COCCHIARA, Giuseppe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 26 (1982)

COCCHIARA, Giuseppe

Pietro Angelini

Nacque il 5 marzo 1904, da Giuseppe e da Antonina Insinga, a Mistretta, in provincia di Messina, un borgo di montagna dalla struttura sociale chiusa e dalla economia prevalentemente pastorale, con dietro un lungo isolamento storico: tutti fattori che avevano favorito la persistenza, nella zona, di tratti culturali relativamente arcaici. Di famiglia benestante e colta (era figlio di un possidente avvocato), il C. aveva avuto modo ben presto di stringere amicizia con il filologo A. Pagliaro (suo concittadino, di qualche anno più anziano) e di entrare subito, direttamente, in contatto con il ricco patrimonio di tradizioni della sua gente. È dalla convergenza di questi incontri non fortuiti che nasce il suo interesse e la sua partecipazione umana allo studio della poesia popolare, il campo d'indagine folclorica su cui si aprirà, col primo libro, e si chiuderà con l'ultimo la sua vita di ricerca.

A sedici anni è già raccoglitore dilettante di beni folclorici regionali, e assiduo frequentatore della sala di lettura del circolo di Mistretta. Diciassettenne, ha la prima gioia di vedere stampato qualche suo "pezzo" sulla terza pagina dei giornali dell'isola e qualche contributo su rivistine letterarie a caccia di collaboratori e abbonati. A diciotto anni scrive la sua prima opera compiuta, e a diciannove si iscrive all'università di Palermo, facoltà di giurisprudenza.

Era stato il padre, naturalmente, a insistere: voleva il C., il maggiore dei suoi quattro figli, accanto a sé nella professione forense; ma di fronte ai successi - di ricercatore e di pubblicista - del figlio, non solo rinunciò ad ogni ulteriore pressione ma si adoperò nel sostenere economicamente gli studi prediletti dal giovane studente, viaggi e soggiorni all'estero compresi.

Intanto, nel 1923 era uscito il suo primo libro: Popolo e canti nella Sicilia d'oggi, per i tipi di Sandron (Palermo): una raccolta commentata di testi trascritti dal vivo dallo stesso C. nel corso di una ricerchina effettuata in Val Demone e soprattutto nel suo paese natale.

È uno del pochi lavori "sul campo" compiuti dal C., che in seguito non manifestò mai particolare propensione per questo tipo di indagine. Il libro ebbe un'ottima accoglienza nell'isola, non secondariamente per il tono commosso e i giudizi ammirativi con cui l'autore guardava all'opera e allo spirito del "popolo" siciliano. Per qualità, non era lontano dal livello medio degli studi folclorici in campo nazionale: livello in quegli anni piuttosto basso, in un clima culturale che risentiva (specie in Sicilia) della recente scomparsa del Pitrè.Il C. giunge a Palermo nel 1921: l'università che frequenta è quella dove Pitrè aveva tenuto, dal 1911 al 1916, i suoi famosi corsi; ma di lui non resta che il culto sterile della sua straordinaria opera di ricercatore e raccoglitore, gli studi già declinano. Anche il C. - è logico - considerò senza esitazione Pitrè il suo maestro, ma a differenza dei conterranei andò più in là della quasi istintiva venerazione, badando ad ereditare dal Pitrè soprattutto le virtù pratiche e il progetto complessivo: l'operosità, lo spirito di osservazione, il gusto educato, la capacità organizzativa, il tutto al servizio di un lungimirante disegno: investire subito il tesoro di materiali foclorici e bibliografici lasciato da Pitrè, studiandolo, divulgandolo, integrandolo, in una parola continuando la sua opera.

Con il primo libro, dedicato appunto alla memoria di Pitrè, il C. si proponeva, colmando uno dei tanti vuoti, di dimostrare che si era ancora lontani da una raccolta sistematica e definitiva delle tradizioni popolari siciliane, e che bisognava lavorare in tal senso. Il diciannovenne studente universitario già dimostra di sapere come si "confeziona" un libro: taglia, raccorda e dispone con gusto la materia, senza appesantirla con dotte citazioni da autodidatta: anche la scrittura, nonostante l'enfasi, preannuncia la prosa piana, chiara e cordiale del futuro scrittore di saggi di grande leggibilità, in solido equilibrio tra lo specialistico e il divulgativo.

Intanto il C. si laurea, discutendo una tesi sull'opera legislativa di Federico II in Sicilia, ma l'oggetto principale dei suoi studi è sempre la sterminata biblioteca di Pitrè; legge molto, senza preclusioni disciplinari, e molto pubblica. Tra il 1924 e il 1929 fa uscire altri tredici libri, più alcuni articoli. Il giovane sembra orientato a pubblicare più che ad approfondire i propri studi.

