CHECCHETELLI, Giuseppe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 24 (1980)

CHECCHETELLI, Giuseppe

Fiorella Bartoccini

Nacque a Roma il 25 nov. 1823 da Antonio e da Vincenza Campanelli, originari di Ciciliano presso Tivoli. Si laureò in diritto, ma non esercitò mai la professione di avvocato, preferendo svolgere attività letteraria.

Vi si dedicò nel quadro dei possibili incarichi e delle impronte culturali della Roma del tempo, che con ritardi e travisamenti tentava di innestare stimoli romantici nel solido tessuto della tradizione classicista ed erudita; scrisse versi, tragedie, melodrammi, articoli per riviste di varia cultura (Il Tiberino,L'Ape italiana delle belle arti,Notizie del giorno,L'Architetto girovago). Svolse funzioni di bibliotecario dei duchi Sforza Cesarini e contribuì anche - sembra - al riordinamento dell'archivio di casa Borghese (è, comunque, certo un suo rapporto con alcuni nobili romani, che gli saranno utili nella attività politica). Fra gli scritti si ricordano: Il Burbero benefico, melodramma musicato da A. Carcano e rappresentato al teatro Valle nel 1841; Una giornata di osservazione nel palazzo della villa di S.E. il principe d. Alessandro Torlonia, Roma 1842; C. Finelli e le sue sculture, ibid. 1854; un particolare significato hanno le Memorie della storia d'Italia considerata nei suoi monumenti, ibid. 1841-43, timida apertura alla istanze risorgimentali dell'epoca in un quadro di retorica esaltazione delle glorie passate.

Il C. è colto per la prima volta in piena attività politica nel periodo riformista di Pio IX: i precedenti - carboneria, mazzinianesimo, giobertismo - sono più intuibili che accertabili, testimonianza delle incertezze e delle contraddizioni del liberalismo romano, soggetto a stimoli esterni che non riusciva a definire e a concretizzare sul terreno reale di trasformazione di una Roma ancora paga delle sue arcaiche condizioni. Accettò con entusiasmo Pio IX, organizzando dimostrazioni nell'ambito del democratico Circolo popolare, e andò volontario in guerra, distinguendosi nella difesa di Vicenza (raggiunse il grado di capitano). Dal giugno al dicembre 1847 diresse il periodico La Pallade, fondato da F. Gerardi, cui dette, insieme a una accentuata impostazione liberale e nazionale, anche un tono giornalistico nuovo, ricco di notizie e commenti e, soprattutto, ricco di indicazioni su problemi e richieste locali. Il C. accettò l'evoluzione repubblicana del 1849, propagandola nella vicina provincia, e combatté nella difesa militare della città. Non tenne comunque una posizione tale che lo esponesse, dopo la restaurazione pontificia, al pericolo dell'arresto e dell'esilio: poté così entrare a far parte di quel gruppo che, intorno a C. Mazzoni, tentava di dar vita all'Associazione nazionale, di cui Mazzini aveva lanciato a Roma la prima organizzazione.

Nel clima della sconfitta del '49 il suo programma - che invitava all'unione e alla lotta contro i nemici comuni, senza pregiudiziali istituzionali - poteva essere accettato da molti patrioti, e lo fu particolarmente dai romani che, con l'accordo e la neutralità delle parti, tentavano di superare la debolezza del liberalismo locale, il substrato delle incertezze e delle confusioni, la contraddizione delle idee e degli indirizzi. Sulla base di antiche tradizioni settarie e di recenti indicazioni mazziniane essi dettero vita a un partito clandestino, socialmente misto, borghese e popolare, strutturato in piccole squadre, tenute agli ordini di un gruppo dirigente formato da mercanti di campagna, professionisti, letterati, tutte persone cioè che potevano assicurare forme di aggancio con alcuni membri dell'alta società romana, non direttamente impegnati in attività politica, ma simpatizzanti osservatori. Questa struttura di partito - di scarso peso e dimensione comunque nel quadro globale della cittadinanza romana - resterà in funzione, anche se in maniera più formale che reale, fino al 1867, anno della dissoluzione finale.

