MAZZONI, Giulio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 72 (2008)

MAZZONI, Giulio

Monica Grasso

– Originario di Piacenza, come ricorda Vasari nelle Vite e come specifica già la firma «Julius Mazzonus Placentinus» nel bassorilievo con la Crocifissione della cappella Piccolomini nella chiesa di Monteoliveto a Napoli (oggi S. Anna dei Lombardi), nacque probabilmente intorno al 1518, secondo quanto attesta un documento piacentino del 1589, in cui viene detto di settantuno anni (Pugliatti, p.51).

Una datazione così precoce, rispetto a quella del 1525, a lungo convenzionalmente concordata, si accorderebbe meglio con la sua presenza nella ben avviata bottega vasariana fin dal 1543, quando doveva essere un giovane già uscito dall’adolescenza. Non si hanno, però, notizie né sulla sua famiglia né sulla sua formazione piacentina e neppure sulla data di arrivo a Firenze. Si è ipotizzato che il M. abbia guardato all’arte del Parmigianino (Francesco Mazzola) e del Pordenone (Giovanni Antonio De Sacchis), il quale aveva lasciato a Piacenza opere significative (ibid.).

Vasari lo ricorda come suo «creato», dichiara di avergli impartito «i primi principj» dell’arte e colloca il suo esordio in qualità di collaboratore nel 1543, quando egli stesso eseguì la pala con l’Immacolata Concezione per Biagio Mei, spedita in seguito a Lucca (dove si conserva presso il Museo nazionale di Villa Guinigi: ibid., p. 49). Ma, poiché il M. firmò quale opera autonoma la già citata Crocifissione in marmo per Monteoliveto a Napoli, solitamente collocata nel 1544-45, non è da sottovalutare l’ipotesi di una sua formazione giovanile, piacentina o toscana, in una bottega di scultura, che in questo caso giustificherebbe anche l’affermazione vasariana circa l’apprendistato pittorico presso la sua bottega.

A Napoli il M. doveva aver accompagnato Vasari nel 1544, partecipando, ma non si sa esattamente in quale misura, alle numerose opere eseguite in città: i dipinti su tavola, gli affreschi e gli stucchi per il refettorio di Monteoliveto e per la chiesa adiacente, la decorazione della sagrestia di S. Giovanni a Carbonara e altre ancora. Vasari non cita la Crocifissione della cappella Piccolomini nella stessa chiesa di Monteoliveto, pure verosimilmente eseguita durante quello stesso soggiorno.

Si tratta di un bassorilievo in marmo raffigurante il Cristo crocifisso circondato dalla Vergine, da s. Giovanni Evangelista e dalla Maddalena e affiancato da due angioletti. L’opera dimostra una certa sicurezza di linguaggio soprattutto nei panneggi piuttosto fluidi e nell’espressività dei volti e, se la figura della Maddalena inginocchiata e la trattazione un po’ artificiosa delle capigliature possono rivelare qualche impaccio, il tono devoto e la tenerezza commossa degli angioletti sono perfettamente aggiornati al clima religioso del tempo.

Il M. presumibilmente si fermò a Napoli con Vasari almeno fino al 1545, ma non si hanno notizie circa i suoi successivi spostamenti. Nelle Vite, infatti, si dichiara solo che, lasciata la bottega vasariana, si trasferì in quella di Daniele Ricciarelli da Volterra, dove apprese la tecnica dello stucco così bene da uguagliare il maestro. Partendo da questa affermazione la storiografia artistica ha cercato di individuare la mano del M. nei cantieri romani di Daniele da Volterra attivi tra il 1546-47 circa e il 1549-50, poiché a partire da questa data il M. dovette dedicarsi agli impegnativi lavori in palazzo Capodiferro che costituiscono la successiva opera citata da Vasari.