Questo continuo, sistematico travaso del frutto delle letture direttamente su carta da stampare, senza le opportune pause di sedimentazione e di meditazione, è un modus operandi che sarà tipico del C. e non lo aiuterà a compiere quel lungo passo che separa l'ape della cultura dal pensatore originale. Ma va pure riconosciuto al C. il non piccolo merito di avere avuto in certo senso "coscienza" di questo suo limite: il C. non considerò mai compiuto, definitivo, un suo libro, mai interamente soddisfacente una indagine. Si distinguerà anzi proprio per la capacità di effettuare la stessa, continua opera di travaso all'interno della propria produzione: non a caso le opere a cui è legata la fama del C. sono quasi tutte rielaborazioni o estensioni di lavori precedentemente pubblicati e volutamente non ristampati.

Dei lavori pubblicati in questi anni, due comunque meritano di essere ricordati, e sono Le vastasate e Gli studi delle tradizioni popolari in Sicilia, editi sempre da Sandron rispettivamente nel 1926 e nel 1928.

Il primo ha il pregio di farci conoscere un interessante e poco noto documento storico di teatro popolare, la "vastasata", ovvero un tipo di farsa particolarmente in voga nella Palermo del sec. XVIII, così chiamata perché portava sulla scena il personaggio del "vastaso" (facchino). Il C. ci descrive con cura l'ambiente in cui fiorisce questo "genere", il pubblico assai eterogeneo, i "casotti" in cui si svolgevano le rappresentazioni, i nessi col teatro colto (anche il Meli scrisse una "vastasata") e infine ci dà il testo dell'unico canovaccio giuntoci. In questa ordinata monografia, la scelta stessa dell'oggetto - precedentemente trascurato da folcioristi e storici del teatro piuttosto agguerriti - è di per sé indicativa e di notevole interesse per noi oggi che facciamo i conti con queste forme di teatro "non scritto", rimaste per secoli ai margini della produzione letteraria "ufficiale". L'analisi presta particolare attenzione - e anche questa è una nota nuova - all'aspetto "giuridico" del problema storico della fioritura e della rapida decadenza di questo genere di farsa (individuazione degli esercenti, segnalazione dei decreti reali che regolamentavano la diffusione delle "vastasate", ecc.) dove vediamo il C. mettere puntualmente a profitto le conoscenze e gli strumenti acquisiti in un corso di laurea. Il C. manca invece una grande occasione quando si trova a sfiorare una questione di ordine teorico che negli ultimi tempi ha assunto rilevanza negli studi demologici: la questione del "rapporto" tra la cultura del "popolo" e la cultura delle classi dominanti e della "circolarità" tra i due livelli di cultura.

Gli studi delle tradizioni popolari in Sicilia è la prima opera del C. dal taglio dichiaratamente storiografico: essa inaugura il filone più fecondo della sua attività pubblicistica, quello in cui si avverte maggiormente uno sforzo di ricerca metodologica. Se il C. ha oggi un posto nella cultura italiana al di là del suo specifico campo, lo si deve a opere di grande respiro e di larga utilizzabilità come la Storia degli studi delle tradizioni popolari in Italia (del 1947, purtroppo non più ristampata) e la Storia del folklore in Europa (del 1952, questa più volte ristampata). Il volume in questione, come è anticipato nel sottotitolo ("Introduzione alla storia del folklore italiano"), costituiva dunque la prima tappa di una vasta idea che il Pitrè aveva lungamente accarezzato.

Ma è proprio sulla soglia di questo ambizioso percorso che il C. si pone, per la prima volta, interrogativi e problemi di metodo, che lo portano a dubitare del rigore scientifico delle ricerche precedenti. È forse uno dei rari momenti in cui intravvediamo una sorta di autocritica nelle parole del C.: "In Italia - egli scrive in quest'ultima opera - si è pensato ad essere folkloristi, ma dei problemi del folklore e della scienza siamo stati sempre un po' lontani. Ben altri metodi e ben altri orizzonti si profilano per la scienza". È probabile che il C. si fosse ormai accorto del provincialismo culturale che pesava su gran parte dei nostri studi folciorici: certo è che ora il C. decide di rompere con l'isolamento a cui lo costringe la sua Palermo, e di trasferirsi per un periodo di tirocinio e di aperture culturali a Firenze, presso la severa scuola di Barbi.

Era Firenze in quegli anni un fecondo centro di iniziative e studi filologici. Sotto la direzione di autorevoli letterati come il Barbi, il Rajna, il Pavolini, il Mazzoni, si venivano finalmente impostando su rigorose basi metodologiche i problemi storici e testuali della poesia popolare italiana: e il C. stava appunto lavorando sopra una grande raccolta di canti della tradizione nazionale. Tuttavia, l'insegnamento del Barbi non incise in modo decisivo sulla formazione del Cocchiara. È vero che l'opera L'anima del popolo italiano nei suoi canti (pubblicata dall'editore Hoepli di Milano nel 1929) apparirà nel commento più controllata rispetto ai lavori precedenti; ma resta comunque un fatto: il C. era più interessato alla "descrizione psicologica" dei canti popolari che non alla loro ricostruzione storico-filologica; il "testo" passa in seconda linea e lascia il posto al monumento del "Popolo" alla "Nazione", o comunque al documento di schietti valori umani.

