NOVASCONI, Giuseppe Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 78 (2013)

NOVASCONI, Giuseppe Antonio

Ennio Apeciti

NOVASCONI, Giuseppe Antonio. – Nacque il 23 luglio 1798 a Castiglione d’Adda, da Pietro e da Teresa Squassi.

Fu il primo di cinque figli (tre femmine e due maschi) giunti alla maggiore età; altri tredici fratelli morirono nell’infanzia. La famiglia era d’estrazione borghese, impegnata civilmente – il padre ricoprì incarichi municipali – e di radicate convinzioni di fede: il fratello Giacinto divenne francescano.

Nel 1812 entrò nel seminario di Lodi. Ordinato sacerdote il 7 ottobre 1821, insegnò grammatica e filosofia nel seminario diocesano sino al 1831, quando divenne arciprete e vicario foraneo della collegiata dei Ss. Gervasio e Protasio di Maleo, ove operò durante l’epidemia di colera del 1836. Nel dicembre 1838 fu nominato arciprete della cattedrale di S. Maria Assunta di Lodi e in seguito esaminatore postsinodale, deputato (cioè membro della commissione di controllo) del seminario, e visitatore generale per le Scuole della dottrina cristiana. Nel dicembre 1844 abbandonò la parrocchia per farsi barnabita, ma la reazione della popolazione e le pressioni del vescovo lo indussero a desistere dal proposito. Oltre che a livello sacerdotale, la sua presenza si fece sentire anche a quello civile: durante i moti del 1848 svolse infatti opera di mediazione tra i cittadini lodigiani e il governo austriaco, invitando quest’ultimo alla clemenza verso gli insorti.

Dopo una lunga vacanza del soglio episcopale (il 10 aprile 1847 l’imperatore d’Austria aveva designato il vescovo di Cremona Bartolomeo Romilli nuovo arcivescovo di Milano), al termine della prima guerra d’indipendenza, l’11 novembre 1849, Francesco Giuseppe lo nominò nuovo vescovo di Cremona. Pio IX lo preconizzò il 20 maggio 1850, il 30 giugno 1850 fu ordinato vescovo a Roma in S. Giovanni in Laterano e il 29 settembre successivo fece il proprio ingresso in diocesi.

Sua prima preoccupazione fu la cura del seminario: raccolse i seminaristi in un’unica sede, uniformò i corsi di studi del ginnasio-liceo a quelli delle scuole di Stato e ampliò le materie di studio dei corsi teologici, in sintonia con le nuove esigenze del tempo. Il 20 febbraio 1853 indisse la visita pastorale in diocesi e la terminò nel 1858, l’anno dopo essere stato insignito da Francesco Giuseppe dell’imperiale ordine austriaco della corona di ferro di seconda classe. Solo nel giugno 1867 poté compiere la visita alla cattedrale, programmata in un primo tempo per il 1859, ma sospesa per i rivolgimenti politici di quell’anno.

Nei confronti del governo austriaco, da un lato intervenne più volte presso Josef Radetzky prendendo le difese dei sacerdoti arrestati per attività antiaustriaca, che però esortò all’obbedienza verso l’autorità costituita; dall’altro, dimostrò benevolenza verso sacerdoti liberali quali Ferrante Aporti, cremonese di origine ed esule in Piemonte, Costantino Soldi, Diomede Bergamaschi, Luigi Tosi e Stefano Bissolati, che nel 1864 lasciò il sacerdozio.

Lo scoppio della seconda guerra d’indipendenza costituì un punto di svolta nella sua vita. Dopo che il 12 giugno 1859 gli austriaci avevano abbandonato Cremona e il 16 giugno vi avevano fatto il proprio ingresso i franco-piemontesi, il 18 giugno scrisse una circolare al clero cremonese, manifestando il suo favore alla causa dell’unità italiana; lo stesso concetto ribadì nella lettera al popolo del 1° luglio successivo, mentre nella lettera pastorale del 30 agosto 1859 si pronunciò in favore di una relativizzazione del potere temporale della Chiesa, suscitando l’entusiasmo dei liberali e l’irritazione di Pio IX. Tuttavia, nonostante il 9 agosto 1859 Vittorio Emanuele II lo avesse nominato grand’ufficiale dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro, appoggiò la pubblica protesta avanzata da Pio IX con la Maximo animi del 26 settembre 1859 – che denunciava la sottrazione dell’Emilia ai possedimenti dello Stato pontificio da parte di casa Savoia – sia in una circolare al clero del 18 novembre 1859, sia in una lettera personale indirizzata il 2 dicembre 1859 al pontefice, che ne elogiò i sentimenti.

Il 29 febbraio 1860 Vittorio Emanuele II lo nominò senatore del Regno, ma Novasconi – chiesto consiglio al papa e ottenuto in risposta l’invito a interrogare la propria coscienza – non partecipò alla seduta inaugurale della proclamazione del Regno d’Italia del 17 marzo 1861.

