CARPANI, Giuseppe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 20 (1977)

CARPANI, Giuseppe

Gian Paolo Marchi

Nacque a Villalbese nel Comasco il 28 genn. 1752 da Giacinto e Orsola Ripamonti. Dopo aver compiuto i primi studi presso i gesuiti di Brera, fu avviato alla carriera forense; conseguita la laurea in giurisprudenza nell'università di Pavia, fu assunto come praticante dall'avvocato Villata di Milano. Ma più che alla professione, si dedicò a scrivere "una tempesta di versi italiani e nel dialetto milanese"; alcuni sonetti pubblicati in morte dell'imperatrice Maria Teresa piacquero al Parini, che a sua volta espresse all'autore la sua ammirazione con un sonetto in milanese ("Bravo Carpan! Ho vist quij ses sonett / ch'avì faa per la mort de la Regina…":G. Parini, Poesie, a cura di E. Bellorini, II, Bari 1929, p. 265). Scrisse inoltre molti drammi (celebre tra tutti I Conti di Agliate)destinati al teatro di Monza, villeggiatura dell'arciduca Ferdinando e della sua consorte. Dal 1792 al 1796 fu tra i redattori della Gazzetta di Milano, dove con lo pseudonimo di Veladino pubblicò una serie di articoli fieramente avversi allo spirito della Rivoluzione francese. Nel 1796 seguì l'arciduca Ferdinando a Vienna. Dopo il trattato di Campoformio, dall'imperatore Francesco II fu nominato censore e direttore dei teatri di Venezia, cariche che esercitò fino alla fine del 1804, dando prova di un estremo rigore nel proibire pubblicazioni e opere teatrali che anche indirettamente potessero suscitare movimenti di opinione contrari alla restaurazione del vecchio ordine. Testimonianza di questa sua attività sono alcune lettere al conte F. di Bissingen, governatore di Venezia (cfr. Ciampini, 1966). Nel 1802, ad esempio, si preoccupava di compiacere il vescovo di Vicenza proponendo la proibizione dell'Abrégéde l'origine de tous les cultes ou religion universelle diCharles François Dupuis; l'anno seguente preparò un memoriale Su alcuneprovvidenze necessarie all'ufficio della censura per norma de' censori, e massime de' teologi (ibid.) inteso ad uniformare in tutto l'Impero i criteri di censura; del 1804 è un altro memoriale in cui espone le sue Massime colle quali si regola la Regia censura di Venezia nella esclusione delle pezze teatrali (ibid.).

Dovevano essere escluse dalla rappresentazione anzitutto quelle composizioni che affrontassero in modo pericoloso ed offensivo i temi della religione, della sovranità, della nobiltà, e che favorissero i principi democratici. Scendendo sul terreno dell'esemplificazione concreta, il C. giudica che "le pezze più pericolose pel buon costume e rispetto all'autorità sovrana e l'onore de' nobili sono quelle di Kotzebue e le ultime del teatro francese. D'Alfieri non si possono admettere, e con alcune piccolissime correzioni, ma indispensabili, che le seguenti: Antigone, Rosmunda, Oreste, Agamennone.L'Aristodemo pure del Monti va corretto. Il teatro di Goldoni si può admettere tutto, eccetto qualche frase alle volte troppo libertina".

Anche nella Lettera di un viaggiatore ad un amico sopra i teatri di Venezia (scritta nel 1804, ma pubblicata con le Rossiniane vent'anni dopo), il C. mostra una spiccata predilezione per "le commedie dell'immortale avvocato Goldoni". Del resto, a parte il furore censorio ostentato nelle Massime sopra citate, gli scritti del C. risentono fortemente della cultura illuministica e di larghe letture dei philosophes, di frequente citati nelle sue opere più impegnative, fondate su un'interpretazione del sensismo tutt'altro che sprovveduta.

Nel 1805 tornò definitivamente a Vienna; arrivato nella capitale il 12 febbraio, scrisse il giorno dopo a Isabella Teotochi Albrizzi, manifestando viva nostalgia per Venezia (elemento questo che caratterizza tutto il carteggio con la gentildonna) e fornendo notizie intorno al suo dramma L'Uniforme, musicato da Joseph Weigl. Il C. era stato infatti nomimto poeta del teatro imperiale, con una congrua pensione; e svolse un'assidua attività di librettista e di traduttore, vivendo in stretta familiarità con i più famosi musicisti che gravitavano intorno alla corte viennese, e nutrendo sempre ferma fiducia, anche se amareggiato per i rovesci militari, nella ripresa e nella vittoria finale dell'Austria.