Di maggior rilievo, invece, i contatti che il C. ebbe modo di stabilire durante il soggiorno a Firenze, in un ambiente culturalmente assai ricco e vivo, in particolare con l'indianista Paolo Emilio Pavolini, l'antropologo Aldobrandino Mochi e il filologo Pio Rajna. Nel 1928 partecipa a un convegno promosso dall'Ente per le attività toscane e si fa apprezzare per una relazione sul termine "folklore". A tal punto che è a lui, e a Paolo Toschi, che viene affidato l'incarico di segreteria per un altro convegno da tenersi nella primavera successiva e che resterà alla storia come il primo Congresso nazionale delle tradizioni popolari (1929). È nel corso dei lavori di questo convegno che il C. fa amicizia con Raffaele Pettazzoni: è un incontro che - sul piano pratico - si rivelerà decisivo per il suo futuro. Il fondatore dei nostri studi storico-religiosi non tardò infatti a rendersi conto della impasse culturale del giovane e gli consigliò di puntare all'estero, direttamente a quello che era il centro allora degli studi folclorici ed etnologici europei: la Londra di Frazer, di Malinowski, di Marett.

Il soggiorno in Inghilterra, inframezzato da qualche ritorno in patria, si protrae fino al 1932. Il C. segue le lezioni che Malinowski e Marett tenevano rispettivamente presso l'università di Londra e di Oxford; frequenta la rinomata Folklore Society; entra nel vivo delle problematiche della scuola di antropologia sociale e delle sue scelte ideologiche e metodologiche: l'evoluzionismo, il comparativismo. Trascorre il resto delle sue giornate nelle sale del British Museum e del seminario di Marett, effettuandovi una serrata e abbastanza organica serie di letture: si sofferma in particolare su Tylor, su Gomme, su Lang, su Frazer. E così fa suo un assunto generale della scuola inglese: essere, il folclore e l'emologia, non due discipline distinte, bensì due "postazioni", intercollegate, da cui è possibile osservare contemporaneamente il passato e il presente dell'uomo. In questo incontro con l'etnologia, che per il momento è colto nell'accezione tyloriana, il C. ravvisa subito uno speciale e decisivo arricchimento della ricerca demologica, la quale - scriverà - "pur studiando l'oggetto che le è proprio, si avvarrà dell'etnologia per collegare, ove è necessario, quei legami che uniscono idealmente i volghi dei popoli civili al mondo primitivo".

Presso la scuola di Marett il C. dunque acquisisce nuovi metodi di lavoro, più ampi orizzonti culturali, i primi strumenti teorici: tutti alimenti che la scuola di Pitrè - per come era ridotta - non gli aveva offerto. Certo è che a partire dal 1932 le sue pubblicazioni, pur proseguendo a ritmo sostenuto, registrano un netto salto di qualità. L'arco di interessi del C. si apre a toccare tematiche più complesse. Il metodo comparativo gli dà modo di uscire dalle strettoie del regionalismo e lo mette in condizione di poter scegliere oggetti di studio che interessano epoche e aree culturali diversissime: la novellistica, la superstizione, le tecniche del corpo, ecc. Di questo metodo il C. si serve con una disinvoltura che può apparire eccessiva e ricordare quella, tanto discussa, dei "classici" dell'evoluzionismo. Come questi ultimi, il C. parte nelle sue indagini dal postulato della sostanziale "unità psichica" dei popoli e delle civiltà, e rintraccia il cammino di un mito o di un rito lungo un filo che congiunge la preistoria ai nostri giorni e che resiste a brusche svolte storiche e a processi socioculturali di trasformazione.

Inquadrati ora nella teoria evoluzionistica della cultura, gli oggetti di studio che il C. pochi anni prima guardava romanticamente come a monumenti da celebrare, si rivelano realtà storiche, da scomporre e analizzare. Fa testo il volumino che uscì in Inghilterra col titolo di The Lore of Folk-Song (1932), in cui è già evidente l'influsso esercitato sul C. da Tylor e da Gomme, secondo i quali oggetto del folclore era precisamente lo studio delle "sopravvivenze" (quanto all'ascendenza da Marett, pure importante, essa si farà sentire in modo consistente un poco più tardi). Siamo su un piano di riflessione molto più avanzato. rispetto al libro di analogo argomento del 1929: il canto tradizionale non è più letto in chiave estetico-psicologica, i testi non costituiscono più per il C. un documento dell'anima del popolo, da salvare e conservare per amore del "bello", del "vero" e del "nostro". La lettura è ora "etnografica": i testi sono anche documenti del passato, informazioni di usi e credenze appartenenti a uno stadio anteriore dell'incivilimento e che tuttavia sopravvivono.

