GONZAGA, Giulia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 57 (2001)

GONZAGA, Giulia

Guido Dall'Olio

Nacque probabilmente nel 1513 a Gazzuolo, presso Mantova, da Francesca Fieschi e Ludovico, figlio di Gianfrancesco, duca di Sabbioneta. Ebbe numerosi fratelli e sorelle: Gianfrancesco, Luigi detto Rodomonte, celebre uomo d'armi; Caterina ed Elisabetta, suore nel monastero di S. Vincenzo di Mantova, Paola, Eleonora e Ippolita (quest'ultima andata sposa a Galeotto Pico della Mirandola).

La sua educazione dovette essere piuttosto accurata. La corrispondenza che tenne con gli uomini di cultura del suo tempo non deve però indurre a sopravvalutare il suo grado di istruzione: l'italiano delle sue lettere, così come la sua grafia, appare assai poco fluido e non di rado scorretto; con ogni probabilità, inoltre, non conosceva il latino.

Il 25 luglio 1526, appena tredicenne, venne data in moglie a Vespasiano Colonna, figlio del famoso condottiero Prospero, duca di Traietto e conte di Fondi, con una dote di 12.000 ducati. Vespasiano aveva allora circa quarant'anni, era vedovo di Beatrice Appiani (della famiglia dei signori di Piombino) e aveva una figlia, Isabella, probabilmente coetanea della G., se non addirittura più anziana. Dopo il matrimonio, la G. risiedette nel castello di Civita Lavinia (oggi Lanuvio), sui colli Albani. Mentre le orde dei lanzichenecchi saccheggiavano Roma e i dintorni, nel maggio del 1527, la giovane sposa - certamente in accordo con il marito, ma rivelando ugualmente un notevole spirito d'iniziativa - cercò di limitare i danni che i vassalli dei Colonna, alleati dell'imperatore, arrecavano alle campagne.

Vespasiano Colonna morì il 13 marzo 1528, dopo meno di due anni di matrimonio. Nel testamento, redatto il giorno precedente, lasciò la G. erede di tutto il suo patrimonio e dei suoi titoli, a condizione che non si risposasse. Alla G. venne anche affidata la tutela della figliastra, con l'incarico di provvedere alla sua sistemazione. Isabella, che il padre aveva destinato al matrimonio con Ippolito de' Medici, venne poi data in sposa a Luigi Gonzaga, fratello di Giulia.

Dal 1528 alla fine del 1535 la G. risiedette nella propria contea di Fondi. Sposa a tredici anni, vedova a quindici, già celebre per la sua straordinaria bellezza, la G. venne corteggiata assiduamente da numerosi pretendenti e immortalata nelle rime di poeti, da Bernardo Tasso a Ludovico Ariosto, che cantò le sue lodi nell'Orlando furioso (XLVI, 8). Più di ogni altro, si invaghì di lei l'uomo che avrebbe dovuto essere il marito della sua figliastra, Ippolito de' Medici, nipote di papa Clemente VII. La passione di Ippolito venne fortemente osteggiata dalla sua famiglia, che lo aveva destinato alla carriera ecclesiastica; si disse anzi che la morte del giovane cardinale, avvenuta nell'agosto del 1535, fosse stata causata da avvelenamento proprio per tale motivo.

La fama della bellezza della G. arrivò anche al di là dei mari, tanto che il corsaro Khair ad-dīn detto Barbarossa, reggente di Algeri, sbarcato vicino a Gaeta nell'agosto del 1534, cercò invano di rapire la giovane duchessa per offrirla al sultano turco Solimano I. Fondi fu saccheggiata e la stessa G., a quanto pare, riuscì a fuggire di notte solo grazie alla prontezza di un servitore. La notizia della scorreria del Barbarossa, diffusasi immediatamente, contribuì ulteriormente a circondare la G. di un alone mitico; per l'occasione, Francesco Maria Molza compose l'egloga La ninfa fuggitiva.

Tra il giugno e il settembre 1535 la G. incontrò per la prima volta il protonotario apostolico Pietro Carnesecchi, con il quale sarebbe rimasta in contatto, diretto o epistolare, per tutta la vita e avrebbe condiviso quelle esperienze religiose che finirono per portare il Carnesecchi al patibolo e resero la stessa G. fortemente sospetta all'Inquisizione. In quell'estate, del resto, la G. conobbe anche l'eretico spagnolo Juan de Valdés, che, dopo averle fatto visita nel castello di Fondi, scrisse al cardinale Ercole Gonzaga una lettera colma di elogi per la duchessa (18 sett. 1535).