Nel 1809 seguì l'arciduca Giovanni nella sua campagna di guerra; degli avvenimenti di cui fu spettatore tenne un diario, che fu distrutto per sua disposizione testamentaria. Dal 1808 al 1811 scrisse Le Haydine, ovvero lettere sulla vita e le opere del celebre maestro Haydn (Milano 1812).

Si tratta di un'opera densa di notizie di prima mano, stesa in uno stile piacevole e chiaro; Haydn incarna nella vita e nell'arte l'ideale di semplicità e di chiarezza che il C. esalta al di sopra di ogni altro pregio nella musica strumentale. Di lui ammira "quelle frenate improvvise d'orchestra", e "il ritardare le cadenze"; nella sua musica riscontra "siccorrie nelle ciceroniane orazioni, tutte quasi le figure rettoriche messe in pratica…. le quali, adoperate frammezzo a quella sua rapidità senza esempio, producono un effetto meraviglioso"; il C. insomma apprezza la varietà e la vivacità dell'invenzione e della elocuzione di Haydn in quanto si situano in una sintassi rigorosa. La musica strumentale, dopo che Haydn ha cessato di comporre, "un solo potrebbe ancor sostenerla", un musicista che il C. non nomina, ma di cui proclama il singolarissimo genio, pur deprecando che, come una sorta di "Kant della musica", non voglia "porre un freno alla sua fantasia", e "farsi un sistema chiaro, intelligibile, sensato, e seguirlo". Si tratta di Beethoven, cui il C. tributò una sincera ammirazione, temperata dalla preoccupazione che, soprattutto nel melodramma, le bellezze del "bethowiano caos" non seducessero la gioventù studiosa ad una imitazione sterile per chi di Beethoven non avesse "il genio ed il sapere" (LeRossiniane, pp.78-79).

Le Haydine possono considerarsi uno dei più insigni esempi di letteratura musicale italiana; pure sono note soprattutto per la vicenda del plagio stendhaliano. Con lo pseudonimo di Louis-Alexandre-César Bombet, Stendhal pubblicò a Parigi nel 1814 Lettres écrites de Vienne en Autriche sur le célébre compositeur Joseph Haydn.La prima parte del volume è una traduzione non priva di fraintendimenti delle Haydine:il C. protestò pubblicando nel 1815 a Vienna (e facendo ripubblicare a Como) Lettere due contro il Bombet "sedicente autore delle medesime". Ma per la singolare malafede dei giornalisti del Constitutionnel di Parigi, e per l'ancor più singolare impudenza di Stendhal, che ritorse sul C. l'accusa di plagio, ripubblicando nel 1817 col suo nome l'opera contesa, la questione "si trascinò per molti anni senza che all'offeso fosse data soddisfazione, se non nell'ambiente musicale viennese, presso il quale Stendhal aveva millantato un credito che mai gli era stato concesso di godere. Il C. invece aveva l'amicizia di tutti i musicisti attivi a Vienna: e basti dire che la sua arietta "In questa tomba oscura" fu musicata da sessanta autori, tra cui Beethoven, Mozart figlio, Salvini, Paër, Weigl; e che fu lui a fornire un'idonea traduzione del testo della Creazione di Haydn, ancor oggi adottata.