Per tutti gli anni '30, fino alla seconda guerra mondiale, il concetto tyloriano di "sopravvivenza" viene largamente utilizzato dal C. ormai orientato verso una interpretazione storica dei fatti culturali. Tacciate di naturalismo e di corto respiro, le opere di questo decennio sono state piuttosto trascurate e sottovalutate dalla critica del dopoguerra; oggi però è in corso una proposta di rilettura, che è il prodotto di scelte culturali non più condizionate dalla polemica antipositivista. In questo caso il ripensamento è opportuno, se non altro per le sollecitazioni che ci giungono dagli scritti del C. di questo periodo: piccoli saggi, succosi e puliti, di garbata dottrina, secondo un modulo che non ha riscontri nella pubblicistica scientifica e divulgativa italiana, ma piuttosto rientra nella nostra migliore tradizione critico-letteraria. Lo scrittore dispone la materia con un ordine che in genere è progressivo: parte da un motivo o un tratto della cultura con cui il lettore ha sicuramente familiarità, e via via lo compara a motivi o tratti analoghi, lo scompone, lo analizza, lo inserisce in una sequenza storica: ed ecco l'oggetto acquistare un significato (o un significato diverso da quello attuale) il momento in cui appare il legame che lo unisce a un altro fatto culturale, comprensibile se rapportato a uno strato (cronologicamente) inferiore della civiltà.

È questo un discorso che vale anche e soprattutto per il più vivo e interessante libro scritto dal C. negli anni '30, Il linguaggio delgesto. Lo schema di quest'opera si presenta concettualmente più elaborato rispetto ai saggi di cui si diceva, tuttavia il procedimento usato, mirante a individuare le "origini" del gesto, non si discosta da quello formalizzato dagli evoluzionisti: dal molteplice e dal complesso risale all'unità e all'elementare.

Come già Pitrè, il C. amava citare un pensiero balenato a Goethe durante una visita all'Orto botanico di Palermo: se riportando tutte le piante ad un unico tipo sarebbe possibile scoprirvi la pianta originaria primitiva. È l'operazione che prova a compiere il C., il quale procedendo con taglio diacronico individua nella "preghiera" il gesto originario primitivo. La tesi è, in sé, oggi, difficilmente condividibile: va comunque riconosciuto al C. il merito storico di avere affrontato con questo libro un problema - il gesto come linguaggio - inusitato rispetto alla nostra tradizione culturale, precorrendo in certo modo i tempi anche su scala europea (il famoso scritto di Marcel Mauss sulle Tecniche del corpo vedrà la luce qualche anno dopo).

Intanto, ristabilitosi a Palermo, il C. tentava con successo la carriera universitaria. L'insegnamento delle tradizioni popolari non aveva ancora uno spazio autonomo nel mondo accademico italiano: nemmeno in centri come Catania, Bari o Palermo, dove da tempo esisteva una solida tradizione di studi folclorici. Scomparsa con Pitrè la demopsicologia - troppo legata alla cultura positivista -, lo studio della cultura popolare si intendeva connesso ad altre discipline (di recente acquisizione come l'etnografia, o di robusta tradizione come la filologia e la storia letteraria) ma di fatto era relegato ai margini di queste, sotto forma di branca specialistica. Si deve in gran parte al C. (e a Toschi) l'ingresso ufficiale nell'università italiana della "nuova" materia, che non a caso prese il nome inizialmente di "Letteratura delle tradizioni popolari". Libero docente nel 1933, il C. ebbe l'incarico di questo insegnamento nell'anno 1934 e lo tenne fino alla caduta del fascismo. Nel 1944, quando si provvide a istituire nell'università di Palermo, a inizio di una vasta riforma, la cattedra di storia delle tradizioni popolari, e ad accendere l'insegnamento di antropologia sociale nella stessa sede, la prima cattedra fu subito affidata, per meriti scientifici, al C., e il provvedimento fu confermato, dopo regolare concorso, nel 1946 dal governo italiano. Dopo due anni, gli veniva conferito anche l'insegnamento dell'antropologia sociale: un incarico che giungeva al termine di un decennio da lui speso nella diffusione e nella divulgazione dei principî e testi fondamentali di questa disciplina. Altre due cattedre venivano contemporaneamente istituite: a Roma, per il Toschi, a Catania, per la Naselli; ma quella di Palermo resterà, fino alla morte del C., la cattedra-guida, il classico punto di riferimento accademico dei nostri studi folclorici. Direttore per venti anni di uno degli istituti più efficienti d'Italia, preside della facoltà di lettere dal 1951 sino alla morte, il C. fu anche - secondo la testimonianza di non pochi suoi allievi - un docente di larga e piena disponibilità umana, di proverbiale chiarezza e di capacità organizzative di prim'ordine.

