BETUSSI, Giuseppe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 9 (1967)

BETUSSI, Giuseppe

Claudio Mutini

Nacque a Bassano intorno al 1512.

Lo Zonta ha rintracciato notizie sulla famiglia Betussi che risalgono alla prima metà del Quattrocento. In quest'epoca un Martino esercitò la professione di notaio dal 1431 al 1453. Ebbe tre figli: Battista, che ricoprì varie cariche comunali, Nicolò e Bartolomeo, che seguirono la professione paterna. Da Bartolomeo nacque Zeno, il padre del B., pittore e funzionario del Comune, che non prima del 1507 sposò Bianca Rossi, vedova di un altro pittore, Alvise di Castelfranco, il quale era ancora vivo nel 1505.

Dal testamento di Bianca, pubblicato dallo Zonta, apprendiamo che la famiglia era di agiate condizioni economiche: situazione che permise al giovane B. la frequentazione di regolari corsi di studi nella nativa Bassano. Frequentò le lezioni di Bartolomeo Nunziata, che aveva buone conoscenze in fatto di letteratura latina, sì che nella città permeata ancora dell'insegnamento di Lazzaro Bonamico, il B. dové presto raggiungere una discreta preparazione culturale, tanto latina quanto volgare. La piccola città veneta doveva, però, ben presto non soddisfare le ambizioni del letterato. Come molti giovani conterranei in cerca di danaro e di notorietà, il B. scelse la Serenissima come sua prima dimora, e a Venezia, nel 1542, inaugurò la propria attività letteraria.

Mentre egli lavora al Dialogo amoroso e al Raverta, rispettivamente pubblicati nel 1543 e nel 1544, una lettera inserita nella Raccolta di Bernardino Pino apre uno spiraglio sulla vita privata del B. durante il suo primo soggiorno veneziano. è una lettera indirizzata al cardinale Salviati, in cui l'autore, scusandosi con l'influente prelato per non aver mantenuto l'impegno di soggiornare a Padova in attesa che il fratello del cardinale, al cui seguito era stato evidentemente destinato, tornasse dalla Francia, adduce come ragione del suo trasferimento a Venezia "un vituperevole legame", per cui "non potendo più vincere l'amore, era stato costretto a tornare al l'abito antico". Gli eruditi hanno accertato che la donna è una cortigiana, quella Catea che lo scrittore menziona nel Dialogo amoroso e alla quale rivolge una serie di rime pure contenute nella prima opera a stampa. Intorno ad essa il B. tesse una piccola trama poetica a sfondo edificante. La riduzione dell'esperienza petrarchesca in termini di precettistica sentimentale appare evidente ed è anche cosa non nuova nella trattatistica post-bembiana; quel che sorprende nel B. è semmai la pronta intuizione che egli ebbe del proprio ufficio letterario, la programmatica scelta di un pubblico, al quale l'autore si manterrà costantemente fedele, l'utilizzazione di un marginale dato biografico per l'avvio di una carriera condizionata dai gusti di un auditorio vasto e spregiudicato.

Già al tempo della Catea le rime per la cortigiana si intrecciavano con quelle per una "candida, pura e semplice angeletta" e un "laccio gentil che con leggiadri modi" gli involava la libertà doveva senza dubbio sensibilizzare un pubblico avvezzo a più raffinate avventure spirituali. Quando l'autore riesce a far breccia nel circolo letterario che si raccoglieva intorno a Franceschina Baffo, le ambizioni dello scrittore immancabilmente prevaricano le modeste capacità inventive dei poeta petrarcheggiante e il B. si volge con la consueta tempestività verso quel tipo di narrativa d'appendice che fu il trattato d'amore. Mai, forse, come nel caso dei B., attività dello scrittore e genere letterario si incontrarono così puntualmente sul fulcro degli interessi stimolati dalla contemporanea cultura.

Il Dialogo amoroso è poco più che una esercitazione, ma Il Raverta rappresenta la sintesi più attendibile che il B. abbia offerto delle proprie attitudini letterarie. Nel dialogo Franceschina Baffo pone a Ludovico Domenichi e a Ottaviano Della Rovere una serie dì quesiti sulla natura d'amore ai quali gli interlocutori rispondono fornendo una definizione piatoneggiante. "Amore - secondo la prima proposizione del Della Rovere (il Raverta) - è un effetto volontario di partecipare o di essere fatto partecipe della cosa conosciuta, stimata bella". Di qui il sentimento si esplica, attraverso la scala delle forme sensibili fino alla suprema bellezza che è Dio. Questo argomento prende circa la metà del dialogo. Nella seconda parte il B. trova modo di articolare più vivacemente la prammatica trattazione inserendo una serie di digressioni novellistiche, un sonetto, un madrigále e persino una consolatoria in ottave a Vicino Orsini al quale l'opera è dedicata. Del resto, anche nella prima parte che è quella più strettamente legata al modello bembiano, l'autore si studia di movimentare l'argomento con una serie di "dubbi" esposti dalla Baffo e tendenti a far slittare la discussione sul piano di un galante e raffinato trattenimento: che è il regno del poligrafo Ludovico Domenichi, mentre al futuro vescovo Ottaviano Della Rovere èriservato il compito di sciogliere i maggiori dubbi dottrinari che investono persino la perfetta ortodossia del Canzoniere petrarchesco.