Intanto, il tramonto dell'astro napoleonico infondeva nuove speranze nel C., che scrivendo all'Albrizzi nel 1814, dopo Lipsia, manifestava l'intenzione di tornare "a riveder l'Italia"; e, morto Napoleone, maledisse alla sua memoria, "perché suscitò in noi lo spirito nazionale, ci mostrò un'Italia e non ci concesse di darcela, formando una nazione; perché ad impedire ciò che ci prometteva, rese francese una parte della tradita penisola, ed impose leggi non uniformi al rimanente. Ingravidò la fanciulla innocente, e non le permise di partorire" (lettera all'Albrizzi del luglio 1821). Appena assopitasi la polemica con Stendhal, il C. aveva avviato una lunga disputa con Andrea Majer, che nel 1818, pubblicando a Venezia un trattato Della imitazione pittorica, della eccellenza delle opere di Tiziano e della vita di Tiziano scritta da S. Ticozzi, aveva sostenuto l'assoluta eccellenza di Tiziano e della scuola veneziana, nel quadro di una totale svalutazione della pittura e della trattatistica neoclassica ispirata alle idee del Winckelmann e del Mengs: ad essa opponeva un programma di fedeltà alla natura, sintetizzato nella proposta di prendere come "esemplare di dignitosa costanza nel sopportare i dolori" non il Laocoonte vaticano, ma "un granatiere che sul campo di battaglia si lascia, senza scomporsi, amputare dal chirurgo una gamba frantumata". Il C. sostenne la necessità per l'artista di perseguire il "bello ideale" in alcune lettere ospitate nel settembre-dicembre 1819 nella Biblioteca italiana diretta da Giuseppe Acerbi, di cui il C. era amico e corrispondente assiduo e fidato; a queste lettere raccolte in volume l'anno successivo (Del bello ideale, e delle opere di Tiziano lettere di G. C., Padova 1820), il Majer rispose con una Apologia del libro della imitazione pittorica contro tre lettere di G.C. a G. Acerbi (Ferrara 1820), suscitando l'indignazione dell'avversario, che replicò ripubblicando le lettere col titolo Le Majeriane (Padova 1824).

Ad esse aggiunse un Corollario, una sorta di summa delle sue idee estetiche, che non si scostano in misura significativa dalle linee fissate dall'Algarotti e dal Lessing, se non fosse per l'esigenza di una fondazione filosofica, o meglio teologica dell'attività artistica: esiste solo "un bello in sé", non "un brutto in sé, perché Dio non poteva crearlo"; quindi l'artista deve proporsi di individuare e riscattare nella natura "il perfetto equilibrio e l'armonica corrispondenza delle parti col tutto", lasciando l'imitazione della natura, di cui gli occhi umani non possono penetrare la perfezione, "sia per la limitata forza dei nostri organi, sia per l'alterazione del primitivo ordine delle cose". In questa prospettiva, nega ogni possibile esemplarità alla pittura italiana delle origini (Cimabue e Giotto), e svaluta completamente l'esperienza caravaggesca.

La polemica degenerò in violenti attacchi personali; il C. si lamentò con l'Albrizzi dell'inurbanità del Majer, accusandolo di "falsità, imposture, calunnie, insolenze, cavilli, menzogne le più sfacciate": e certo il Majer poteva far leva sui molti nemici che il C. si era fatto esercitando a Venezia l'ufficio di censore.

Nel 1824 uscirono a Padova Le Rossiniane, ossia lettere musico-teatrali, in cui il C. sostiene l'assoluta eccellenza di Rossini nell'ambito del melodramma.

Anche qui, come nelle Majeriane, insistendo sulla musica come "potenza fisica", egli non rinunci al tentativo di basare il suo discorso su fondamenti filosofici; tuttavia, anche a causa della frammentarietà dell'opera, Le Rossiniane sono inferiori, nonché alle Haydine, anche alle Majeriane.L'amore per Rossini, di cui favorì, a quanto pare, l'incontro con Beethoven nel 1822 (ma che tale incontro sia avvenuto, nega A. Schindler, Biographie von L. v. Beethoven, II, Münster 1840, p. 178; e certo Beethoven si sdegnava di essere accostato a Rossini: v. L. Magnani, Beethoven nei suoi quaderni di conversazione, Torino 1971, p. 151), si inquadra nella sua coerente ideologia della Restaurazione, esposta con grande chiarezza nel Saggiodi confutazione dell'errore di quelli che vociferano scadere di presente gli studi, l'arti e le scienze in Italia (pubblicato in appendice alle Majeriane nel 1824), in cui il C. tesse l'elogio degli ingegni italiani (come Canova, Rossini, Paganini, l'improvvisatore Sgricci, il cardinal Mai), non impegnati politicamente nel processo di riscatto nazionale, giudicato illusorio e pernicioso; non senza una puntata polemica nei confronti della idealizzazione del Medioevo proposta dai romantici.

In appendice alla seconda e alla terza edizione delle Majeriane il C.pubblicò una dichiarazione in cui diffidava il signor Bombet (di cui però conosceva ormai la vera identità) dal plagiare anche quest'opera: avvertimento non superfluo, dal momento che Stendhal desunse molto materiale dalle Rossiniane perla sua Vie de Rossini.

Il C. morì a Vienna il 28 genn. 1825.