Capacità organizzative e anche valorizzative: è qui il caso di segnalare l'altro grande servizio reso dal C. a Palermo e al folclore italiano: la ricostituzione e il riordinamento nella nuova sede del Museo etnografico Pitrè, che dopo la morte del suo fondatore versava in condizioni di vero sfacelo. Nel giro di pochi anni, il C. provvede a salvare, a riordinare e ad illustrare adeguatamente il tesoro pitreiano, rifondando e rifunzionalizzando uno dei musei più importanti d'Europa: ad esso si affianca, a partire dal 1950, una rivista di grande prestigio, gli Annali del Museo Pitrè, che il C. dirigerà fino alla morte.

Collegate strettamente all'insegnamento universitario, ma al tempo stesso di rottura rispetto ai tradizionali trattati accademici, sono quasi tutte le sue successive opere. L'interesse per la novellistica popolare, già vivo dagli anni '20 nelle prime operette a forte tinta letteraria, si converte con gli anni '30 in problema genetico; dalle fiabe e dalle novelle, il C. estrae generalmente un nodo narrativo - un "motivo" - e, con lo stesso procedimento usato per le credenze e le superstizioni, ne ricava il significato originario: questo attraverso la comparazione di vari testi (spesso distanti) e quindi la ricostruzione della linea evolutiva. Genesi di leggende, che esce presso l'editore Palumbo nel 1940, è il trionfo (ma anche l'ultimo atto) di questo metodo. Successivamente il C. affronterà con metodo storicistico l'analisi dei "motivi" fiabeschi e novellistici (i brillanti saggi riuniti nel volume Il paese di Cuccagna del 1956) usando un procedimento - sempre a ritroso - che ha qualche esteriore parentela con il Propp delle Radici storiche dei racconti di fate (la morte lo coglierà mentre attendeva alla sistemazione definitiva delle sue idee intorno all'origine storica della narrativa popolare).

Con Genesi di leggende si chiude, per molti critici, la fase "naturalistica" del pensiero del Cocchiara. L'anno dopo - siamo nel 1941 - esce Naturalismo e storicismo nell'etnologia di Ernesto De Martino.

È un libro che farà molto pensare il C., il quale curiosamente si mostrerà pochissimo interessato ai successivi e certo più propositivi lavori dell'etnologo napoletano. Questa, e altre decisive letture o riletture (come Teoria e storia della storiografia di Croce, e L'etnologia come scienza storica di Pettazzoni) accompagnano il C. in quest'ultima svolta del suo itinerario intellettuale. Svolta relativa, ad ogni modo, nel senso che non si trattò di vera e propria rottura epistemologica, bensì di un lavoro di scavo, di perfezionamento degli strumenti critici, che da un lato lo portò al graduale (e non totale) abbandono della metodologia e dell'ideologia evoluzionistica, e dall'altro a un'elaborazione di uno storicismo non identificabile in toto con lo storicismo idealistico e insieme non facilmente assimilabile al contemporaneo storicismo marxista, secondo una linea di crescita culturale "obliqua" abbastanza analoga a quella di un Pettazzoni, il cui storicismo d'approdo non negava radici positivistico-evoluzionistiche.

In definitiva, la produzione del C. di quest'ultima fase - che è anche la più celebrata e studiata - si caratterizza per il più largo respiro storico: il che significa, da una parte, il "superamento" del concetto tyloriano di sopravvivenza, dall'altra una concezione della storia delle idee che presuppone un quadro di riferimenti culturali propri della tradizione occidentale. Il primo di questi due processi emerge da alcune operette di "transizione" che l'autore fece uscire presso l'editore Palumbo durante la guerra: due Introduzioni a Marett e a Frazer, e una importante raccolta di saggi Sul concetto di superstizione (1945).

La critica - che è autocritica, pur non esplicita - del concetto di "survival" è condotta sulla base di alcune osservazioni già avanzate da Marett, che solo ora il C. fa sue: "la sopravvivenza - scrive - non potrà mai essere giustamente valutata se si tratta alla stessa stregua di una cosa morta e che, invece, il suo vero significato può essere colto soltanto se si guarda ad essa come al risultato di una concreta vita popolare (folklive) piena di cambiamenti, tanto più che ciò che muore rivive sotto altra forma per poi, a sua volta, compiuto il suo ciclo, dare origine a nuove forme". Non cosa morta, dunque, ma viva nel processo di trasmissione della cultura e di trasformazione della società, il fatto folclorico diventa agli occhi del portatore come a quelli dell'osservatore "storia contemporanea".

Se è storia contemporanea il fatto folclorico - sia esso il risultato di un cambiamento o di una persistenza - avrà da essere storia contemporanea anche la storia delle discipline che di questi fatti si occupano. Questa tesi dello storicismo idealistico costituisce per il C. la premessa di tutte le sue successive direzioni di ricerca storiografica: storia del folclore, storia dell'etnologia saranno storia di ciò che ha animato e vivifica questi studi, storia di un gusto, di un mito, di un'idea. Con ciò lo storiografo mette in secondo piano la mera successione di opere, giorni e autori, privilegiando l'individuazione della "causale ideologica" che ha determinato certe scelte di campo, certe interpretazioni.