A guardar bene, l'ordinato gioco di questioni agitate nel dialogo, la codificazione di un sentimento ad uso della società colta, la finale accettazione dell'esperienza, umana e poetica, dei Petrarca corrispondono ad una partitura classicheggiante che è totalmente estranea allo schema degli Asolani.L'eredità bembiana, nei suoi elementi moralistici e retorici, trionfa nel rinascimentale genere letterario, ma si rende più duttile nella canonizzazione non più del poeta teologo, ma del vescovo e del poligrafo, ad opera, cioè, delle forze oggettivamente più dinamiche della società cinquecentesca. Che il personaggio del Domenichi rifletta i connotati dell'autore non v'è dubbio: gli amici del Domenichi, i Sansovino, i Veniero, i Doni, l'Aretino furono anche familiari al B. in quei recessi tutt'altro che nascosti della società veneziana ove ogni attività che potesse presentarsi come letteraria trovava facile diritto di ospitalità. Nel Raverta il B. dispensa iperbolici elogi al "divinissimo Pietro", e l'Aretino non mancò di ricompensare il bassanese largheggiando in consigli e favori letterari.

Nello stesso anno della pubblicazione del Raverta ilB. entrò probabilmente nella stamperia del Giolito in qualità di correttore o di consulente editoriale (venne incaricato di mettere insieme una silloge di poeti contemporanei); dopp di che, nel 1545, il conte Collatino di Collalto lo chiamò nella sua casa "non da servo, ma come carissimo amico ritenendolo".

Presso il Collalto il B. iniziò una nuova, fortunata attività: quella di volgarizzatore, dall'Eneide, di cui tradusse il libro VII (Venezia 1546), e soprattutto dal Boccaccio, del quale furono tradotti De claris mulieribus (Venezia 1545) con una vita dell'autore, De casibus virorum illustrium (Venezia 1545) e De genealogiis deorum (Venezia 1547). Notevole èl'importanza di queste opere qualora soltanto si pensi che dalla Vita boccaccesca del B. attinsero quasi tutti i biografi cinquecenteschi del Boccaccio. Attraverso la traduzione betussiana la novellistica rinascimentale recupera il Boccaccio latino, che non è certo il dotto emulo del Petrarca, ma uno scrittore di curiosità variamente allettanti quando addirittura non accettabili moralisticamente più delle novelle del Decameron.

Frattanto il B. compiva vari viaggi in Italia: tra il 1547 e il '49 è presente a Firenze e a Roma.

In questo periodo appare ancora al servizio del Collalto: figura infatti nel dialogo Il Nobile di Marco Della Fratta stampato a Firenze nel 1548. Il dialogo si finge avvenuto in casa del Collalto e tutti gli interlocutori appaiono vincolati da legami di sincera arrucizia con il nobile ospite. Sembrerebbe quindi difficile che in un'opera esaltante la casa di Collalto fosse stato introdotto un interlocutore in dissidio con il potente mecenate tanto da abbandonarlo l'anno stesso in cui veniva pubblicata l'opera encomiastica. Più probabile appare l'ipotesi - avanzata dallo Zonta - secondo cui il B. si sarebbe licenziato dal Collalto nel 1549, allorché questi partì per la Francia: in effetti il 1549 è l'anno in cui lo scrittore fa la sua ricomparsa a Venezia fra i più stretti familiari dell'Aretino.

Nel 1550 è a Milano dove frequenta le case dei Borromeo e viene benevolmente accolto presso l'Accademia dei Fenici. Nel 1552 è a Melazzo, ospite della poetessa Leonora Ravoira-Falletti. Per compiacerla compone la Leonora, ragionamento sopra la vera bellezza,(pubbl. Lucca 1557).

Nei primi mesi del '54 il B. è a Savona, nel 1555 a Civasco. Tra il 1555 e il '58 soggiorna a più riprese presso Ippolito Gonzaga, i Borromeo, i Madruzzo a Pavia; visita il Varchi a Firenze, rinnova l'amicizia con Vicino Orsini e rende omaggio a Giulia Farnese; frequenta Vittoria Colonna e Giovanna d'Aragona. Si recò anche a Siena e compianse la sorte della città al tempo dell'assedio sostenuto contro gli imperiali.