Nella sua lettera il Valdés, in quel tempo al servizio dell'imperatore Carlo V, prometteva anche di prestare il suo aiuto alla G. nella causa che la opponeva alla figliastra Isabella, relativa all'eredità di Vespasiano Colonna. Forse proprio per seguire meglio i suoi interessi, nel dicembre del 1535 la G. si trasferì a Napoli, dove sarebbe rimasta per il resto della sua vita (salvo brevi interruzioni, ella risiedette sempre nel monastero di S. Francesco alle Monache, vicino S. Chiara). Qui, ancor più che a Fondi, la G. si trovò immediatamente al centro del mondo della cultura e delle lettere. Suoi frequentatori e ammiratori furono, oltre al Molza e a Gandolfo Porrino (che fu suo segretario), Annibal Caro, Claudio Tolomei, Luigi Tansillo, Camillo Capilupi.

Nel 1537 la lite giudiziaria con Isabella, che era stata commessa al viceré don Pedro de Toledo, venne decisa a favore della G., alla quale Isabella dovette pagare una rendita di 2500 ducati l'anno. Tre anni dopo, alla morte del padre Ludovico, la G. ottenne anche la tutela di Vespasiano Gonzaga, figlio di Isabella.

Ma, nel frattempo, la G. era passata attraverso l'esperienza che doveva cambiare il corso della sua vita. Durante la quaresima del 1536, la giovane duchessa fu profondamente scossa dalla predicazione del cappuccino Bernardino Ochino. Caduta in una profonda crisi religiosa, trovò pace soltanto nella conversazione assidua con Juan de Valdés, finendo con il diventare uno dei più importanti membri del gruppo che lo spagnolo aveva riunito attorno a sé a Napoli, che comprendeva, tra gli altri, Marcantonio Flaminio, il Carnesecchi (introdotto nel circolo proprio dalla G.), Mario Galeota, Pietro Antonio Di Capua. Fu la conversione della G. che ispirò al Valdés l'Alfabeto cristiano, dialogo religioso in cui non è difficile riconoscere nei due interlocutori appunto la nobildonna mantovana e l'esule spagnolo.

L'Alfabeto cristiano è una delle espressioni più significative della spiritualità valdesiana. Tra le righe degli insegnamenti che il carismatico Juan impartiva con grazia e finezza alla G., è possibile intravedere una religiosità che privilegiava a tal punto la dimensione interiore rispetto alle apparenze da rendere pressoché indifferenti tutte le pratiche considerate fondamentali dal cattolicesimo romano. Il cristianesimo di Valdés, inoltre, era incentrato esclusivamente sulla figura di Gesù e sul suo ruolo salvifico, a scapito di ogni altra forma di devozione. Per quanto nell'Alfabeto - come del resto in tutti gli altri scritti valdesiani finora noti - non vi sia alcuna traccia di polemica nei confronti del cattolicesimo, il messaggio religioso dello spagnolo apparve di lì a poco alle autorità inquisitoriali come una pericolosa eresia, in parte coincidente con il luteranesimo (soprattutto per quel che riguardava la dottrina della giustificazione per sola fede).

Tra il 1538 e il 1540 la G., insieme con gli altri membri del cenacolo valdesiano, fu impegnata nella diffusione delle opere del maestro. Esse circolarono dapprima in forma manoscritta; la G. stessa aveva fatto pervenire alcuni testi a Mario Galeota, che li aveva fatti ricopiare. Ma la propaganda valdesiana - che già allora, a causa dei sospetti delle autorità ecclesiastiche, doveva avvenire in forma semiclandestina - si avvalse anche della stampa. Tra i testi che la G. aveva affidato al Galeota vi era anche l'Alfabeto cristiano; data l'impossibilità di pubblicarlo a Napoli, il manoscritto fu consegnato al veneziano Marcantonio Magno (uomo di fiducia della G. anche negli affari temporali), che lo tradusse e lo fece stampare appunto a Venezia, dove apparve, anonimo, nel 1545.

Dopo la morte del Valdés (nel luglio 1541), per esplicita volontà dell'esule spagnolo la G. ereditò tutti i suoi manoscritti. In questo periodo ella mantenne i contatti con il gruppo valdesiano di Viterbo, la cosiddetta Ecclesia Viterbiensis riunita attorno al cardinale inglese Reginald Pole, i cui principali esponenti erano Marcantonio Flaminio e Pietro Carnesecchi. L'8 dic. 1541, per esempio, Vittoria Colonna ringraziava la G. per aver inviato a Viterbo una copia di un commentario di Valdés sulle epistole paoline. All'inizio dell'anno successivo il Flaminio, che era allora impegnato nella revisione del celebre trattatello Del beneficio di Cristo, trasmetteva alla G., attraverso il cappellano del Pole Apollonio Merenda, alcuni suoi scritti religiosi. Nove anni dopo, interrogato nel S. Uffizio romano, il Merenda avrebbe ricordato la sua visita alla G., durante la quale la duchessa aveva mostrato chiaramente non solo di condividere la dottrina della giustificazione per sola fede, ma anche di curarsi poco delle conseguenze che si potevano trarre da quel principio, assai pericolose per il cattolicesimo.