Il C. si appropria degli strumenti di questo modo nuovo di fare storia gradualmente, ma con un ritmo che - come sempre - non conosce interruzioni né tergiversazioni. Nella citata Storia degli studi delle tradizioni popolari in Italia, che è del 1947, il folclore è già concepito demartinianamente come un "momento dell'etnologia storicistica"; ma è con Il mito del buon selvaggio (Milano 1948) che il C. approda a uno storicismo quale risultato di un definitivo bilancio dei meriti e delle illusioni dell'evoluzionismo.

Da un lato, infatti, quest'opera - costruita come una storia, per grandi temi e medaglioni, dell'etnologia - individua e sottolinea i fermenti storicisti presenti nelle teorie tyloriane (per esempio: "nel legare il folklore all'etnologia Tylor fa di quest'ultima una storia contemporanea"); d'altra parte, proprio respingendo la nozione tyloriana di primitivo - inteso come un "prima cronologico" e la nozione di Lévy-Bruhl di "mentalità primitiva" - intesa come "altra" rispetto alla nostra di civili, - il C. può passare al versante propositivo del suo discorso: la filosofia, se viene chiamata a farsi metodologia della storia, non può ammettere la ricerca del "prima cronologico" e porre in termini cronologici "ciò che si spiega soltanto in termini ideali", ne porre come assoluta la diversità dello spirito dei primitivi rispetto al nostro, negando quella "fondamentale identità dello spirito umano, che si amplia e si arricchisce ma permane il medesimo nella sua essenza". Ebbene, per il C., l'esperienza del primitivo è un atteggiamento permanente del nostro spirito, che a seguito della scoperta dell'America si è potenziato modellandosi, nella cultura europea, nel mito storico del buon selvaggio.

Altre concretizzazioni di questa presenza costante il C. individuerà e analizzerà in modo più sistematico e approfondito in opere di ancor maggiore impegno, che comunque proseguono il discorso iniziato da questo lavoro d'indole prevalentemente introduttiva. Popolo e letteratura in Italia (1959) riprende il campo d'indagine affrontato nella Storia del 1947, ma è una storia riletta e rifatta in questa nuova chiave ideologica: la nozione di "popolare" è qui posta sullo stesso piano euristico della nozione di "primitivo", il che porta a una comparazione non priva di rischi: quello che è stato per l'Europa tutta il mito del buon selvaggio, per l'Italia sarebbe il gusto del popolare.

Èquesta particolare istanza del nostro spirito, afferma il C., che ci ha permesso di coprire in tempo relativamente breve il grande ritardo con cui si muovevano dopo l'Unità i nostri studi folclorici. Il C. non inquadra il motivo culturale in questione in una più generale "storia del gusto", né in una teoria di questa categoria (la Critica del gusto di Della Volpe è lì per uscire); tuttavia il fatto stesso di impostare una ricerca sui rapporti tra la letteratura dotta e la popolare, intesa ad accertarne i reciproci influssi, va considerato come un notevole sforzo innovativo. La tesi del C. si opponeva infatti a una concezione allora diffusa, che voleva la nostra letteratura assai distante dalla voce del "popolo" anche (e soprattutto) quando se ne appropriava. Le cose stanno diversamente, secondo il C.: il gusto del popolare ha fatto da ponte tra le due culture, consentendo continui travasi: vedi da una parte un Basile, un Tommaseo, un Verga, e dall'altra un De Sanctis, un Pitrè, un Carducci, un Croce.

In questa grossa opera il C. non giunge a posizioni estreme, non rovescia - semplicemente riassesta - il rapporto tra popolare e colto; nell'Eterno selvaggio (1961) invece si spinge oltre, fino ad affermare che la cultura dei popoli primitivi ha profondamente influenzato, e sostanziato, le più vive espressioni dei popoli civili.

Il "selvaggio" non è più presentato come soltanto un "mito"; in quest'opera è di più, è il "protagonista" della cultura moderna, il "dato ideale della nostra coscienza e del nostro essere; un dato da cui noi siamo passati e passiamo e che vive e rivive in noi". Con ciò, trasferisce senza più mezzi termini la nozione di primitivo dal piano cronologico al piano fenomenologico. È questo il maggiore (e ultimo) sforzo teorico dell'autore, in direzione di una ormai esplicita filosofia della cultura. Siamo al di là dei tradizionali e anche dei più elastici confini delle discipline frequentate dal C., che negli ultimi anni di insegnamento aveva chiesto di riunire le sue due materie in una unica "storia della civiltà". In questo, che è certamente il libro suo più suggestivo, la storia dell'antropologia si sposa - in un unico mistero svelato - al grosso della letteratura, delle arti figurative, della musica del Novecento, secondo un disegno vagamente prefigurato, negli anni '40, da Cesare Pavese. Ne vien fuori una sintesi a suo modo stimolante, che però ha il limite - inevitabile per l'assunto da cui muove - di servirsi di un'idea sei-settecentesca di "primitivo", che ha solo qualche analogia con quelle prodotte e diffuse in un Occidente in rapido e sbilanciato processo di industrializzazione.

