CAMMARANO, Giuseppe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 17 (1974)

CAMMARANO, Giuseppe

Oreste Ferrari

Nato a Sciacca (Agrigento) da Vincenzo e da Caterina Sapuppo, il 4 genn. 1766, è considerato il principale esponente, insieme con C. Angelini, della pittura neoclassica napoletana. Suo padre, che era noto attore del teatro comico dialettale, già sullo scorcio dell'anno precedente si era trasferito a Napoli, ove presto lo raggiunse il resto della famiglia. Il C. si formò dunque a Napoli, e, indirizzatosi allo studio della pittura, fu allievo all'Accademia di Belle Arti di F. Fischetti e ancor fanciullo collaborò con lo scenografo del teatro S. Carlo, D. Chelli, con il quale fece anche un viaggio a Roma. Passò poi a collaborare con il paesaggista tedesco Ph. Hackert, eseguendo le figurine nei paesaggi che questi aveva dipinto nel casino da caccia della tenuta reale di Carditello (1786-87). Proprio grazie all'interessamento dello Hackert ottenne una sovvenzione ("pensionato") per recarsi a completare i suoi studi a Roma. Avrebbe dovuto rimanervi per cinque anni ma già nel 1788, colto da malattia, tornò a Napoli. I due anni trascorsi a Roma furono comunque assai proficui, per i contatti che egli allora ebbe con gli artisti più rappresentativi delle tendenze neoclassiche, tra i quali principalmente il Sabatelli; si dedicò per altro assiduamente allo studio dei grandi maestri del Cinque e Seicento, da Raffaello ad Annibale Carracci al Poussin: si ricorda anche di lui una copia dell'affresco della Divina Sapienza di Andrea Sacchi in palazzo Barberini (Lorenzetti).

L'orientamento di questo tirocinio denota come il C. intendesse recepire non passivamente il canone neoclassico, bensì pure riattingere a quelle fonti del tradizionale classicismo delle quali aveva già raccolto un'eco lontana e svanita nelle decorazioni del suo primo maestro, il Fischetti. Fatto sta che in qualche opera che si può ragionevolmente supporre databile all'ultimo decennio del Settecento - come le "mitologie" del Museo di S. Martino a Napoli - e nell'acquarello raffigurante un Eremita (1798, Napoli, Gall. dell'Accademia) l'accento neoclassico rievoca moduli raffaelleschi e pare pure temperato da un residuo brio rococò. Non diverso doveva essere quel quadretto intitolato Le favole di Esopo, oggi irreperibile ma citato ancora dal Cecchi e dal Biancale come esempio di vivace luminismo e perfino di spunti naturalistici.

Dopo il ritorno a Napoli il C. aprì una sua scuola di pittura, che non dovette avere però gran successo se nel 1799 - facendosi vanto per il fatto che "nella passata rivoluzione non ha dato alcun segno equivoco del suo attaccamento alla R. Corona" - inoltrò domanda per ottenere un incarico di insegnamento all'Accademia. Non fu tuttavia esaudito dai Borbone, bensì, più tardi, da Giuseppe Bonaparte, che il 29 marzo 1806 lo nominò successore di D. Mondo, quale vicedirettore dell'Accademia; soppressa questa carica appena cinque mesi dopo, il C. restò "maestro di pittura". Mantenne l'incarico anche dopo la restaurazione borbonica e quando fu effettuata la riforma dell'Accademia (1822) passò allo "studio di paesaggio", a lui assai poco congeniale ("non avendo mai conosciuto questo ramo della pittura", come egli stesso confessava in un suo esposto indirizzato al sovrano: cfr. Lorenzetti, p. 89). Si indusse pertanto a chiedere nel 1824 la cattedra di nudo, che però era stata poc'anzi abolita. Egli restò dunque senza più incarico alcuno fino al 5 maggio 1827, quando fu richiamato a dividere con l'Angelini, il Franque e altri la cattedra di disegno.

Nel frattempo aveva svolto un'intensa attività di decoratore per i Borbone: nel 1814, con la collaborazione del fratello Antonio, affrescò la volta della sala del Consiglio della reggia, di Caserta, raffigurandovi Minerva che premia le arti e le scienze e, nella stessa reggia, affrescò poi le volte della camera da letto del re (Teseo che uccide il Minotauro)e di un salotto (Ettore che rimprovera Paride, con data 1818). Nel 1816 intanto era stato chiamato dal Nicolini a decorare la volta del rinnovato teatro S. Carlo, con una vasta composizione su tela, ideata dallo stesso architetto e in cui figura Apollo che presenta a Minerva i maggiori poeti, da Omero ad Alfieri. IlC.lavorò quindi nel palazzo reale di Napoli e nel 1819 ne ornò un salone con un affresco raffigurante Minerva che premia le Virtù. In tutte queste decorazioni il C. sviluppa una sua formula stilistica di impronta fondamentalmente neoclassica e però sempre memore dei moduli coloristici tardosettecenteschi: risultandone così un certo eclettismo, comunque di piacevole raffinatezza.

Nel 1820 eseguì quella che è l'opera sua più conosciuta, la grande tela raffigurante Francesco di Borbone, duca di Calabria, con la sua famiglia, che rende omaggio al busto di Ferdinando I (Caserta, pal. reale), commissionata dallo stesso futuro Francesco I in occasione del compleanno del re.