I primi contrasti interni nacquero nel 1853, quando Mazzini, che ora agiva attraverso il fedelissimo G. Petroni, propose una chiarificazione repubblicana e una iniziativa insurrezionale; i membri della associazione si divisero in "puri" e "fusi"; il secondo termine (rivendicato dopo l'Unità come prova di antica tendenza all'unione con il Piemonte) deve essere inteso ancora come sincera, comune aspirazione alla neutralità delle parti. Un tentativo di rivolta nel 1853, fomentatoe aiutato da esuli mazziniani di Genova, fallì sul nascere soprattutto per la ripulsa della maggior parte dei patrioti romani, ma la polizia pontificia fu pronta a cogliere l'occasione per sgominare "puri" e "fusi" (Petroni uscirà dal carcere solo poco prima del 1870).

Il C., schierato con i "fusi", firmatario dei loro manifesti, fu obbligato a risiedere per un certo tempo a Ciciliano. Quando poté tornare a Roma s'insediò nel gruppo dirigente del Comitato nazionale romano, il partito che si andava costituendo sulla base della vecchia organizzazione, con una nuova forza però, assicurata dal successo politico, diplomatico, militare piemontese e dal cresciuto interesse dell'opinione pubblica cittadina. Egli fu quindi in primo piano fra i promotori di tutte quelle clamorose dimostrazioni che accompagnarono il corso della guerra in Lombardia nel 1859. La loro organizzazione non era difficile: le autorità non le potevano impedire perché esse coinvolgevano nelle entusiastiche acclamazioni l'imperatore francese, presente a Roma con le sue truppe, protettore del papa. Quando nel 1860 cominciarono a prendere carattere di rivolta nazionale, di aspirazione unitaria, si reagì con perquisizioni, arresti ed esili. Ancora una volta il C. non fu colpito: anzi, il solo rimasto a Roma del vecchio gruppo dirigente del Comitato, rafforzò la propria posizione riorganizzando base e quadri dirigenti, curando i collegamenti con gli esuli e il governo italiano. Costretto nel 1861 ad emigrare, si recò a Torino e si mise a disposizione del ministro Ricasoli: da molte parti arrivavano indicazioni che lo designavano, insieme con A. Silvestrelli, come capo indiscusso e autorevole, rappresentante ufficiale della popolazione liberale romana (dirà P. Campello che egli ispirava "fiducia a tutti", "uomo antico, tanta era la rettitudine del suo carattere", e R. De Cesare che "rifuggiva, per indole, dalle pazzie e criminosità settarie; possedeva un grande equilibrio di spirito, e scriveva con caldo stile": Bartoccini, La "Roma...", p. 107).Come capo del Comitato il C. fu quindi accettato negli ambienti di governo italiani, che ignoravano quasi completamente le condizioni strutturali e politiche romane e basavano superficiali e ottimistiche valutazioni sul ricordo dei tumulti rivoluzionari del '48-49 e delle clamorose dimostrazioni del '59.

Anche Cavour aveva avuto contatti con il Comitato nazionale romano, invitato ad una posizione di attesa, ma indipendentemente dalla impostazione da lui data alla questione romana, incentrata prima in un accordo con il pontefice, poi con Parigi. Egli tendeva a guardare alla possibilità di impiego dei sudditi pontifici con una visione molto ampia, che faceva leva sulla adesione dei cittadini più importanti socialmente nella scena romana e più ascoltati all'estero ("Si on parvient à obtenir cet acte de courage d'un certain nombre de Princes et Ducs, notre cause sera à démi gagnée": ibid., p. 182). Il suo successore, Ricasoli, accettò invece il riconoscimento ufficioso di un "partito" da tenere - attraverso il C. e Silvestrelli - strettamente legato alle direttive del governo e da appoggiare finanziariamente per un'opera di informazione, di propaganda, di preparazione di eventuali iniziative di sostegno dell'azione italiana. Il sistema fu seguito anche da Rattazzi e da Minghetti, il quale accentuò anzi la sua protezione al "centro interno" romano (rappresentato dal C.), a scapito della emigrazione, e aumentò i finanziamenti segreti per la propaganda filoitaliana, la pubblicazione di giornali e manifesti, il soccorso ai perseguitati politici, l'informazione sugli avvenimenti cittadini. Si arrivò nel 1863, nella previsione della morte di Pio IX, alla richiesta di organizzare una grande dimostrazione unitaria della cittadinanza, a carattere quasi insurrezionale, che avrebbe dovuto aver luogo nel periodo di sede vacante. Contro il sistema del riconoscimento e della protezione accordati al Comitato, che coinvolgeva la maggior parte dell'emigrazione, combattevano duramente alcuni esuli, come M. Montecchi, N. Costa, E. Agneni, che militavano nello schieramento democratico; sollecitavano una maggiore autonomia politica e organizzativa dei liberali romani e tentavano di dar vita nella stessa Roma a un partito antimoderato che non riusciva però ad affermarsi contro il potere degli avversari.