Un discorso a parte va fatto per la Storia del folklore in Europa, che nel frattempo il C. aveva pubblicato e più volte ristampato, con vasto consenso e di pubblico e di critica. Anche qui, il C. parte da un progetto alquanto ambizioso (non esistevano trattazioni del genere, né in Italia né in Europa) e da un disegno molto più vasto di quello indicato dal titolo: il folclore non vi appare come disciplina, bensì come storia, in senso vichiano, ideale, dell'Europa che riflette, lungamente e contraddittoriamente, sopra la propria identità culturale; dell'Europa che si ricerca, si studia, e che si rimette anche in discussione, trascinata in un processo irreversibile avviato dalla scoperta del Nuovo Mondo; come aveva già notato il folclorista Santyves, è quest'ultimo evento che obbliga gli uomini di lettere e di scienza a ripensare problematicamente alla storia delle istituzioni e a potenziare il metodo d'indagine della comparazione.

Il libro ebbe risonanza anche all'estero (specie in Unione Sovietica): tradotto in varie lingue, benevolmente accolto da critici del calibro di Propp, Meletinschij, Eliade, si è rapidamente inserito - in veste di opera-pilota - nel tronco degli studi demologici europei. Il limite, vale ripeterlo, è quello di sempre: nonostante la recente lettura di Gramsci, la nozione di popolo non ne esce aggiornata, anzi è ribadita una sua gemellanza al concetto di primitivo, con la conseguenza - come è stato giustamente osservato - che al folclore viene così a mancare un preciso orizzonte sociale e temporale. Ciò non toglie che quest'opera, diligentemente costruita e piacevolmente ammaestrante, possa risultare ancor oggi uno strumento di grande utilità per l'informazione e lo stimolo.

La Storia del folklore in Europa era apparsa, a giusto titolo, in una delle più prestigiose serie editoriali del dopoguerra, la "Collezione di studi etnologici, religiosi e psicologici" di Einaudi (Torino), meglio conosciuta col nome di "collana viola", alla quale si deve in gran parte la diffusione e la fortuna in Italia di opere classiche (o destinate a diventare tali) nel campo dell'antropologia e della storia delle religioni.

In questo processo di sprovincializzazione della nostra cultura, una parte ebbe anche il C., i cui ultimi progetti e lavori rientreranno nel quadro delle attività einaudiane. Il C. traduttore e promotore di iniziative editoriali è poco conosciuto e merita qui una segnalazione, non fosse altro per lo sforzo continuo e cocciuto che profuse in questa attività. Già nel 1931, come documenta una lettera indirizzata a Toschi, il C. cercava un editore a cui sottoporre il piano di una collana di studi etnologici e folclorici; sembrò trovarlo nel vecchio Bocca di Torino, ma la serie ebbe vita breve: erano anni bui per le scienze sociali in Italia. Altri due tentativi effettuò con l'editore Palumbo, negli anni '40, ma in entrambe le serie non uscirono che libri scritti o curati dallo stesso Cocchiara. L'occasione propizia sembrò presentarsi nel '47 quando C. Pavese, che lavorava per Einaudi, lo contattò, desideroso di consigli per la collana etnologica che veniva allestendo insieme con Ernesto De Martino. Tra i due - il C. e Pavese - si strinse un'amicizia dettata anche da affinità culturali, che editorialmente si tradusse in un fitto scambio di informazioni e pareri. Il C. fu prodigo di consigli e indicazioni bibliografiche, ma il suo effettivo contributo alla "collana viola" risultò minimo in fase ultima decisionale, per le diffidenze che sia Pavese sia De Martino nutrivano nei confronti dell'antropologia sociale e del folclore in senso tradizionale. L'unico titolo proposto e curato dal C. fu il celebre Ramo d'oro di Frazer, opera peraltro assai cara al Pavese. Più consistente fu invece la consulenza che il C. tenne nel settore folclorico per un'altra collana einaudiana, i "Millenni", dove si concretizzarono tre sue importanti proposte: la prima traduzione integrale e filologicamente attendibile delle Fiabe dei fratelli Grimm, una riedizione dei Canti popolari del Piemonte di C. Nigra e la nota raccolta di Fiabe italiane, opera di Italo Calvino, nata però anche a seguito di molte indicazioni del Cocchiara.

Dopo L'eterno selvaggio, l'attività scientifica del C. non offre più sorprese di rilievo. Il mondo alla rovescia del 1963 e Le origini della poesia popolare (un'organica raccolta di vecchi e nuovi saggi sull'argomento, che apparirà postuma) non aggiungono gran che di notevole alla sua fisionomia e alla sua statura. È tuttavia significativo che nella prima di queste due opere egli affronti un aspetto molto importante di una più vasta tematica culturale che negli stessi anni teneva occupato pure De Martino (si vedano i suoi appunti sulle apocalissi, nel postumo La fine del mondo).

