ALBERONI, Giulio

Enciclopedia Italiana (1929)

ALBERONI, Giulio

Pietro Castagnoli

Nacque a Piacenza il 21 maggio 1664, nella parrocchia dei Ss. Nazario e Celso, da un povero ortolano. Ebbe la prima istruzione ed educazione dal parroco, poi dai barnabiti della chiesa di San Donnino; verso i sedici anni, entrò alle scuole di San Pietro, tenute dai gesuiti, ed imparò filosofia, teologia, diritto, lettere, geografia e storia, con preferenza netta per le scienze positive. Poco dopo i venti anni, andò, insieme con l'amico dott. Ignazio Gardini, a Ravenna; quivi conobbe il vicelegato pontificio mons. Barni che, divenuto vescovo di Piacenza nel 1668, lo scelse come suo maestro di casa, l'ordinò sacerdote e poi gli affidò l'educazione del proprio nipote. In questo tempo, A. avvicinò mons. Alessandro Roncovieri, vescovo di Borgo San Donnino (oggi Fidenza) e si guadagnò tutta la fiducia di lui; sicchè, quando il Roncovieri fu mandato, dal duca di Parma Francesco Farnese, presso il generale Vendôme (1702) come suo rappresentante, egli prese seco l'A. in qualità di segretario. Alla fine del 1703, ammalatosi il Roncovieri, A. rimase solo a rappresentare il duca presso l'esercito francese, con l'incarico di impedire invasioni nel territorio del ducato. Per il carattere allegro, franco e leale, e per il suo fine senso pratico il giovane abate divenne il confidente del Vendôme, il quale lo volle seco in Fiandra e lo ebbe prezioso consigliere nella lotta. Dopo la rotta di Oudenarde (causata dal tradimento dei capitani francesi, specialmente del duca di Borgogna, e non del Vendôme: l'epistolario alberoniano lo prova ad evidenza; cfr. specialmente Arch. del Collegio Alberoni, Epistolario, I, Aa, 130), i due amici andarono insieme a Parigi; ma A. volle la rivendicazione del denigrato Vendôme, e ci riuscì. Nel 1710, il generale era inviato a guidare gli eserciti che operavano nella Spagna, e A. lo seguiva. Così potè avvicinare Filippo V e fu da lui preso a benvolere; talché quando nel 1712 il Vendôme morì, A. rimase alla corte spagnola e iniziò il periodo decisivo della sua carriera. Il duca Farnese lo riconobbe come suo rappresentante a Madrid; ma egli fece molto di più. Morta, nel 1714, Maria Luisa di Savoia moglie di Filippo V, A. seppe sì ben lavorare a corte e sull'animo del Re, che la nuova sposa fu proprio la principessa Elisabetta Farnese. Meglio di così il duca di Parma non poteva essere servito; ed anche A. non poteva trovare migliore occasione per realizzare i suoi sogni italiani e per crearsi quella posizione definitiva, a cui vivamente aspirava. Egli divenne infatti a poco a poco il vero primo ministro della monarchia, specie dal momento della disgrazia definitiva del cardinale Del Giudice (luglio 1716); e poté così iniziare l'attuazione del suo piano politico.

Il quale era volto soprattutto a risollevare le condizioni dell'Italia, abbattendo il predominio di Carlo VI d'Austria, sancito dalle paci di Utrecht e di Rastatt (1713 e 1714), e innalzare la casa Farnese di Parma, a cui l'A. rimaneva devotissimo, a maggiore potenza. L'ordinamento dato da quei trattati alla penisola pareva all'A. precario e dannoso: egli avrebbe voluto sconvolgerlo, e assicurare poi la tranquillità dell'Italia mediante una confederazione di stati italiani. Ma poiché era convinto che i principi italiani non potessero "fare da sé"; che per abbattere il predominio austriaco fosse necessario l'intervento di una potenza straniera e la diminuzione della potenza austriaca in tutta Europa, così pensò di valersi della Spagna, associando la fortuna dei Borboni di Spagna a quella dei Farnese di Parma. Per questo, aveva condotto Elisabetta sul trono di Madrid; per questo, si mise all'opera per ricondurre la Spagna alla pristina potenza, calcolando poi di riuscire, con le armi spagnole, a liberare l'Italia dal giogo austriaco. Naturalmente, però, in base a un piano siffatto, la Spagna, che avrebbe dovuto riavere Napoli, la Sicilia e la Sardegna, avrebbe riacquistato un posto di prim'ordine nella vita italiana: ma A. pensava solo a scongiurare la minaccia austriaca. E d'altra parte sul trono di Spagna sedeva allora un'italiana, Elisabetta Farnese.