A Roma, nel 1556, scrive Le Imagini del tempio di Giovanna d'Aragona, faticosa compilazione a sfondo celebrativo pubblicata nello stesso anno a Firenze, ove portò a termine La Leonora, mentre era ospite nella villa della Topaia, donata da Cosimo de' Medici al Varchi.

L'attività di gazzettiere mondano rende al B. una notevole celebrità. L'autore è pienamente consapevole della propria fortuna letteraria e spera di poter trovare una stabile sistemazione presso un potente signore. Incarica della faccenda Luca Contile, il quale gli promette la protezione di un potente mecenate. Non si sa il nome del personaggio scelto dal Contile, ma è certo che ad una lettera che questi gli indirizzò il 20 marzo 1559 il B. non si degnò di rispondere. Aveva forse già in mente di entrare al servizio di Gian Luigi Vitelli. E difatti, in virtù delle raccomandazioni di Annibal Caro, nell'ottobre dei 1559 il B. entrava al servizio del famoso condotticro.

Accompagnato il Vitelli in Spagna, e ritornato in Italia passando per Barcellona, Marsiglia e Torino, il B. nel 1563 è a Milano pronto, come sembra, a sbarazzarsi del Vitelli. A Milano, dove risiede ancora nel 1565, medita un'opera celebrativa delle più illustri famiglie italiane, opera che non vide mai la luce.

Fortemente fondato rimane però il sospetto che gran parte di essa, aggiornata fino al 1582, sia stata plagiata dal Sansovino o addirittura rifusa nell'Origine e i fatti delle famiglie illustri d'Italia pubblicata, morto il B., dall'altro poligrafo veneziano. "Per quanto nella Origine e fatti delle famiglie illustri vengano completate, allargate, talora anche radicalmente modificate - osserva lo Zonta - le accidentali notizie genealogiche che ricorrono nei lavori betussiani, pure un segno. una traccia resta sempre della materia e più ancora della forma e del metodo del letterato bassanese… ".

L'ultimo tour de force del B. fu il Ragionamento sopra il Cathaio, pubblicato a Padova nel 1573. Il bassanese era capitato presso la famiglia degli Obizzi, probabilmente per raccogliere notizie da inserire nell'opera sulle più illustri famiglie italiane, proprio quando il marchese Pio aveva concluso la fabbrica del Cataio, palazzo presso Battaglia, ed era in procinto di "rappresentare con pitture seguentemente e per ordine la maggior parte de' fatti egregiamente operati da' suoi maggiori, le vittorie, i gradì, i titoli et il più de' loro splendori con le narrazioni et autorità loro". L'ingegno dei B. si sarebbe ben prestato per ricostruire la storia di tutta la famiglia e offrire soggetti artistici tali da essere poi trattati pittoricamente. La duplice opera fu rispettivamente affidata da Pio Obizzi al B. e al pittore veneziano Battista Zelotti, discepolo di Tiziano.

Dopo la pubblicazione del Cathaio non si hanno più notizie del Betussi. Morì probabilmente poco oltre il 1573

Fonti e Bibl.: P. Aretino, Le Lettere, Parigi 1609, II, pp. 2, 60, 265; III, pp. 65, 66, 239, 315, 323, 325; VI, pp. 249, 294; V, pp. 110, 124; L. Contile, Le Rime, Venezia 1560, p. 73; Id., Lettere,Pavia 1564, pp. 185 ss.; Racc. di lettere fatta da B. Pino, II, Venezia 1574, p. 111; Nuova scelta di lettere fatta da B. Pino, II, Venezia 1580, p. 117; G. M. Mazzuchelli, Gli Scritt. d'Italia, II, 2, Brescia 1760, pp. 1100, 1339; F. Argelati, Bibl. dei volgarizzatori, Milano 1767, p. 249; G. B. Verci, Degli scrittori bassanesi, II, Venezia 1775, pp. 1-93; M. Rosi, Saggio sui trattati d'amore, Recanati 1889, p. 45; Id., Scienza d'amore, idealismo e vita Pratica nei trattati amorosi dei Cinquecento, Milano 1904, passim; F. Flamini, Il Cinquecento, Milano 1905, ad Indicem; G.Zonta, Note betussiane, in Giorn. stor. della letter. ital., LII (1908), pp. 321 ss.; L. Savino, Di alcuni trattati e trattatisti d'amore italiani della prima metà dei sec. XVI, in Studi di letter. ital., IX(1912), pp. 164 ss.; P. Lorenzetti, La bellezza e l'amore nei trattati dei Cinquecento, Pisa 1917, passim; L. Tonelli, L'amore nella poesia e nel pensiero del Rinascimento, Firenze 1933, passim.

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