerra tra i due principi numidi; Aderbale fu vinto, assediato in Cirta e messo a morte dalle truppe di G. Che dopo ciò il Senato romano perdesse la pazienza e dichiarasse guerra a G., era ben naturale. Non vi era però nessuna intenzione di fare una guerra a fondo, la quale era sconsigliata sia dalle ragioni che vedemmo, sia dal pericolo imminente della prima grande invasione germanica, quella dei Cimbri e dei Teutoni. Fu mandato in Africa il console del 111, L. Calpurnio Bestia, accompagnato da M. Emilio Scauro, che lo seguiva come legato. Fu concluso con G. un trattato, secondo cui G. consegnava elefanti e materiale da guerra e si arrendeva ai Romani. La soddisfazione data ai Romani era effettiva, la resa era apparente, G. essendosi garantito, per mezzo di ostaggi e senza dubbio di patti segreti col console, la conservazione della libertà personale e del regno. Tenuto conto di tutto, Calpurnio e Scauro avevano provveduto a sufficienza agl'interessi e al decoro di Roma; ma i cavalieri, i quali vedevano nella Numidia un terreno adatto per la loro penetrazione commerciale e bancaria, insistevano per una guerra a fondo. G. fu chiamato a Roma sotto salvacondotto e quivi fu invitato a denunziare quei membri dell'oligarchia, a cui aveva dato denaro. La procedura fu troncata dall'intercessione d'un tribuno. Ma intanto gli avversarî di G. mettevano avanti come pretendente un principe numida rifugiatosi in Roma, Massiva. Questi fu assassinato e dell'assassinio fu accusato Bomilcare, personaggio del seguito di G. Bomilcare prese la fuga e G. fu obbligato ad allontanarsi dall'Italia. L'accordo fu annullato e la guerra ripresa. Allontanandosi da Roma G. avrebbe pronunciato il famoso apoftegma: O urbem venalem et mature perituram, si emptorem invenerit. Questo apoftegma è evidentemente falso, come una gran parte delle storielle intorno alle corruzioni operate da G. che, se anche spese del denaro, non riuscì con questo a impedire quella guerra a fondo, che molte ragioni assai più gravi del suo oro avrebbero dovuto sconsigliare ai Romani. Fu mandato in Africa il console del 110 Spurio Postumio Albino. Il quale, senza aver dato alcun serio impulso alla guerra tornò a Roma sullo scorcio dell'anno per i comizî, lasciando il comando interinale al fratello Aulo. Egli voleva concludere un accordo sul genere di quello tentato da Calpurnio Bestia. Ma, tenuto conto dell'ardore dei partigiani della guerra, non aveva creduto di poterlo concludere senza qualche previo successo militare.

Questo successo si studiò di conseguire il fratello Aulo, lasciando i quartieri d'inverno sui primi dell'anno 109 per invadere la Numidia. Per Sallustio l'operazione fallì totalmente e il trattato concluso dopo di essa fu una capitolazione. Ma anche qui il suo racconto è viziato dalla tendenza partigiana. Comunque, il trattato fu dal Senato rescisso, e un tribunale straordinario giudicò tutti quelli che si sarebbero lasciati corrompere da G. A tutto ciò non fu certamente estraneo il nuovo console del 109, Q. Cecilio Metello, detto poi Numidico, uno dei pochi membri dell'aristocrazia senatoria che desiderassero la guerra a fondo, perché fiducioso di condurla egli stesso a buon fine.