Per raggiungere il suo intento, l'A. doveva dunque riordinare all'interno la Spagna, caduta in disastrose condizioni economiche, militari, morali; e assicurarsi il predominio a corte. Eliminata pertanto la "Camarera mayor", principessa degli Orsini, che si sentì dare violentemente lo sfratto da Elisabetta medesima, proprio nel giorno in cui ella veniva a prender possesso del trono; eliminati in processo di tempo gli altri rivali, A. poté attendere alla sua opera, a cui si dedicò con un'energia e un'attività mirabili, anche se non sempre la sua volontà di riforma poté attuarsi in pieno. Cominciò egli con lo sbarazzare la corte da molti dei parassiti ed intriganti che vi oziavano, smungendo il tesoro regio; quindi passò a più vasto riordinamento, che investì soprattutto il Consiglio di stato, quello di Castiglia, quello della guerra. Essi divennero strumenti docili della volontà regia. Dipoi l'A. attese a riordinare l'amministrazione finanziaria e tributaria dello stato, seppure in questo campo la debolezza del re non gli permettesse di colpire i mali alle radici; a rafforzare economicamente la nazione, promovendo una rinascita marittimo-commerciale e una più intensa attività agricola: ricordiamo il fatto che egli chiamò contadini parmigiani a lavorare le terre ad Aranjuez, quasi modello per gli Spagnoli. Contemporaneamente provvedeva a ricostituire la marina da guerra con l'aiuto del milanese Patiño (v.), e a riorganizzare l'esercito, dotandolo di una buona artiglieria, anche qui con l'ausilio di un altro italiano, il milanese Marco Aracieli. Per porre la Spagna in grado di affrontare i compiti politici ch'egli vagheggiava, l'A. chiedeva tre anni di pace e di raccoglimento: e veramente la nazione parve risorgere. Una flotta più che notevole, mercantile e militare, fu allestita in brevissimo tempo; l'erario tornò a respirare; sorsero fabbriche nuove, come quelle di Guadalajara, celebri durante tutto il secolo XVIII per i loro drappi e tele fini.

Ma se pare che l'A. non volesse almeno per il momento la guerra, diversi erano i progetti del duca di Parma Francesco Farnese, sempre più preoccupato dell'invadenza austriaca in Italia. Chi spinse alla guerra, e questo risulta ormai ben chiaro dai carteggi, fu appunto il Farnese. Fin dal 1715 egli chiedeva l'invio della flotta spagnola sulle coste italiane, e per tutto il 1716 continuò ad insistere per un'azione militare. In quel momento decisivo, l'A. si trovò in una posizione gravemente compromessa: primo ministro di Spagna, egli era, nello stesso tempo, ancora il devoto confidente del duca di Parma. Di più, egli lavorava per la grandezza della Spagna, ma in vista di un'azione sull'Italia; e poteva pertanto essere tratto, nell'interesse vero o supposto di quest'ultima, a giovarsi della prima come di un mezzo. Si spiega così come, dopo avere a lungo resistito al volere dello stesso Filippo V, l'A. si decidesse in ultimo per l'azione armata. Nel luglio 1717, la flotta spagnola, promessa al papa Clemente XV per un'azione in Levante contro i Turchi, prese un'altra strada e andò alla conquista della Sardegna, che in meno di due mesi ritornò in possesso della Spagna. È tuttavia indubitato che A. voleva realmente spedire in Levante la flotta e l'aveva fatta allestire per questo; e che la sua responsabilità è fuori causa, nella diversa destinazione che alla flotta stessa fu data. Chi volle l'azione fu il duca di Parma (Archivio di Napoli, Carte Farnesiane, f. 57, lettera del duca di Parma all'A. e risposta di questo: "obbedirò a ciò che V. Altezza Serenissima mi ordina"; cfr. pure la corrispondenza, in Arch. Coll. Alberoni, Epistolario, I, Bb. 643, 653). Decisa la guerra, A., da fedele ministro, la proseguì. Ma intanto i nemici di lui ebbero buon gioco: l'Austria, anzi, ne trasse pretesto per accusar addirittura l'odiato ministro di un trattato coi Turchi ai danni della cristianità. Ma di tale accusa non poté essa mai portarne le prove; né ancor oggi si è riusciti a presentare un solo documento in sostegno di questa asserzione.