Con l'aiuto della Destra toscana, di cui sarà sempre fedele seguace, il C. era stato eletto deputato di Tolentino nel 1861 (VIII legislatura) e vi fu rieletto fino al 1870 (XI legislatura), ma non svolse mai una particolare attività parlamentare, limitandosi ad essere ideale rappresentante di Roma e prendendo la parola solo per questioni riguardanti gli interessi della emigrazione o la questione romana, come nel caso del discorso di approvazione della convenzione di settembre.

Questa giungeva apportuna a dare respiro ai dirigenti del Comitato, i quali avevano potuto misurare la debolezza del partito dalle difficoltà incontrate per la richiesta dimostrazione in caso di morte del pontefice. Con realismo, la maggioranza dei liberali romani vedeva la soluzione della questione in un intervento esterno, in un accordo fra la Francia e l'Italia, e la vecchia organizzazione clandestina si era così dissolta, indebolita anche dall'emigrazione; il riconoscimento e il finanziamento dei governi italiani avevano favorito un sistema di chiusi interessi, soprattutto di prestigio personale, e la creazione di una ristretta consorteria dirigente (M. Frediani, D. Ricci, A. De Dominicis) che, limitandosi a una generica opera di propaganda, poté continuare a vivere sotto la direzione del C. e la protezione delle autorità di Firenze per ancora due anni. Poi fu la fine.

Con la conclusione della guerra del '66 e, soprattutto, con la partenza delle truppe francesi della capitale pontificia, si era violentemente riacceso in Italia il problema romano. Il campo garibaldino era in agitazione per una prova di forza, per una insurrezione interna, che si diceva tacitamente sottintesa nella convenzione di settembre; l'idea cominciava a conquistare molti esuli, stanchi della lunga attesa. Anche alcuni moderati (Minghetti, Ricasoli, Gualtiero, Castelli) si ponevano, con varie sfumature di posizione, il problema di iniziative locali che andavano da semplici dimostrazioni, tese a negare l'esistenza di un pericoloso immobilismo, a iniziative insurrezionali. Essi si ponevano anche il problema di quali forze interne avrebbero potuto assicurare il successo, scrutando al di là del Comitato - su cui cominciavano a sorgere dubbi e riserve - in ambienti socialmente ed economicamente più potenti.