Egli potrebbe essere stato coinvolto con Daniele da Volterra nei lavori decorativi della sala Regia in Vaticano o in palazzo Farnese a Roma, in cui gli è stato attribuito un intervento nel fregio con il Trionfo di Bacco della stanza d’angolo del primo piano, databile al 1547 (Pugliatti, p. 56, fig. 77). Il nome del M. non è comparso a tutt’oggi nei documenti di pagamento relativi alla bottega di Daniele da Volterra, ma quel che è sicuro è che egli dovette acquisire in questi anni una notevole padronanza in quella prassi decorativa, mista di pittura e di stucchi, che tanto si andava diffondendo nelle botteghe artistiche romane tra il 1540 e il 1560.

Nel 1550, o poco prima, gli venne dunque affidata una impresa di notevole estensione e impegno, come la decorazione di palazzo Capodiferro (oggi Capodiferro Spada), costruito negli anni 1548-50 circa per il cardinale Girolamo Capodiferro, su progetto di Bartolomeo Baronino di Casale Monferrato.

La fitta ornamentazione in stucco, costituita da statue e da fregi sia sulla facciata sia nel cortile interno, dovette essere eseguita intorno al 1549-50. Tradizionalmente al M. era attribuita l’ornamentazione della facciata su piazza Capodiferro; ma una documentazione rinvenuta più di recente nomina due diverse botteghe di stuccatori, una in cui effettivamente lavorava il M. con l’ausilio di Diego di Fiandra, e un’altra affidata a Tommaso Bosco e Leonardo Sormani. La documentazione testimonia l’autografia del M. nella ornamentazione della facciata interna prospiciente l’ingresso; e per assonanze stilistiche si deduce la sua presenza anche in altre due pareti del cortile, escludendone però l’attività per la facciata esterna (Cannatà, 1991 e 1995). In particolare si sottolinea la qualità esecutiva delle figure di giovani nudi che tengono gli stemmi nella facciata prospiciente l’ingresso.

Il palazzo, che si distingue per la sua complessa decorazione con soggetti mitologico-allegorici, è fittamente decorato con dipinti e stucchi anche nelle sale interne, dove allo stesso modo in assenza di documentazione specifica, la mano del M. (o la sua attività di capobottega) è variamente rilevata dalla storiografia, che si colloca tra il riconoscimento di un ampio protagonismo del M. (Vasari; Pugliatti) e una sua presenza più limitata (Cannatà, 1991 e 1995). In maniera piuttosto unanime si attribuisce al M. e alla sua bottega la galleria, decorata con dipinti e stucchi che articolano un complesso pensiero allegorico neoplatonico sul tema dell’Amore, della Fama, della Giustizia. La galleria si avvicina al famoso esempio della reggia di Fontainebleau, noto in Italia anche attraverso incisioni, forse gradito al cardinale Capodiferro grazie ai suoi soggiorni francesi (Neppi). Ugualmente la presenza del M. è ravvisata nella sala degli Elementi e delle Stagioni, dove il suo linguaggio si distingue ancora per l’eleganza e il modellato morbido degli stucchi e per l’uso nei dipinti di figure serpentinate, dai colori preziosi e innaturali, e di composizioni talvolta macchinose dai riferimenti culturali plurimi, tra i quali sembra che l’ascendenza vasariana non abbia avuto molto impatto.

Ben esemplificano questo linguaggio composito, ma morbido ed elegante, i dipinti con soggetti mitologici della galleria, tra i quali spicca, per la soffusa sensualità, la Danae, la cui iconografia è memore anche dei precedenti tizianeschi.

Assai più discussa è la presenza del M. e della sua bottega negli altri ambienti del palazzo, decorati sempre verso la metà del Cinquecento: si riconosce comunque generalmente la sua presenza o quella di suoi stretti collaboratori, anche nella sala di Callisto e, almeno in parte, nella cappella (Pugliatti; Cannatà, 1992).

I lavori nel palazzo Capodiferro dovettero continuare fino agli anni 1553-55 circa.

Il 5 luglio 1557 il M. ricevette dallo spagnolo Constantino del Castillo un pagamento relativo a un dipinto eseguito per la sua cappella, dedicata a S. Maria Assunta, nella chiesa romana di S. Giacomo degli Spagnoli.

