DI MARCO, Giulia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 40 (1991)

DI MARCO, Giulia

Jean-Michel Sallmann

Nacque verso il 1574-1575 a Sepino nella contea del Molise (ora prov. di Campobasso). La sua estrazione sociale era molto modesta: il padre era un bracciante, la madre figlia di un bracciante e di una schiava turca. Alla morte del padre, fu sistemata come domestica presso un mercante di Campobasso; poi, dopo la morte di questo, ne seguì la sorella che si trasferì a Napoli. Pare che qui si fosse innamorata di un servitore e ne avesse avuto un figlio abbandonato all'ospedale della Ss. Annunziata. Alla morte della sua padrona ne ereditò tutti i beni. Rivestì allora l'abito di terziaria francescana e la sua pietà le fece acquistare rapidamente una reputazione di santità.

Prima di tracciare la vita e l'avventura spirituale di questa donna che fu sospinta nell'obbrobrio generale dopo avere conosciuto il più clamoroso successo, conviene interrogarsi sulla qualità delle fonti di cui disponiamo. Le nostre informazioni derivano unicamente dalla Istoria di suor G. d. M...., un breve resoconto compilato da un teatino rimasto ignoto. Ma i teatini di Napoli furono i nemici più accaniti della D., della quale provocarono la disgrazia. La Istoria descrive la D. come una ninfornane che scimmiottava la santità per meglio assecondare il suo vizio, la congregazione di laici che la contornava come un lupanare in cui i suoi fedeli erotomani e incestuosi si abbandonavano ai piaceri e alle inclinazioni più perverse. È sorprendente che gli storici abbiano preso per oro colato un tale documento. Per B. Croce, infatti, quella della D. fu una storia di eresia nella quale "si tratta unicamente di malsanie, che trovavano, purtroppo, nell'ambiente cattolico condizioni propizie". F. Nicolini dal suo canto negò alla D. qualsiasi posto nella storia del prequietismo napoletano, non perché il prequietismo è una nozione discutibile, ma perché vedeva nel suo caso solo "spudorata ciarlateneria". L'erudito napoletano arrivò al punto di giustificare la condanna alla prigione perpetua che colpì questa "vecchia puttana" (nel testo latino scortum vetus) e i suoi adepti. Rispetto dell'ordffle costituito, misoginia e sessuofobia impedirono ogni controllo critico del documento che doveva essere studiato invece con la massima cautela e le maggiori riserve.

La D. si era già vista riconoscere una solida fama di santità quando nel 1605 prese come direttore di coscienza il p. Aniello Arciero, della Congregazione dei ministri degli infermi. Alla coppia si aggiunse presto Giuseppe de Vicariis, un gentiluomo napoletano caduto in povertà, dottore di leggi e brillante spirito secondo i contemporanei. A sentire l'autore della Istoria, egli divenne l'ideologo del gruppo, "direttore et consigliere" della Di Marco. Questa a sua volta, giusta l'esempio di Orsola Benincasa, basò la sua santità sui poteri oracolari, si fece chiamare madre e visse circondata da figli e figlie spirituali che organizzò in una piccola congregazione. Nel 1607 il tribunale napoletano del S. Offizio intervenne per la prima volta con una inchiesta per controllare soprattutto la fama di santità che la D. rivendicava ormai pubblicàmente. I discepoli furono risparmiati, ma Aniello Arciero fu chiamato a Roma. Riuscì a giustificare la sua condotta davanti al S. Offizio romano, ma fu tuttavia privato della confessione e rinchiuso nel convento della Maddalena di Roma con la proibizione espressa di mai più ritornare a Napoli. Per mettere fine allo scandalo del culto non autorizzato di una santa, la D. fu rinchiusa anche lei nel monastero napoletano di S. Antonio di Padova, di osservanza francescana. Le fu assegnato un nuovo direttore di coscienza, il padre Ludovico Antinoro, un teatino di S.Paolo Maggiore, consultore del tribunale diocesano.