Oltre gli scritti più rilevanti, di cui si è fatta particolare menzione, occorrerà ricordare: il libretto originale Gli antiquari di Palmira (musicato da G. Rust, 1780); i libretti tradotti per il teatro di Monza (Riccardo Cuor di Leon, musicato dal Grétry, 1787; Nina, ossia La pazza per amore (1788) e I due ragazzi savoiardi (1793), musicati dal Dalayrac; cantate di corte: Il miglior dono, Il giudizio di Febo, L'incontro (musicate rispett. dal Weigl, dal Pavesi, dal Gerace); inoltre, Lettera in difesa del Maestro Salieri calunniato di avvelenamento del Mozzard (sic), Milano s.d.; Spiegazione drammatica del monumento della Reale Arciduchessa Cristina, opera dell'immortale Cavaliere Canova, Vienna 1806; Lodoviska, melodramma serio (Venezia 1819). Oltre alla citata traduzione del testo dell'oratorio La creazione del mondo, al C. si deve anche il testo di un grande oratorio musicato da J. Weigl, La passione di N. S. Gesù Cristo, Milano 1824.

Fonti e Bibl.: La biografia del C. di G. B. Baseggio, in E. De Tipaldo, Biografia degli Ital. illustri, X, Venezia 1845, pp. 167-170, ricalca il necrol. apparso anonimo (ma di G. Acerbi) sulla Biblioteca italiana del febbraio 1825; voci più succinte in Biografia degli Ital. viventi, Lugano1818, pp. 153 ss.; C. von Wurzbach, Biographisches Lexikon des Kaiserthums Oesterreich, II, Wien 1857, pp. 289-290; F. J. Fétis, Biographie univ. des Musicions, II, Paris 1866, pp. 194-195 (giudizio sfocato e sommariamente negativo).Un elenco delle opere del C. è dato da E. Zanetti, in Enc. dello Spettacolo, III, Roma1956, coll. 92-93. Il carteggio con l'Albrizzi è stato pubblicato da R. Ciampini, Lettere inedite a Isabella Teotochi Albrizzi (1805-1821), Firenze 1973. Al Ciampini si deve anche un articolo su G. C.rivale di Stendhal, in Nuova Antologia, febbraio 1954, pp. 237-248. Una lettera (Vienna 1º febbr.1823) del C. a Ippolito Pindemonte è segnalata nella Bibl. com. di Verona(N. Cremonese Alessio, Carteggio di I. Pindemonte. Bibliografia, in Atti dell'Accad. di agricoltura, scienze e lettere di Verona, s. 6, V[1953-54], p. 423); molte lettere, ricche di "ghiotti particolari sulla corte austriaca e sulla vita letteraria e artistica a Vienna", inviate all'Acerbi, sono conservate nella Bibl. comun. di Mantova; al C. l'Acerbi indirizzò inoltre un ampio memoriale sugli intenti del suo periodico: A. Luzio, La "Biblioteca Italiana" e il governo austriaco. Documenti, in Riv. stor. del Risorg. ital., I (1895), pp. 654-65; Id., Studi e bozzetti di storia politica e letteraria, I, Milano 1910, pp. 16-17. Per il C. censore si veda R. Ciampini: G. C. e la censura a Venezia ai primi dell'Ottocento (docc. ined.), in Riv. ital. di studi napoleonici, V (1966), 14, pp. 177. Sulla polemica per il plagio di Stendhal, si veda: C. Stryieriski, Les "dossiers" de Stendhal, in Mercure de France, ottobre 1903, pp. 5-23; E. Henriot, Stendhal, Bombet et C. d'après des documets inédits, in Le Temps (Parigi), 5 febbraio del 1914; L. F.Benedetto, Arrigo Beyle milanese, Firenze 1942(trascrizione delle due lettere del C. contro Bombet-Stendhal); E. Sioli Legnani, Contributo alla bibliogr. di Henry Beyle. In margine al "plagiat" milanese austriaco francese di Stendhal, in Arch. stor. lombardo, s.8, VI (1956), pp. 308-14. Notizie sul C. anche in V. Monti, Epistolario, a cura di A. Bertoldi, IV, Firenze 1929, pp. 240, 303, 344; V, ibid. 1930, p. 162; N. F. Cimmino, Ippolito Pindemonte e il suo tempo, II, Roma 1968, p. 354.

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