La decorazione della cappella era stata affidata nel 1553 al pittore spagnolo Gaspar Becerra; non si esclude che il M. possa essere subentrato nel cantiere subito dopo la partenza di questo per la Spagna e aver preso parte alla decorazione in modo determinante. Poiché la cappella venne distrutta nella prima metà del Novecento e ne esistono scarsissime testimonianze fotografiche, la valutazione del ruolo del M. rimane comunque difficile (Rédin Michaus).

Negli anni successivi il M. continuò con ogni probabilità la sua attività a Roma, anche se non si può escludere che talvolta facesse ritorno per brevi soggiorni a Piacenza. Il 21 genn. 1563 ricevette un pagamento per due figure in stucco relative alla decorazione della sala Regia in Vaticano nella quale lavorarono anche Daniele da Volterra e il piacentino Ferrante Moreschi, un artista che in altre occasioni si dimostrerà legato da amicizia al M. (Pugliatti).

Si è proposto di identificare le figure a cui fa riferimento il pagamento con due telamoni collocati negli angoli destro e sinistro della parete della sala situata verso la torre Borgia (ibid.); ma è necessario ricordare che l’intera vicenda esecutiva della sala Regia è particolarmente complessa sia riguardo alle fasi di esecuzione sia riguardo all’attribuzione degli elementi più specificatamente ornamentali: perciò la presenza in questo cantiere del M., anche in fasi precedenti al citato pagamento, rimane aperta (ibid.; Rédin Michaus).

Il 10 giugno 1563 il M. venne pagato per una stima, fatta con Daniele da Volterra e Guglielmo Della Porta, di alcuni lavori eseguiti in Vaticano dagli scultori Antonio da Carrara, «Alessandro» e «Ulisse», questi ultimi non meglio specificati (Pugliatti, p. 188).

Nel 1564 il M. subì un processo intentatogli dalla Compagnia di S. Luca perché non aveva pagato la consueta retta riservata ai pittori; l’artista si difese asserendo di essere soprattutto uno scultore, ma fu in seguito costretto a regolarizzare la sua posizione (Leproux).

Forse è da collocarsi in questi anni l’esecuzione del busto di Francesco Del Nero, citato anche da Vasari che lo ricorda nella casa fiorentina della famiglia Del Nero.

In realtà i busti-ritratto di Francesco Neri o Del Nero, che fu tesoriere di Clemente VII, debbono essere stati due, uno in marmo e uno in bronzo, già posseduto dagli Staatliche Museen di Berlino (Pugliatti, p. 194). Il busto in marmo si trova oggi nella chiesa romana di S. Maria sopra Minerva, sopra la lapide che ricorda la morte di Neri, avvenuta nel 1563, e la dedica del fratello Agostino. Il ritratto è eseguito con perizia, specie nel realismo che contraddistingue il volto caratterizzato dalla calvizie e dalle rugosità della pelle senile, ma anche dalla vivacità evidente nell’espressione leggermente corrucciata e nella naturalezza dell’abito dal collo sbottonato sotto l’ampio panneggio del mantello.

Probabilmente poco dopo il M. dovette essere impegnato nella decorazione della cappella degli Svizzeri in Vaticano per la quale ricevette pagamenti il 29 luglio e il 21 ott. 1568.

Gli affreschi della cappella, costruita da Pio V e dedicata ai Ss. Martino e Sebastiano, raffiguravano l’Annunciazione, Dio Padre, la Crocifissione, la Madonna con Bambino e s. Anna e i Ss. Sebastiano e Martino; ma essi hanno subito notevoli danni, tanto da rendere in alcuni casi assai difficile riscontrare una eventuale autografia. Sono state riconosciute come di mano del M. le figure affrescate sulle pareti di S. Martino e di S. Sebastiano per la loro qualità esecutiva e per le assonanze stilistiche con le figure dipinte nelle sale sicuramente attribuitegli in palazzo Capodiferro (ibid.; Russo).

Successivamente il M. dovette essere impegnato nella decorazione della cappella Theodoli in S. Maria del Popolo, nella quale la sua presenza è certificata dalla firma «Julius Mazzonus Placentinus pictor et scultor» posta sulla base della statua raffigurante S. Caterina.