Questo intervento repressivo non impedì alla fama della D. di aumentare nell'opinione pubblica. Lo stesso confessore dovette riconoscere che la sua penitente intratteneva una vera unione mistica con Dio, che i suoi propositi erano di una grande spiritualità e che la sua fama di santità non era usurpata. Per separare definitivamente la madre dai suoi discepoli e calmare l'agitazione che il suo culto suscitava a Napoli, il vescovo di Caserta e commissario del S. Offizio, Deodato Gentile, fece trasferire la D. in un monastero femminile di Cerreto Sannita. Ma non per lungo tempo. Nel 1610, quando il vescovo di Nocera, Stefano de Vicariis, fu nominato commissario dell'Inquisizione, Giuseppe de Vicariis non ebbe difficoltà a far valere i suoi rapporti di parentela, per ottenere il favore di un trasferimento della D. a Nocera, città assai più vicina a Napoli.

La persecuzione subita dalla D. ottenne comunque solo il risultato di accrescere la sua fama di santità. "Era tanto divulgata la sua santità che quando si partì da Nocera furono in questa città sonate le campane e tutto il popolo se l'ingenocchiava per pigliare la sua benedizione, conforme si fa al papa in Roma". Con l'autorizzazione della congregazione romana del S. Offizio, le fu infine permesso di ritornare a Napoli, cosa che fece "con tanta gloria e con tanto fausto che non si parlava d'altra cosa per tutta la città con dire che quella santa era stata calunniata, e che il S. Offizio l'aveva dichiarata per santa, e che l'unione attuale perpetua con Dio già s'era chiarita per vera". Sembravano ripetersi gli avvenimenti del 1581, quando Orsola Benincasa era rientrata trionfalmente a Napoli, dopo essere stata scagionata dall'accusa di stregoneria dal tribunale romano del S. Offizio. L'entusiasmo per la D. raggiunse allora il suo culmine. "I primi signori e titolati della città facevano a gara per averla in casa loro e trattarvi". Si muoveva in città solo in carrozza "in compagnia di molte signore e con seguito di gran popolo". Reclutava ormai i suoi fedeli tra l'aristocrazia napoletana, fra i titolari delle cariche pubbliche più alte, e il suo sostegno più sicuro divenne Caterina de Sandoval, contessa di Lemos e viceregina di Napoli.

Nel 1614 la D. era al culmine della sua popolarità, quando i teatini decisero di stroncarla. Essi non potevano sopportare che la sua gloria eclissasse quella della loro protetta Orsola Benincasa. F. M. Maggi, biografo di quest'uffinia, descrive un incontro che si sarebbe svolto fra le due donne nel monastero di S. Maria della Concezione. probabilmente proprio nel giro di quegli anni in cui la D. si sentiva minacciata. La Benincasa sarebbe uscita dall'incontro convinta dell'origine diabolica della santità della sua rivale. Davanti al pericolo rappresentato dall'iniziativa dei teatini, sostenuta dall'Inquisizione romana e dalla sua longa manus napoletana, il nunzio apostolico, la D. e il suo gruppo si misero sotto la protezione dei gesuiti. I teatini fecero pressioni su certi discepoli della D. per ottenere rivelazioni sensazionali. Trovarono però difficoltà, perché il gruppo era fortemente cementato e devoto alla Di Marco. Il 31 luglio 1614 quattro preti "pentiti" la denunciarono davanti al tribunale napoletano del S. Offizio.