Nel complesso, sia verso il governo piemontese, sia verso quello del nuovo Regno d’Italia mantenne una posizione di mediazione, cercando un punto dì incontro ed equilibrio tra i diversi indirizzi manifestati dal clero sugli avvenimenti politici in corso (il 18 marzo 1860 un centinaio di preti inviò a Vittorio Emanuele II un indirizzo di acclamazione a sovrano dell’Italia unita con Roma capitale; il 28 febbraio 1861 altri 100 sacerdoti si rivolsero a Pio IX, per dichiarargli che la libertà e l’indipendenza della Chiesa erano inseparabili dall’esercizio del potere temporale). Inizialmente lasciò ai preti la libertà di sottoscrivere l’indirizzo di padre Carlo Passaglia Pro causa italica ad episcopos catholicos (1861), contenente l’invito a Pio IX a rinunciare al potere temporale e infatti tra i circa 12.000 firmatari del documento figurarono più di 100 esponenti del clero cremonese. Tuttavia, quando l’indirizzo divenne troppo severo verso Roma, li invitò a ritirare la loro adesione.

Cercò di mediare con le autorità del Regno d’Italia, da un lato difendendo il Concordato austriaco del 1855, che concedeva molta autonomia alla Chiesa, dall’altro non assumendo posizioni di rigida chiusura in materia e non aderendo alla pubblica lettera di protesta firmata nell’ottobre 1860 dai vescovi di Brescia e Bergamo. Non rinunciò a denunciare a più riprese la politica anticlericale del nuovo governo, attraverso lettere – riportate dai giornali – nelle quali rimproverava all’autorità la severità usata verso gli ambienti cattolici a seguito delle loro critiche, ben diversa rispetto alla tolleranza dimostrata verso quanti umiliavano la Chiesa e il papato, ma, d’altra parte fu l’unico vescovo del nord Italia a celebrare la festa nazionale, fissata nel 1861 alla prima domenica di giugno. Dovette subire violenti attacchi da parte de La Civiltà cattolica all’indomani del suo incontro con Garibaldi – recatosi a ossequiarlo l’8 aprile 1862 – oltre che una denuncia alla Congregazione del Concilio, davanti alla quale si difese con una relazione, datata 18 ottobre 1862, conclusa con l’offerta di dimissioni, respinte da Pio IX.

Un ulteriore punto di attrito con lo Stato unitario si manifestò a partire dal 1861, quando il governo, nel progetto di nuovo codice civile, inserì la regolamentazione civile del matrimonio. Mentre l’episcopato lombardo, il 5 gennaio 1861, decise di pubblicare un’istruzione pastorale di condanna, Novasconi suggerì di inviare al Parlamento una memoria di sostegno ai deputati contrari alla legge, ma non fu ascoltato. Dopo aver rivolto al re una supplica personale in materia, quando seppe che l’istruzione dell’episcopato era stata resa più intransigente di quanto concordato, ritirò la sua firma, insieme ai vescovi di Crema e di Mantova. Nel 1865, quando la Camera approvò il nuovo codice civile e il testo passò all’esame del Senato (15-29 marzo 1865), chiese di prendere la parola in aula, ma non gli fu concesso. Promulgata la legge il 25 giugno 1865, il 24 dicembre successivo indirizzò una circolare ai parroci, per spiegare il significato della legge, a suo avviso non intenzionata a offendere il dogma della Chiesa, ma solo a regolare il matrimonio nei rapporti civili.

Allo stesso modo gestì le polemiche seguite alla pubblicazione dell’enciclica Quanta Cura, cui era annesso il Sillabo (8 dicembre 1864), commentandola sei mesi dopo, il 29 giugno 1865, con una lettera pastorale giudicata eccellente dalla S. Sede. A tale stile di lealtà verso lo Stato e di difesa della libertà della Chiesa rimase fedele durante la terza guerra d’indipendenza, anche quando, il 22 maggio 1866, il seminario fu requisito per farne un ospedale – nonostante Novasconi avesse offerto ospitalità nello stesso episcopio – e fu confiscato tutto il patrimonio ecclesiastico della diocesi.

Dal punto di vista dell’impegno caritativo, sostenne il nascente movimento cattolico e la società di mutuo soccorso fra gli operai di Cremona (costituita nel 1861 nel palazzo episcopale), così come le diverse istituzioni dedite alla formazione delle ragazze e dei ragazzi poveri, fondandone anche di nuove: le Scuole serali per i giovani operai, la Pia Casa per l’educazione dei discoli, la Scuola convitto per i sordomuti, la Società dei poveri vecchi, la Società dei discepoli della vera sapienza. A tale scopo chiamò a Cremona numerose congregazioni dedite alla carità (le suore di Maria Bambina, di S. Anna, le Ancelle della carità di Brescia, i Fatebenefratelli e i Camilliani), allontanate dal governo nel 1864. Sostenne anche le nuove fondazioni religiose diocesane: le suore di S. Dorotea e della Sacra Famiglia di Paola Elisabetta Cerioli, per la cura dei figli dei contadini, soprattutto orfani.

Morì a Cremona il 12 dicembre 1867.

Fonti e Bibl.:G. Mondani, Biografia di Monsig. A. N., prelato domestico di Sua Santità, assistente al soglio pontificio, grande uffiziale dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro, senatore del Regno, vescovo di Cremona, Milano 1869; P. Lombardini, Contributi alla biografia di sette vescovi cremonesi (1718-1864), a cura di U. Gualazzini, in Bollettino storico cremonese, XIV (1944-45), pp. 5-44; P. Salomoni, Pensiero e azione di un vescovo cremonese nel Risorgimento: Mons. A. N., ibid., XIX (1954), pp. 54-137; G. Goffi, Mons. A. N. vescovo di Cremona (1853-1867), in Rivista di Storia della Chiesa in Italia, XLV (1991), pp. 110-139; Id., La visita pastorale di mons. N. alla diocesi di Cremona (1853-1858), ibid., pp. 365-407.

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