Intanto la spedizione di Sardegna aveva fatto precipitare la situazione in Europa. Nonostante gli sforzi fatti dall'A. per staccare Inghilterra e Olanda dall'Austria, le due potenze si erano già prima accordate con Carlo VI; alla coalizione s'era aggiunto (gennaio 1717) il reggente di Francia, duca di Orléans, che, seppure in parte a torto, si credeva minacciato nel suo potere di reggente dall'A. e da Filippo V di Spagna (e a quest'ultimo realmente doleva assai il dover rinunziare alla corona o almeno alla reggenza di Francia). Contro la quadruplice così formata, l'A. dovette ingaggiare lotta aperta, dapprima sul terreno diplomatico, promuovendo la formazione di una lega del nord tra Russia e Svezia contro l'Inghilterra, favorendo gli Stuart, pretendenti al trono d'Inghilterra, contro Giorgio I d'Inghilterra. Tuttavia, ancora nel 1718, egli era disposto alla pace; e nuovamente fu trascinato alla guerra dal duca Farnese. La spedizione di Sicilia, nel 1718, fu anch'essa voluta da quest'ultimo (Bourgeois, Le secret des Farnèse, pp. 302-303). Ma le cose precipitarono: l'Inghilterra entrò in lotta all'improvviso; la flotta inglese sconfisse sulle coste siciliane quella spagnola, e questo fu l'inizio della rovina del programma dell'A. La Francia a sua volta assalì la Spagna sul versante dei Pirenei, nella primavera del 1719, dopo che la scoperta della cosiddetta congiura di Cellamare (v.) aveva offerto al reggente nuovi e facili motivi di sdegno contro A.; e la lega del Nord si disfaceva con la morte di Carlo XII di Svezia (1718) e l'avvicinarsi di Pietro il Grande di Russia all'Inghilterra.

La Spagna dovette cedere, e quando si giunse alle trattative di pace gli alleati imposero a Filippo V, come condizione, la immediata espulsione del ministro. Anche i gelosi emissarî di Parma, precipitatisi a Madrid quando videro che la stella alberoniana si oscurava, soffiarono sul fuoco; e il 5 dicembre 1719, A. ebbe ordine dal re di partire dal suolo spagnuolo. Ubbidì senza far chiasso e prese la via dei Pirenei. Una schiera di micheletti, che avevano avuto ordine dal governo di Madrid di ammazzarlo, lo raggiunse. Gli fu fatta una perquisizione, fu privato di tutte le sue carte, ma la famosa corrispondenza da cui appare chiaramente la sua innocenza nello scatenarsi di quella guerra, restò nelle sue mani. Ad Antibo fece vela alla volta di Sestri Levante sopra una nave mandatagli apposta dalla repubblica di Genova; ma in Italia non spirava buon vento per lui. Il papa, che nel luglio 1717 lo aveva creato cardinale del titolo di S. Crisogono, spinto da Filippo V e dal Farnese, iniziò un processo per privarlo della porpora, mentre un altro processo veniva iniziato a Piacenza: nel primo, da istruirsi in Spagna, si sarebbero cercate le prove dei delitti politici; nel secondo le prove della sua sregolata condotta privata. Genova ricevette ordine di consegnare l'A.; ma il senato non volle tradire l'ospitalità e alla fine, pressato dalle richieste e dalle minacce, ingiunse al cardinale di uscire dal territorio della repubblica. Al principio del 1720, A. scomparve, senza che mai nessuno dei nemici potesse sapere dove si fosse andato a nascondere. Si tentò ogni mezzo per impadronirsene; ma egli sfuggì sempre ad ogni ricerca. Intanto i processi seguirono il loro corso: ma quello di Piacenza, nonostante tutti gli sforzi del Farnese, sfumò completamente; quello di Madrid andò in lungo, e quando il voluminoso incartamento giunse a Roma, il papa stava per morire. La questione fu rimessa al successore.