Il declino della santa divenne la posta di gruppi che rivaleggiavano per il potere: in seno al clero da una parte, tra i gesuiti e i teatini di Napoli, nell'apparato dello Stato dall'altra parte, tra la corte di Roma e quella vicereale di Napoli. I partigiani della D. non mancavano di risorse. Avevano complicità nel seno stesso del tribunale del S. Offizio napoletano. Poterono così penetrare nel segreto dell'istruttoria, scoprire l'identità dei testimoni a carico ed esercitare rappresaglie contro di loro. Avevano anche appoggi a Roma e la congregazione romana del S. Offizio diede al suo tribunale napoletano il consiglio "che il negozio camini con quella segretezza e circospezione che conviene". A Napoli, una parte dell'apparato statale, i tribunali e il viceré erano dei loro. Se il commissario dell' Inquisizione, Fabio Maranta, riuscì il 24 ag. 1614 a fare imprigionare Giuseppe de Vicariis nelle carceri arcivescovili, nulla poté contro la D. "per le continue guardie che teneva". Il viceré ottenne anche che il Maranta fosse richiamato a Roma, avocò il processo davanti ai tribunali reali e minacciò i teatini di espulsione dal Regno di Napoli. Fu allora che il nunzio apostolico prese in mano la faccenda. Fece anzitutto trasferire il de Vicariis nelle prigioni della nunziatura per farlo poi trasportare a Roma con una nave. Chiese quindi all'Inquisizione romana di arrestare di nuovo Aniello Arciero ed infine, in una notte del settembre del 1614, fece catturare da alcuni scherani la D. e la mandò sotto buona scorta e a marce forzate a Roma. Questo colpo di mano costituì un vero affronto per le istituzioni del Regno, ma, a quanto pare, in precedenza erano state esercitate sui protettori della D. pressioni fortissime che li dissuasero dall'intervenire. I giudici ecclesiastici avevano ottenuto dai "pentiti" confessioni compromettenti e lo scandalo rischiava di coinvolgere tutta l'aristocrazia napoletana e la viceregina stessa. Le ultime resistenze vennero meno quando a Roma i tre prigionieri ammisero i crimini abominevoli dei quali erano accusati. La D., il de Vicariis e l'Arciero furono giudicati colpevoli di eresia e condannati alla prigione perpetua. Il 12 luglio 1615 abiurarono nella chiesa romana di S. Maria sopra Minerva.

Per capire il caso della D. e il posto.che occupa nella storia religiosa del suo tempo, conviene distinguere due livelli: la fama pubblica di santità e l'eresia di cui fu accusata. Senza essere banale, la santità della D. non era isolata nel contesto religioso della fine del sec. XVI. La Controriforma provocò a Napoli uno choc culturale importante, attizzato dalla crisi economica e dalle tensioni sociali. Le attese profetiche e messianiche trovarono espressione in una forma di santità femminile del quale fu prototipo Orsola Benincasa, ma il cui modello restava Caterina da Siena. Con qualche decennio di ritardo, Napoli conobbe un fenomeno analogo a quello delle "sante vive", così frequente nell'Italia settentrionale all'inizio del sec. XVI. Ma la Chiesa tridentina non accettava più una santità espressa da donne laiche, semplici terziarie che sfuggivano al controllo dell'autorità ecclesiastica. Esse ebbero tutte grossi fastidi, compresa Orsola Benincasa, che fu giudicata da un tribunale inquisitoriale nel 1582. La prima inchiesta alla quale fu sottoposta la D. nel 1607, mirava a mettere fine allo scandalo di una fama di santità chiassosa e quindi sospetta. Secondo la dottrina della discretio spiritum, il tribunale del S. Offizio voleva sapere se la santità della D. era ispirata da Dio o dal diavolo, se era reale o finta.