Nell'estate di quell'anno, Metello giunse in Africa accompagnato da valorosi ufficiali come P. Rutilio e C. Mario, e si occupò prima di tutto di restaurare la disciplina fra le truppe. Con G. tenne un contegno ambiguo, senza riconoscere la pace, ma senza fare atti di aperta ostilità finché, forse nella primavera dell'anno successivo 108, iniziò questa con una marcia diretta, a quanto pare, dai confini della provincia di Africa verso Ippone Regio (Bona). Sul principio, G. non oppose nessuna resistenza, volendo ostensibilmente lasciare ai Romani la responsabilità della rottura dell'accordo stretto con Postumio. Così Metello poté occupare Vaga, importante centro di rifornimento. Ora G. credette d'iniziare la resistenza, e scelse per preparare l'attacco una località opportuna lungo la strada che l'esercito romano doveva percorrere, presso il fiume Muthul, corrispondente secondo i più all'Oued (uadi) Mellag, amuente del Bagrada o, secondo un'ipotesi più attendibile, all'Oued Namoussa, che sbocca nel mare presso Bona col nome di Mafragh. La battaglia fu accanitissima; la vittoria rimase tuttavia ai Romani. Ma dopo ciò Metello non si sentì di continuare la sua marcia e si contentò per allora di scorrerie con risultato più o meno felice, tra le quali un tentativo su Zama Regia che venne respinto. Una ribellione, invece, di Vaga fu facilmente domata. Frattanto scoppiarono dissensi tra Metello e il suo legato Mario, che voleva recarsi a Roma per chiedere il consolato, e Metello solo all'ultimo si risolvette a dargli congedo. L'inverno fu occupato in trattative con Giugurta, che furono poi da G. stesso troncate, dopo che egli aveva già iniziato la consegna del proprio materiale da guerra, per non infondato timore che i Romani pensassero soprattutto a impadronirsi della sua persona. Sulla primavera del 107 Metello conquistò Thala e poi procedette fino all'importante Cirta, di cui si assicurò il possesso. Ma sopravvenne alla riscossa G., insieme con Bocco, re di Mauretania, ch'egli era riuscito ad attrarre nella sua alleanza. Metello si proponeva di affrontarli, quando la notizia dell'elezione di Mario a console pel 107 lo indusse ad abbandonare la campagna e a ritirarsi, pare, nella provincia, non senza aver iniziato quelle trattative con Bocco, che, continuate dal successore, lo indussero poi a tradire l'alleato. Nell'estate del 107 sbarcò in Africa Mario, con notevoli rinforzi di leve volontarie fatte tra i proletarî, allora per la prima volta, salvo un'eccezione durante la seconda guerra punica, arruolati su larga scala negli eserciti romani. Questo permise a Mario di condurre la guerra con minore circospezione e maggior energia, mettendo più risolutamente allo sbaraglio il suo esercito. Dopo alcune felici avvisaglie, tra le quali la presa di Capsa (107?) Mario nel 106 con marcia audacissima condusse l'esercito fino al fiume Muluccha (Mulûya), al confine tra la Numidia e il regno di Bocco, e ivi s'impadronì d'un castello in cui erano rifornimenti e tesori. Questa audace dimostrazione militare gli riuscì assai felicemente ed egli prese i quartieri d'inverno a Cirta, dopo avere vittoriosamente respinto due attacchi nemici, l'uno a un punto imprecisato della sua linea di ripiegamento, l'altro presso Cirta. L'impressione di questa marcia e dello svernamento dell'esercito in paese nemico, dovette essere grande presso i Numidi e presso Bocco, il quale si dispose alla defezione e, saputo che il senato romano era pronto a stringere un trattato d'alleanza con lui, finì col consegnare a tradimento G. a Lucio Cornelio Silla, che gli era stato inviato da Mario. Così ebbe termine la guerra giugurtina, press'a poco nel momento stesso in cui i Romani, dopo varie gravi disfatte toccate dai Cimbri ne ricevevano una gravissima presso Arausione. Disfatte da attribuire in gran parte all'assenza dei migliori soldati e dei migliori ufficiali romani, impegnati nella guerra giugurtina. Dalla quale sembra che i Romani non ricavassero guadagni territoriali; il paese occidentale fino al fiume Ampsaga fu assegnato al re Bocco, il rimanente a Gauda, figlio di Mastanabale. Mario trattenutosi in Africa per buona parte dell'anno 105, a fine di dare ordine alle cose di Numidia, trionfò poi a Roma il 10 gennaio 104, assumendo subito per la seconda volta il consolato a lui conferito, contro le consuetudini, mentre era assente, per il periodo della guerra cimbrica. G. dopo essere stato condotto in catene innanzi al carro del vincitore, fu gettato nel Tulliano e ivi poi strozzato, dopo aver resistito per sei giorni alla fame. Dei due figli, internati come prigionieri di stato in città italiane, Oxinte sopravviveva al tempo della guerra sociale, quando gl'insorti italici si giovarono del suo prestigio per provocare defezioni in un corpo ausiliario di Numidi che era al servizio dei Romani.

Nell'insieme può dirsi che G., pur non mancando dei difetti comuni ai barbari di tutti i tempi, dimostrò notevoli doti di sagacia e di valore. Appunto le alte sue doti personali spiegano il suo cozzo contro l'imperialismo romano e spiegano a un tempo come, nonostante la smisurata superiorità delle forze, i Romani tardassero tanto a vincerlo. L'importanza storica della guerra giugurtina, che si può dire la guerra per l'indipendenza della Numidia, più che nella riaffermazione del predominio di Roma, sta peraltro nella trasformazione profonda degli eserciti romani, a cui essa, in uno con la guerra cimbrica, diede occasione. Trasformazione i cui effetti si videro pochi anni dopo nelle guerre civili.

Fonti: Fonte principalissima è il Bellum Iugurthinum di Sallustio, il quale si riduce più che altro a un libello politico rivolto contro l'oligarchia senatoria. Sebbene per la parte militare Sallustio disponesse di fonti assai pregevoli, la sua trascuratezza nel riferire le operazioni e forse i contrasti, da lui non bene riconosciuti né appianati, tra le fonti, rendono necessaria una severa opera di critica. Scarsi cenni nei frammenti di Diodoro, XXXIV, 35, 39; in Plutarco, Mario, 7-12; in Cassio Dione, fr. 89, e nelle fonti derivate da Livio (Perioche, Floro, Orosio) poco ci aiutano a correggere la tradizione sallustiana.

Bibl.: A. H. J. Greenidge, A History of Rome, I, Londra 1907, p. 315 segg.; É. Gsell, Hist. anc. de l'Afrique du nord, VII, Parigi 1928; M. Holroyd, in Journ. of Roman Studies, XVIII (1928), p. i segg.; M. A. Levi, La battaglia del Muthul, in Atene e Roma, n. s., VI (1923), p. 188 segg.; id., Chi ha vinto la guerra giugurtina?, in Atti del II Congr. di studi rom., Roma 1931; G. De Sanctis, Quinto Cecilio Metello Numidico, in Atti, cit.; id., in Probl. di st. ant., Bari 1932, cap. 8.

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