Nel corso degli anni Quaranta, mentre la G. si occupava dell'educazione del nipote Vespasiano e seguiva per conto di lui gli affari del ducato di Sabbioneta, il clima politico-religioso divenne nettamente sfavorevole per gli spirituali e i valdesiani. I segni del cambiamento furono diversi: la nascita del S. Uffizio romano, la fuga di Bernardino Ochino in terra riformata (1542), poi i decreti tridentini sulla giustificazione e il primo processo inquisitoriale contro Pietro Carnesecchi (1546). Uscito relativamente indenne da quella vicenda, il protonotario fiorentino si recò a far visita alla G. a Napoli tra l'estate e l'autunno del 1546, prima di rifugiarsi a Bagnorea (l'odierna Bagnoregio) presso Reginald Pole, il quale a sua volta si era allontanato dal concilio di Trento per non dover sottoscrivere il decreto che condannava definitivamente la dottrina della giustificazione per sola fede. Proprio in questi mesi cominciava tra il Carnesecchi e la G. quella intensa corrispondenza epistolare (in parte cifrata, per ragioni di prudenza) che le autorità inquisitoriali avrebbero poi massicciamente utilizzato come prova a carico dello stesso Carnesecchi.

Ma ben presto i sospetti degli inquisitori, Gian Pietro Carafa in testa, cominciarono a estendersi a tutti i discepoli di Juan de Valdés, tra cui anche la Gonzaga. Verso la fine del 1552, cioè nello stesso periodo in cui l'Inquisizione romana andava raccogliendo indizi, nel più assoluto riserbo, contro i cardinali Giovanni Morone e Reginald Pole, il vicario arcivescovile di Napoli Scipione Rebiba interrogava testimoni sul conto della Gonzaga. L'agente dei Gonzaga a Napoli, Girolamo Morra, riferiva che l'intransigente Rebiba - destinato a diventare di lì a poco anche delegato della congregazione del S. Uffizio - "ad ogne sorte di gente che piglia, dimanda de la detta signora donna Iulia, come si fosse alcuna predicatrice o che conversasse secretamente con ogne qualità di persone" (lettera a Ferrante Gonzaga, Napoli, 11 dic. 1552, in Arch. di Stato di Mantova, Arch. Gonzaga, b. 1922, c. 585r). Un'altra delle accuse a suo carico, come riferisce la stessa G. in una lettera al cardinale Ercole Gonzaga, era quella di aver diffuso gli scritti di Juan de Valdés, inviandoli tra l'altro al Flaminio (ormai defunto da due anni). A favore della G. si mobilitarono i membri della sua potente famiglia, in particolare il già menzionato cardinale Ercole e il cugino Ferrante; a quanto pare, il procedimento non andò oltre la fase istruttoria, che si chiuse il 9 febbr. 1554.

Da quel momento in poi, la vita della G. fu piuttosto povera di avvenimenti; le sue aspirazioni, e soprattutto le ansie e i timori con cui seguiva attentamente l'evolversi della situazione religiosa italiana ed europea si riflettono interamente nel carteggio con il Carnesecchi e, appena più velatamente, nelle lettere ai suoi familiari. In particolare, il pontificato di Paolo IV Carafa (1555-59), deciso a far processare tutti gli spirituali e i valdesiani senza alcun riguardo per rango o condizione sociale, fu un vero incubo per la Gonzaga. Il 17 giugno 1557, informata da un terrorizzato Carnesecchi della carcerazione del Morone e di altri prelati e della convocazione al S. Uffizio del Pole, riferì al cugino Ferrante le voci che correvano in quei giorni: "Dicono ch'el papa chiamarà a poco a poco gli altri cardinali et che vorà serare il concilio de Trento et far un sucesor suo, dico eligerlo da mo'" (Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, V, p. 265). Alla fine di quello stesso anno fu il Carnesecchi a essere convocato a Roma. La G., in quell'occasione, cercò di aiutare il suo amico attraverso Ferrante Gonzaga, ma, oltre che il protonotario fiorentino, doveva difendere se stessa, tanto chiaro ed evidente era il fatto che i procedimenti inquisitoriali in corso avrebbero prima o poi finito con il coinvolgerla. Consigliata da più parti di fuggire in terra riformata, la G. rifiutò sempre di compiere quel gesto di rottura anche esteriore con la Chiesa romana, che oltretutto avrebbe peggiorato la situazione dei suoi amici.