Avvenuta la morte del papa, i cardinali furono obbligati ad invitare anche il collega A. al conclave, per la validità dell'elezione. Non sapendo dove mandare l'invito, lo fecero pubblicare a Genova, ultimo luogo dove il fuggiasco era stato veduto, più di un anno avanti. Qualche giorno dopo, A. comparve tranquillamente a Bologna, pronto a mettersi in viaggio alla volta di Roma. Il duca Farnese si mordeva le mani; ma ormai la stella dell'A. cominciava a risorgere e le grandi potenze realmente si preoccupavano poco di lui. Lo avevano voluto fuori dalla Spagna: ottenuto l'intento, non vedevano alcun interesse ad incrudelire contro chi non faceva più paura. Invece il Farnese temeva la pubblicazione delle lettere da cui sarebbe risultata chiara la sua responsabilità nella guerra, e voleva a tutti i costi farla finita con il pericoloso cardinale. Il nuovo papa, Innocenzo XIII, concesse all'A. di restare liberamente a Roma sino alla conclusione del processo; ed egli si comprò un palazzo in città ed una vigna fuori Porta Pia, in attesa di una soluzione definitiva. Il processo venuto dalla Spagna fu esaminato da un'apposita commissione di cardinali. Finalmente (18 dicembre 1723), il papa pronunciò la sentenza mediante la quale il processo doveva considerarsi come del tutto estinto, finito e risoluto e a nessuno era lecito di convenire nuovamente in giudizio il cardinale A., dichiarato completamente mondo da qualsiasi macchia d'infamia e di disonore in cui fosse incorso a causa del processo (Archivio segreto Vaticano, Miscellanea, X, vol. 135).

Dopo ciò, l'A., ormai non più giovane, decise di ritirarsi a vita tranquilla ed acquistò una vasta tenuta a Castelromano, per attendere anche alle occupazioni campestri, mentre andava pensando anche al modo migliore di beneficare la sua patria, Piacenza, a cui aveva sempre conservato un profondo affetto, nonostante l'ingratitudine di molti dei suoi concittadini. E l'occasione venne nel 1732, quando il papa lo investì della commenda dell'ospedale di San Lazzaro presso Piacenza, antico lazzaretto pei lebbrosi, allora ridotto a un covo di malviventi. Preso possesso del suo ufficio e riconosciuta l'inutilità di un'opera ormai sorpassata, ne propose al pontefice la soppressione e la sostituzione con un collegio di ecclesiastici. Il pontefice accondiscese volentieri, definendo le basi giuridiche ed economiche della nuova istituzione. Allora A. distrusse l'antico edificio e ne costruì uno nuovo sotto la sua personale direzione, allo scopo di accogliere e mantenere sessanta giovani di media condizione della diocesi di Piacenza, che mostrassero intenzione di abbracciare lo stato ecclesiastico.