La cappella, dedicata ai Ss. Girolamo e Caterina d’Alessandria, fu ceduta al vescovo di Cadice, Girolamo Theodoli, nel 1569; e il M. poté forse essere scelto dal committente grazie ai suoi precedenti contatti con la comunità spagnola di Roma durante i lavori nella chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli. Il M., tuttavia, doveva essere già attivo in S. Maria del Popolo almeno dal 1564, come si apprende dalla testimonianza di Iacopo De Zocchis di quello stesso anno nel processo intentatogli dalla Compagnia di S. Luca (Leproux), particolare che mette in discussione date e committenza della cappella. L’ambiente ha una ricca decorazione plastica in stucco con figure di giovani alati che sostengono medaglioni ornati di nastri e di festoni vegetali, di grande leggerezza ed eleganza. La statua di S. Caterina invece colpisce per l’immobilità del volto, di un classicismo quasi purista, e per le pieghe del manto in cui si alternano una linea più morbida e una più dura e quasi spezzata, come nelle pieghe sul seno.

Più discussa è l’attribuzione delle due statue in stucco di S. Pietro e S. Paolo, così come quella delle parti dipinte, piuttosto alterate, che comprendono sulla volta quattro scomparti con gli Evangelisti e i Dottori della Chiesa, due medaglioni con S. Girolamo e S. Giovanni Battista e nelle lunette la Disputa di s. Girolamo e la Disputa di s. Caterina, componendo un interessante programma iconografico sul tema della parola divina e della sua interpretazione.

Dal 1571 al 1574 il M. fu impegnato nella decorazione della cappella Ramirez de Avellano in S. Giacomo degli Spagnoli, purtroppo completamente distrutta nei lavori di trasformazione dell’edificio alla fine dell’Ottocento, ma testimoniata dai due contratti stipulati dall’artista, assai dettagliati, e dai pagamenti che egli riscosse il 12 ott. 1572 e il 13 ag. 1574.

Secondo il contratto il M. doveva provvedere al disegno e all’esecuzione dell’ornamentazione in stucco con figure, festoni e fogliami, alle due statue in marmo di S. Pietro e S. Paolo da collocarsi in un tabernacolo marmoreo, a una lapide con l’effigie del defunto a bassorilievo, al parapetto di marmo, nonché a tutti i dipinti, comprendenti una Pietà, una Annunciazione, le figure dei Ss. Lorenzo e Alfonso, il Martirio di s. Pietro e il Martirio di s. Paolo (Rédin Michaus).

È stato attribuito al M. il busto di Giorgio Vasari conservato nella Casa Vasari di Arezzo, databile dopo il 1571 poiché l’artista porta al collo un medaglione con l’insegna pontificia, testimonianza del cavalierato avuto da Pio V nel giugno di quell’anno. Alcune somiglianze di linguaggio possono avvicinarlo al busto di Francesco Del Nero, soprattutto per la naturalezza del volto (Davis; Cannatà, 1991).

Successivamente il M. partecipò alla decorazione della piccola cappella fondata da Matteo Catalani nel 1574 (poi cappella Cinque) in S. Maria degli Angeli.

Dedicata al Ss. Salvatore, fu consacrata nel 1575 e contiene opere di Domenico da Modena e di Hendrick van den Broeck (Arrigo Fiammingo) e altre di paternità incerta. Al M. appartiene sicuramente solo il dipinto firmato «Julìus Placent(inus)» e raffigurante un gruppo di demoni nell’atto di inginocchiarsi e congiungere le mani. L’opera si inserisce in un particolare programma iconografico che articola il tema della «Venerazione del S. Nome di Gesù da parte dei Tre Regni, il Celeste, il Terreno e l’Infernale» (Pierguidi). Nel dipinto, pur molto danneggiato, le sagome muscolose eppure serpentinate e guizzanti dei demoni, testimoniano la loro ascendenza michelangiolesca.