È un'opera in cui oggi è facile scorgere aspetti involontariamente umoristici, per quello stereotipo allineamento di figure ritratte con puntigliosa esattezza nelle loro scialbe fattezze, sullo sfondo d'un Vesuvio innocuamente fumigante. Ma proprio per questa bonomia di "gruppo di famiglia" è anche un quadro che mette a nudo i limiti e le declinazioni accademizzanti del neoclassicismo del Cammarano.

Decisamente migliori sono altri saggi della ritrattistica del C., come le due piccole tele che raffigurano le figlie Rosa e Carmela (Napoli, Museo di S. Martino), venate di patetica arguzia.

La produzione più tarda dell'artista è segnata da un progressivo irrigidimento formale e, come ha ben notato C. Lorenzetti (p. 217), da un esteriore riaccostamento ai modi del Sabatelli. Tipiche di questo momento sono le quattro Scene mitologiche affrescate (1838) sulle pareti di due sale del palazzo reale di Napoli ora occupate dalla Biblioteca nazionale (G. Guerrieri, Dialcuni affreschi..., in Accad. e Bibl. d'Italia, II [1928-29], 3, pp. 27-32).

Il C. esercitò occasionalmente anche l'attività di restauratore: nel 1832 infatti, con M. De Gregorio, consolidò e ritoccò gli affreschi di M. Stanzione nel soffitto della navata della chiesa di S. Paolo Maggiore a Napoli.

Amò talvolta unirsi agli altri componenti della sua famiglia, quasi tutti attori professionisti, per impersonare parti nel teatro dialettale: fu anzi per qualche stagione, in concorrenza con il padre del famoso Antonio Petito, un applaudito Pulcinella del teatro S. Severino al vico Figuran. Fu inoltre autore di saporite liriche in dialetto napoletano (Martorana). Negli ultimissimi anni della sua vita trovò conforto nel guidare il nipote Michele sui primi passi verso l'attività di pittore. Morì di tifo a Napoli il 2 ott. 1850.

Antonio, fratello del C., fu anch'egli pittore, alquanto stimato ai suoi tempi se il Calà Ulloa lo annoverava, nel 1859, tra coloro che contribuirono al rinnovamento della pittura di paesaggio a Napoli e lo caratterizzava per "une touche vigoureuse, abondante, variée à rendre les effects des forêts et les splendeurs du ciel...". La sua formazione si appoggiò tuttavia sugli esempi del vedutismo minuzioso e descrittivo dei paesisti nordici attivi a Napoli, in particolare di Ph. Hackert e di Chr. Knipe: proprio sullo studio di questi esempi, decisamente tradizionali, egli indirizzò poi il pronipote Michele, dalle Memorie del quale (v. Biancale) apprendiamo, per altro, che Antonio raramente eseguì quadri, ma piuttosto disegni ("qualche coscienzioso studio dal vero").

Di questa sua attività ci restano scarsi esemplari, compresi nel fondo di disegni provenienti dalla stessa famiglia Cammarano e acquistati nel 1910 dal Museo di S. Martino a Napoli: in alcuni di essi, come nel foglio con la Veduta delle mura di Sorrento, si scorge comunque anche un accostamento non del tutto precario ai modi del Pitloo e degli altri esponenti della "scuola di Posillipo".

Le sole notizie biografiche che di lui si conoscano riguardano la concessione - nell'agosto del 1814 - di un sussidio dell'Accademia di Belle Arti "per condursi in qualche sito a trarre dal vero dei punti di veduta", e la nomina, il 10 dic. 1827, a professore onorario e "maestro di disciplina" (cioè in pratica a supplente) della cattedra di paesaggio all'Istituto di Belle Arti. Si sa pure che partecipò alle mostre borboniche dal 1825 al 1830, soltanto da giovane aveva collaborato con il fratello nelle decorazioni per la reggia di Caserta.

Bibl.: F. Napier, Pittura napoletana dell'Ottocento (Notes on modern painting in Naples)[1855], a cura di S. D'Ambrosio, Napoli 1956, pp. 27-29; P. Calà Ulloa, Pensées et souvenirs sur la littérature contemporaine du Royaume des Deux-Siciles, Genève 1859, I, p. 100 (pp. 101, 103 per Antonio); P. Martorana, Notizie biogr. e bibl. d. scrittori del dialetto napol., Napoli1874, pp. 50-53; R. Colucci, G. C., in Albo artistico napoletano, Napoli 1893, pp. 17-24; A. Filangieri di Candida, Lacollezione Cammarano acquistata dal Museo di S. Martino, in L'Arte, XIII (1910), p. 70 (anche per Antonio); E. Cecchi, Pittura italiana dell'Ottocento, Roma 1926, pp. 99 s.; M. Biancale, Michele Cammarano, Milano-Roma 1936, pp. 11-22 (p. 8 per Antonio); C. Lorenzetti, L'Accademia di Belle Arti di Napoli, 1752-1952, Firenze 1952, pp. 55 s., 89 s., 215-218 (pp. 97, 218, 237 per Antonio); G. Doria-F. Bologna, Mostra del ritratto storico napoletano (catal.), Napoli 1954, pp. 67 s.; P. Ricci, in Michele Cammarano (catal.), Napoli 1959, pp. 18 s.; H. Acton, IBorboni di Napoli, Milano 1960, pp. 731, 780; A. Ottino della Chiesa, Il neoclassicismo nella pittura italiana, Milano 1967, pp. 21, 92; V. Viviani, Storia del teatro napoletano, Napoli 1969, p. 545; La Galleria dell'Accad. di Belle Arti…, Napoli 1971, pp. 102 s.; The Age of Neo-Classicism (catal.), London 1972, pp. 25 s.; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, V, pp. 442 s. (con ulter. bibl. prec.).

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