Alla fine del 1558 un grave lutto colpì gli ex discepoli di Valdés: il 18 novembre si spense infatti, in Inghilterra, Reginald Pole. Solo la morte aveva sottratto il cardinale inglese a una sorte del tutto simile a quella di Giovanni Morone; la G. ne fu addoloratissima, ma non poté fare a meno di disapprovare la professione di obbedienza al papa e alla Chiesa romana che, come le riferì il Carnesecchi, il Pole aveva pronunciato sul letto di morte. All'inizio dell'anno seguente la G. intervenne più volte sull'amico fiorentino, dissuadendolo da una fuga fuori d'Italia che egli aveva già progettato.

La morte di Paolo IV nell'estate del 1559 venne salutata come una liberazione da tutti coloro (ed erano molti) che erano stati coinvolti in procedimenti inquisitoriali negli anni precedenti. Al Carnesecchi, che sperava ingenuamente addirittura nell'elezione di Giovanni Morone, ormai completamente riabilitato, la G. rispose con cautela e lucidità, facendogli presente che l'illustre prelato non aveva dato prova di grande coraggio quando, nel 1555, aveva acconsentito all'ascesa del Carafa. Dopo un lungo conclave, venne invece eletto Giovanni Angelo Medici, che prese il nome di Pio IV. Il protonotario fiorentino, già condannato a morte in contumacia da Paolo IV, sperava in una rapida riabilitazione, in modo da potersi recare al più presto a Napoli a far visita alla G., ma ancora una volta si sbagliava. Il nuovo processo durò infatti un anno intero, dal giugno del 1560 fino alla sentenza assolutoria del 4 giugno 1561. Durante tutto questo periodo, il Carnesecchi tenne costantemente informata la G. sulle sue vicende processuali. Nel corso della fase difensiva, inoltre (lettera del 24 luglio 1560), chiese all'amica di convincere diversi napoletani a testimoniare in suo favore, richiesta prontamente esaudita dalla Gonzaga.

Dopo l'assoluzione, dall'autunno 1561 fino all'estate seguente il Carnesecchi venne ospitato a Napoli dalla G., che per l'occasione si trasferì dal monastero di S. Francesco al borgo delle Vergini. Più realista e lungimirante del suo amico, di lì a poco la G. si interessò vivamente alla riapertura del concilio di Trento, sul quale venne costantemente informata da Girolamo Seripando, da poco nominato cardinale e da lei considerato l'erede spirituale di Reginald Pole.

La G. morì a Napoli il 19 apr. 1566.

Nel suo testamento aveva lasciato erede universale il nipote Vespasiano e aveva chiesto di essere sepolta nel monastero napoletano in cui aveva abitato per tanti anni. Quest'ultimo desiderio, con ogni probabilità, non venne esaudito a causa dei sospetti di eresia che gravavano su di lei. Da tre mesi era papa Michele Ghislieri (Pio V), l'inquisitore che cinque anni prima aveva firmato l'assoluzione di Pietro Carnesecchi soltanto per obbedire alla volontà di Pio IV. Appena avuta la notizia della morte della G., il papa richiese al viceré di Napoli il sequestro delle sue carte e la loro consegna a Roma. Dopo averle esaminate, Pio V disse che, se le avesse viste mentre la G. era ancora in vita, "l'havrebbe abrusciata viva" (Amabile, I, p. 182 n.).

Dato che la G. era una delle donne maggiormente celebrate del tempo per la sua bellezza, è comprensibile che intorno ai suoi ritratti siano sorte dicerie e tradizioni, in gran parte spurie. A quanto pare, la G. fu infatti piuttosto restia a farsi ritrarre, sia per modestia, sia forse anche - dopo l'incursione del Barbarossa - per una forma di prudenza. L'unica notizia certa in proposito è che nell'estate del 1532 il pittore Sebastiano del Piombo eseguì un ritratto della G. su commissione di Ippolito de' Medici. Il cardinale, inoltre, incaricò il ferrarese Antonio Lombardi di un altro ritratto in stucco, che l'artista riuscì a plasmare non senza aver dovuto vincere le resistenze della Gonzaga. Mentre di quest'ultimo lavoro si è persa ogni traccia, il ritratto di Sebastiano del Piombo è forse identificabile con quello conservato oggi nel palazzo reale di Caserta. Di fatto, quasi tutte le altre effigi della G. che si conoscono sembrano essere derivazioni da quell'originale; molte altre opere, da allora in poi, vennero spacciate per ritratti della G. anche se non avevano nulla a che vedere con la sua persona. Quanto al presunto ritratto di Sebastiano, va segnalata una discrepanza tra l'immagine dipinta e quella descritta dai vari poeti che celebrarono nello stesso periodo la bellezza della Gonzaga. Il Molza e il Porrino, infatti, la descrivevano bionda e ricciuta, mentre la donna ritratta nel quadro della reggia di Caserta ha inequivocabilmente i capelli scuri; è vero tuttavia che quei poeti applicavano pedissequamente moduli petrarcheschi e che forse, perciò, sacrificarono la realtà in nome dell'ossequio alla tradizione letteraria.

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