Nel 1576 il M. è documentato a Piacenza, dove il 1° agosto ebbe l’incarico di insegnare l’arte ai giovani della città. Tra il 1577 e il 1578 inoltre ricevette pagamenti relativi alla decorazione pittorica della chiesa piacentina di S. Maria di Campagna, che fu in seguito interamente ridipinta. Una sorte analoga colpì anche l’opera pittorica del M. nel duomo cittadino, in cui gli Evangelisti raffigurati di scorcio sulla volta suddivisa in quattro scomparti della cappella del Sacramento furono dapprima danneggiati dai restauri e successivamente distrutti (Pugliatti, p. 206).

Un documento del 1° apr. 1581 testimonia che il M. anche da Piacenza mantenne contatti con Roma: egli incaricava infatti Ferrante Moreschi di vendere nella città alcune sue sculture rimaste presso lo scultore Francesco da Pietrasanta. Il 28 luglio 1590 il M. redasse il suo testamento nominando erede ed esecutore lo scultore Giuseppe Grattoni.

Morì presumibilmente a Piacenza entro il 20 ag. 1590, giorno nel quale Grattoni iniziò a distribuire i lasciti indicati dal M. nel suo testamento. Tra questi, di particolare interesse, il lascito, suddiviso tra i due artisti Giacomo Rocca, che egli aveva frequentato a Roma, e il già citato Francesco da Pietrasanta, di una serie di busti di imperatori romani eseguiti dal M. e di una statua raffigurante Adone, sempre di sua mano, che confermano quanto l’attività scultorea dovette avere una parte importante nel complesso della sua carriera artistica (ibid., pp. 207 s.).

Fonti e Bibl.: G. Vasari, Le vite… (1568), a cura di G. Milanesi, VII, Firenze 1881, p. 70; L. Ozzola, Una scultura inedita di G. M., in Boll. stor. piacentino, XXX (1935), pp. 28 s.; L. Neppi, Palazzo Spada, Roma 1975, ad ind.; C. Strinati, G. M. da Piacenza nella Roma di metà Cinquecento, in Boll. d’arte, s. 6, LXIV (1979), 1, pp. 27-36; G. Fiori, Nuove ricerche biografiche su Eugenio e Giovanni Antonio Bianchi, Francesco Mochi e G. M., in Boll. stor. piacentino, LXXV (1980), pp. 63-75; C. Davis, in Giorgio Vasari (catal.), Firenze 1981, pp. 310 s.; L. Russo, G. M. e aiuti. Decorazioni ad affresco della chiesa di S. Martino degli Svizzeri, in Boll. dei Musei e Gallerie pontificie, IV (1983), pp. 179-196; T. Pugliatti, G. M. e la decorazione a Roma nella cerchia di Daniele da Volterra, Roma 1984 (con ampia bibl. precedente e regesto dei documenti); S. Tumidei, in La pittura in Italia. Il Cinquecento, II, Milano 1988, p. 767; R. Cannatà, Novità su G. M., Leonardo Soriani, Tommaso del Bosco e Siciolante da Sermoneta, in Boll. d’arte, s. 6, LXXVI (1991), 70, pp. 87-122; G. Leproux, Les peintres romains devant le Tribunal du sénateur 1544-1564, in Monuments et mémoires, LXXII (1991), pp. 115-123; R. Cannatà, L’opera di G. M. da Piacenza, pittore e scultore, nel palazzo Capodiferro, in Palazzo Spada. Arte e storia, Roma 1992, pp. 31-38; Id., Palazzo Spada: le decorazioni restaurate, Roma 1995, ad ind.; G. Rédin Michaus, G.M. e Gaspar Becerra a S. Giacomo degli Spagnoli. Le cappelle del Castillo e Ramirez de Avellano, in Boll. d’arte, s. 6, LXXXVII (2002), 120, pp. 49-62; Daniele da Volterra amico di Michelangelo (catal.), a cura di V. Romani, Firenze 2003, pp. 35, 37; S. Pierguidi, I «Demoni oranti» di G. M. e il tema dei Tre Regni inginocchiati di fronte al Nome di Gesù, in Arte cristiana, XCVI (2008), 486, pp. 211-216; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIV, pp. 314 s.

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