Il processo del 1614-15 è di tutt'altro tenore. Esso tendeva ad accreditare la tesi che la D. e i suoi discepoli avessero sconfinato in pratiche ereticali. Il resoconto della faccenda è assai pesante per i tre accusati principali, come il testo stesso delle loro abiure. Prima del 1605, la D. beneficiava di quella fama di santità che era attribuita di frequente alle "vizzocche" pie e devote. Fu il suo confessore, Aniello Arciero, che le rivelò che possedeva "un eminente dono di castità" e che decise di fargliene produrre la prova. Secondo i termini della sua abiura, egli si mise dunque a "toccare quel suo corpo tutto ignudo, e trattare con ella in diversi modi varie azioni carnali, e mi parve la prima volta che lei fosse insensibile et avesse comunicato a me quella sua insensibilità, perché non sentivo diletto carnale, né mi veniva polluzione". Vennero quindi gli accoppiamenti mistici, nel corso dei quali l'Arciero avvertiva "un sollevamento di ment'a Dio particolare con un affettuoso ardore", e all'emissione del seme egli esclamava "Gesù mio, Gesù mio". La D. riconobbe queste pratiche sessuali che le valsero cinque o sei gravidanze interrotte con l'aborto. Anche se le relazioni sessuali tra un confessore e la sua pemtente erano frequenti nel sec. XVII, a giudicare da quanto risulta dai processi criminali, nel caso della D. e dell'Arciero c'era anche ricerca di unione mistica con Dio, quindi volontà di trasmettere i doni soprannaturali della santa ai suoi discepoli. In queste condizioni il coito non provocava alcuna macchia e non c'era bisogno di confessarlo prima di ricevere l'eucaristia o di celebrare la messa. "Assicurato da suor Giulia - così si esprime il de Vicariis - che quelli atti carnali non erano peccati, anzi nuove virtù infuse dallo Spirito Santo, levai nell'anima mia ogni tiinore e continuai sempre poi in detti atti lascivi..., e mentre passavano fra di noi suoi figli quell'atti disonesti, proferivo concetti spirituali". L'orgasmo veniva elevato al livello dell'estasi mistica. L'Arciero confessò ugualmente che dopo la separazione dalla sua penitente nel 1607, proseguì le sue esperienze mistiche mediante relazioni omosessuali con un padre del convento romano della Maddalena dove era stato rinchiuso.

La D. possedeva anche il dono della profezia, ma l'Arciero la smentì. Egli otteneva in confessione le confidenze dei fedeli che poi raccontava alla D. per permetterle di brillare con loro. Quando fu separata dal suo direttore di coscienza, essa fece ricorso ai servigi di uno spirito familiare - un demone - che costringeva a stare in un anello. Se l'Arciero elaborò una prima teologia sulle qualità divine della sua penitente, toccò al de Vicariis di raggruppare intorno alla D. una congregazione segreta di figli e figlie spirituali. L'Arciero aveva già chiesto alla D. di fare partecipare altre persone a "questo prezioso dono communicatoli da Dio", ma essa aveva rifiutato temendo "che non si desse credenza alle sue parole e sarebbe tenuta per pazza e castigata da' superiori". Ma presto un gruppo di fedeli fu invitato a partecipare a riunioni segrete. Il de Vicariis li faceva inginocchiare davanti al corpo nudo della D., "alle parte impudiche di Suor Giulia baciandole e chiamandole porte aperte del Paradiso, e [dicendo] che li cieli s'aprivano per vederle". I discepoli si distribuivano quindi in numero uguale di uomini e donne, spegnevano le candele, prendevano il partner che il caso attribuiva loro e si accoppiavano. Il segreto di queste conventicole fu custodito così bene che la D. poté condurre questa doppia vita di santa in pubblico e di eretica in privato.

Ma tutto ciò lascia pensare che il processo fu solo una montatura. Non si può tenere conto della concordanza delle testimonianze degli accusati che confermavano i delitti dei quali erano incolpati. La storia recente dovrebbe indurci a molta prudenza quando si tratta della veridicità di certe confessioni. I tribunali dell'Inquisizione erano capaci, quando le circostanze lo esigevano, di fare confessare qualunque cosa, usando abilmente pressioni psicologiche e costrizioni fisiche. Il fatto è che i delitti confessati dalla D. e dai suoi amici rientrano in un modello stereotipato che la Chiesa ha utilizzato, a partire dall'antichità, per reprimere le sette ereticali o chiunque altro le desse fastidio. In questo modello si trovano pari pari l'adorazione delle parti genitali della pretessa, il segreto delle conventicole, la promiscuità omosessuale e incestuosa e, in questi tempi di demonologia, il patto con il diavolo. Per la completezza mancava solo il cannibalismo rituale, ma questa accusa, frequente nel Medioevo, non era più credibile all'inizio del sec. XVII. È difficile ammettere che l'alta aristocrazia napoletana e la viceregina stessa potessero abbandonarsi a pratiche del genere senza che lo scandalo non fosse scoppiato in precedenza. I fedeli della D. mostrarono invece una grande tenacia nell'opporsi alle calunnie e solo quando l'Inquisizione romana riuscì ad estorcere delle confessioni agli accusati, capirono che era ormai inutile resistere ad una tale onnipotente macchina giudiziaria e cedettero il campo.