Mentre stava attendendo a quest'opera, fu nominato dal papa alla Legazione di Romagna. Furono vane le sue rinuncie; il papa insisté, e nel 1735 A. entrava a Ravenna, portando nel suo nuovo ufficio tutto il vigore e lo spirito d'iniziativa, mostrati già nella Spagna. Le sue opere, di carattere specialmente edilizio e idraulico, rimangono ancor oggi a testimoniare la sua genialità. Proprio in questo periodo ricorre un avvenimento che ha servito sempre ad accentuare le tinte piuttosto oscure sulla vita di A.: l'occupazione di San Marino, a nome della Santa Sede. Egli fu il violatore della libertà di quel popolo; oggettivamente il fatto appare tale, ma non altrettanto chiara appare la responsabilità di A., come pure non così evidente risulta la gravità politica dell'avvenimento. In realtà, dalla legazione di Romagna A. non fu messo a riposo, come un diplomatico fallito; ma, a 76 anni, fu trasferito alla legazione di Bologna, certo non meno importante di quella di Ravenna. Grande amico di Benedetto XIV, egli governò la patria di lui con amore, ma anche con la solita sua forza; continuando nel tempo stesso ad occuparsi del suo collegio di Piacenza, del quale voleva fare il monumento più bello della sua vita ecclesiastica. Purtroppo, le guerre, che allora si combattevano sul suolo degli stati parmensi, gli avevano distrutto, un brutto giorno, tutta la grande fabbrica da lui costruita; ma egli la innalzò di nuovo, più ampia e più perfetta. Chiamò a dirigere il collegio i preti della missione (lazzaristi) e finalmente, nel 1751, egli stesso ricevette i primi diciotto alunni. Ormai le sue forze erano giunte alla fine; nel minuscolo appartamento, riservatosi nel suo grande collegio, egli scrisse il suo testamento, lasciando il collegio suo erede universale. Il 26 giugno 1782 moriva nella sua casa di Piacenza, dopo 88 anni di vita travagliata e laboriosa. La salma fu deposta nella chiesa del collegio.

Il materiale documentario della vita di A. resta finora in buona parte inedito e i giudizî dati dagli storici sono per lo più ripetuti sulla falsariga del Saint-Simon, il quale andò raccogliendo tutte le storielle che correvano numerose ai tempi di Luigi XIV e della Reggenza. La vera storia è ben diversa, come ha già cominciato a dimostrare il Bourgeois. Da essa risulta che A. amò soprattutto la sua patria, per la quale, a un dato momento della sua vita, mise a repentaglio tutta la sua riputazione e il suo avvenire. Desiderò anche di formarsi una posizione rispettabile: e vi riuscì, pur senza adulazioni. Fu nemico della burocrazia e, nel governo, un accentratore, perché aveva poca, anzi nessuna fiducia negli uomini. La diplomazia europea lo gettò a terra perché ne aveva paura; il Farnese lo perseguitò per nascondere i proprî falli; egli rispose sopportando le sventure con energia e costanza, si dedicò al governo ecclesiastico e ricambiò l'ingratitudine della sua patria col dono di tutti i suoi beni.

Le principali raccolte documentarie si trovano nell'Archivio del Collegio Alberoni in Piacenza, nell'Archivio di stato di Napoli (Carte Farnesiane), nell'Archivio segreto Vaticano, nell'Archivio degli affari esteri a Parigi e nell'Archivio di Simancas in Spagna.

Bibl.: S. Bersani, Storia del cardinale Giulio Alberoni, Piacenza 1861 (è l'unica biografia completa che meriti di essere citata, quantunque non utilizzi che una parte di documenti); E. Bourgeois, Le secret des Farnése. Philippe V et la politique d'Alberoni, Parigi 1910; id., Lettres intimes de J. M. Alberoni adressées au comte Rocca ministre des finances du duc de Parme et publiées d'après le manuscrit du Collège de S. Lazaro Alberoni, Parigi 1892; De Courcy, l'Espagne après la paix d'Utrecht, Parigi 1891; L. Arezio, Il cardinale Alberoni e l'impresa di Sardegna nel 1717, Cagliari 1906; A. Professione, Giulio Alberoni dal 1708 al 1714, Verona 1890; id., Il ministero in Spagna e il processo del cardinale Giulio Alberoni, Torino 1897; V. Papa, L'Alberoni e la sua dipartita dalla Spagna, Torino 1877; A. Arata, Il processo del card. Alberoni, Piacenza 1923; R. Quazza, La cattura del cardinal Giulio Alberoni e la repubblica di Genova, Genova 1913; C. Malagola, Il cardinale Alberoni e la repubblica di San Marino, Bologna 1886; P. Castagnoli, C. M., Il card. Giulio Alberoni, I: Il ministro dei Farnese, Piacenza 1929 (è il primo di tre volumi che comporranno la biografia dell'A.).

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