Mentre Garibaldi, fallite le prospettive di un accordo con i moderati romani, inviava emissari a Roma nel febbraio 1867 per organizzare un centro d'insurrezione e dava vita in Italia ai centri di emigrazione, strettamente collegati con il Partito d'azione, il potere del gruppo dirigente del Comitato cominciò ad essere scalzato. Rattazzi dette il colpo definitivo, togliendo loro, appena giunto al governo, il riconoscimento e il contributo finanziario. Fu comunque, la sua, una mossa affrettata: quando nell'autunno del '67 i volontari garibaldini non poterono più essere arginati sulla frontiera, egli fu costretto a riprendere contatti con il Comitato per un controllo della situazione; lo fece, scavalcando decisamente il C. e chiamando a rapporto da Roma l'avv. De Dominicis, cui, nel precipitare, verso la metà di ottobre, della situazione (Garibaldi aveva deciso l'invasione dello Stato romano e Parigi imponeva un pronto intervento), chiese l'organizzazione di una decisiva iniziativa interna. Sollecitata da opposte sponde (Garibaldi e Rattazzi), questa finì per diluirsi in una serie di atti coraggiosi, ma superficialmente, affrettatamente organizzati, e prontamente stroncati. I moderati, fra cui il C., dopo aver accettato di formare una giunta insieme con i democratici sulle rovine dei vecchi partiti, avevano collaborato poco e male, quando non avevano addirittura intralciato l'azione insurrezionale, specialmente dopo la caduta di Rattazzi: erano convinti della sua inopportunità, sentivano l'interna debolezza e, soprattutto, non erano disponibili all'accordo con gli uomini della Sinistra. Il fallimento mise in luce come la ben oliata macchina del Comitato, da anni finanziata dal governo italiano, fosse ormai più apparente che reale, come la invocata necessaria clandestinità ormai coprisse, in effetti, il vuoto.

Sul C. si addensarono le maggiori denunce: di aver ingannato il governo italiano, di aver trascurato il rafforzamento del partito e la preparazione dell'opinione pubblica, di aver mirato soprattutto a vantaggi personali. Le accuse erano in parte ingiuste, soprattutto per quanto riguardava l'onestà e la buona fede del C.; questi, attraverso la guida e il controllo del Comitato, aveva inteso difendere una posizione di prestigio personale più che un interesse materiale. Certo, modesto personaggio, era stato impari, per preparazione e abilità, alla grossa operazione che gli era stata affidata, favorendo così l'ulteriore chiusura degli orizzonti programmatici e politici di una ristretta consorteria dirigente. Il fallimento della rivolta del '67 aveva inoltre rivelato come fosse ormai anacronistica la sopravvivenza dei piccoli, chiusi mondi dell'organizzazione settaria: aumentati i terreni e i canali di rapporto fra la Roma pontificia e il Regno d'Italia, era compito principale delle forze nazionali una diversa conquista della città, una conquista materiale e culturale che doveva raggiungere anche gli ambienti pontifici e creare le premesse di un inevitabile cedimento.

Travolto dal fallimento del 1867, il C. scomparve, insieme al Comitato, dalla vita pubblica e politica italiana: la sua elezione per la X e l'XI legislatura fu aspramente combattuta. Nel settembre 1870 venne chiamato, insieme con altri, a fornire notizie al ministro Visconti circa la possibilità di una iniziativa insurrezionale romana. Dopo la "breccia" tornò a Roma, ma non apparve mai in primo piano sulla scena politica locale: con i sostenitori della Destra, fece parte del Circolo Cavour e, poi, dell'Associazione costituzionale. Morì a Roma il 19 marzo 1879.

Fonti e Bibl.: Un ricchissimo Fondo Checchetelli è depositato a Roma presso il Museo centrale del Risorgimento: contiene corrispondenza ufficiale e privata (in parte cifrata), relazioni e stampati, ed è utile non solo per la ricostruzione del carattere e dell'attività del Comitato nazionale e della politica segreta del governo italiano, ma per la conoscenza anche dell'ultima Roma papale, fra il 1860 e il 1870. Sul C. v. rapide notizie biografiche in La Capitale, 18 ott. 1871; T. Sarti, Il Parlamento subalpino e nazionale, Roma 1896, pp. 272 s.; Diz. del Risorg. naz., II, pp. 668 s.; F. Gerardi, G. C., fondatore del Comitato nazionaleromano, in Rass. stor. del Risorg., III (1916), pp. 189-201; sulla sua attività nel quadro più generale del liberalismo romano: F. Bartoccini, La "Roma dei Romani", Roma 1971, passim; Id., Lettere di M. Caetani…, Roma 1974, ad Indicem; A. M. Isastia, Roma nel 1859, Roma 1978, pp. 57, 62, 242; cfr. anche O. Majolo Molinari, Lastampa periodica romana dell'Ottocento, Roma 1963, ad Indicem.

CATEGORIE