La prima ragione che indusse la gerarchia cattolica ad eliminare la D. è di ordine generale. Nel corso del sec. XVI la Chiesa tollerò sempre meno le sante vive, perché sfuggivano al controllo dell'apparato. A Napoli, le autorità ecclesiastiche avevano accettato Orsola Benincasa, ma con molta reticenza e dopo che essa ebbe raggiunto la dignità ecclesiastica. Una generazione più tardi, rifiutarono la Di Marco. Il suo gruppo si era messo volontariamente ai margini della istituzione, affiliandosi all'Ordine dei gesuiti solo all'ultimo momento, sotto la pressione degli avvenimenti. Si capiscono allora l'astio dell'Inquisizione e la grossolanità del procedimento usato: la caduta della D. doveva essere tanto brutale e spettacolare quanto insolente era stato il suo successo. La seconda ragione è di ordine puramente locale. I teatini non potevano sopportare una concorrente di Orsola Benincasa, loro protetta. La D. stessa "credeva che [i teatini] avrebbero fatto ogni sforzo per precipitarla, né mai s'arrischiò a farseli amici e benevoli, perché li sapeva di genio rigido e che molta protezzione aveano d'altra donna di vera bontà di vita chiamata Ursola Benincasa, la quale quantunque santa non avea però il concetto presso la gente che avea essa Giulia". Dopo la condanna della D., uno dei suoi fedeli fece questo rimprovero all'autore anonimo della Istoria: "Che vuol dire, Padri, che quando confessavate Suor Giulia per anni tre continui era da voi e dall'Antinoro suo confessore stimata per santa, ed ora per i pochi mesi che sta sotto la direzione de' Giesuiti, la condannate per una Diavola?".

La D. morì a Roma prigioniera nel Castel Sant'Angelo, ma allo stato attuale delle nostre conoscenze è impossibile precisare la data.

Fonti e Bibl.: La fonte principale è l'Istoria di suor G. di M. e della falsa dottrina insegnata da lei, dalp. Aniello Arciero e da Giuseppe de Vicariis, col reassumo del processo contra di essi, e con la di loro abiurazione seguita in Roma a 12 luglio 1615. Col sommario d'alcune altre eresie che servirà per proemio a quelle di Suor Giulia: nella Bibl. naz. di Napoli esistono varie versioni di questo manoscritto che presentano varianti minime. Sono stati utilizzati i manoscritti XIV-E-58 (85 carte in 8°) e XIV-X-52. Cfr. inoltre: F. M. Maggi, Vita della venerabil madre Orsola Benincasa, Roma 1655, pp. 400-04; Diurnali di Scipione Guerra, a cura di G. De Montemayor, Napoli 1891, pp. 90 s.; L. Amabile, Il Santo Officio della Inquisizione a Napoli, Città di Castello 1892, II, pp. 23 s.; V. Spampanato, Sulla soglia del Seicento. Studi su Bruno, Campanella ed altri, Milano-Roma-Napoli 1926, pp. 211 s.; B. Croce, Aneddoti di varia letter., Bari 1953, II, pp. 134 s.; F. Nicolini, Su Miguel de Molinos e taluni quietisti ital.: notizie, appunti, documenti, in Boll. d. Archivio storico del Banco di Napoli, XIII (1959), p. 234; J. M. Sallmann, La sainteté mystique féminine à Naples au tournant des XVIe et XVIIe siècles, in Culto dei santi istituzioni e classi sociali in età preindustriale, a cura di S. Boesch Gajano - L. Sebastiani, L'Aquila-Roma 1984, pp. 681-702.

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