Qui il C. prende in esame un motivo culturale diffusissimo - il mito di un mondo diametralmente diverso da quello in cui si vive - e passa in rassegna le forme e i significati che questa interpretazione della vita e della società ha assunto nelle varie epoche storiche della nostra civiltà. Come il mito del buon selvaggio, è un sogno anche questo "eterno" per il C. e culturalmente fecondo: se nel "primitivo" il Vecchio Mondo si specchia e si mette in discussione, in questa altra utopia l'europeo ritrova specchiate - anche se capovolte, come in una camera oscura - le proprie aspirazioni e inquietudini, il desiderio di fare o di "rifare" il mondo secondo un nuovo ordine che ha tutta l'apparenza del disordine. L'indagine lascia alquanto disorientati per la disinvoltura con cui il C. si sposta da un'area culturale all'altra, da un mezzo di comunicazione all'altro, da un'esperienza (ad esempio, la trance dello sciamano) a un'altra (l'ispirazione di un Gustav Mahler); sicché solo lì dove l'autore dispone di adeguati strumenti interpretativi, come, ad esempio, il campo delle stampe popolari, l'analisi è più puntuale e persuasiva.

Sappiamo che negli ultimi mesi, col male che lo incalzava e lo costringeva a star lontano dall'università, dai libri e dalle carte, il C. aveva in mente un nuovo libro, di cui però non si conosce che il titolo, provvisorio: L'uomo narra se stesso. La morte lo prendeva nella sua Palermo, il 24 genn. 1965.

Opere: Popolo e canti nella Sicilia d'oggi, Palermo 1923; Usi e costumi,novelle e poesie del popolo siciliano, in collaboraz. con B. Rubino, ibid. 1924; Tommaso Aversa e il teatro sacro in Sicilia, ibid. 1925; Ove il cedro fiorisce, in collaboraz. con C. Di Mino, ibid. 1925; Pietro Fullone e la poesia popolare sacra in Sicilia, Catania 1926; Le vastasate. Contributo alla storia del teatro popolare, Palermo 1926; S. Salomone Marino, La baronessa di Carini, a cura del C., Catania 1926; Arie e canzonette siciliane, a cura del C., Catania 1927; Il poeta contadino, Livorno 1927; Federico II legislatore e il Regno di Sicilia, Torino 1927; Folklore, Milano 1927; Gli studi delle tradizioni popolari in Sicilia. Introduzione alla storia del folklore italiano, Palermo 1928; L'anima del popolo italiano nei suoi canti, con appendice etnomusicologica di F. B. Pratelli, Milano 1929; Il linguaggio del gesto, Torino 1932; La leggenda di Re Lear, ibid. 1932; The Lore of the Folk-Song, Oxford 1932; L. Del Buono, "Daròmia figlia al miglior offerente" e altre stenterellate, a cura del C., Roma 1933; La nuova sistemazione del Museo etnografico Pitrè, Palermo 1935; La vita e l'arte del popolo siciliano nel Museo Pitrè, ibid. 1938; Problemi di poesia popolare, ibid. 1939; Genesi di leggende, ibid. 1940; Pagine scelte sulle tradizioni popolari, a cura del C., Milano 1940; Le immagini devote del popolo siciliano, Palermo 1940; L'artigianato siciliano, Urbino 1940; Giuseppe Pitrè e le tradizioni popolari, Palermo 1941; Illinguaggio della poesia popolare, ibid. 1942; R. Marett, Introduzione allo studio dell'uomo, a cura del C., ibid. 1944; Sul concetto di superstizione e altri saggi intorno allo studio delle superstizioni, ibid. 1945; Il diavolo nella tradizione popolare italiana, ibid. 1945; J. G. Frazer, Introduzione all'antropologia sociale, a cura del C., Palermo 1946; Storia degli studi delle tradizioni popolari in Italia, ibid. 1947; Ilmito del buon selvaggio. Introduzione alla storia delle teorie etnologiche, Messina 1948; Illinguaggio della poesia popolare, ediz. riveduta e accresciuta, Palermo 1951; Pitrè,la Sicilia e il folklore, Messina 1951; Ilfolklore siciliano, Palermo 1951; Storia del folklore in Europa, Torino 1952; I primitivi, Palermo 1956; Il paese di Cuccagna e altri studi di folklore, Torino 1956; Voci nostre, a cura del C., Palermo 1957; Il folklore siciliano, ibid. 1957; Popolo e letteratura in Italia, Torino 1959; Tradizioni popolari italiane, ibid. 1959; La valle dei trulli, in collaborazione con M. Castellano-L. Sinisgalli-E. Minchilli, Bari 1960; Padre Lafitau,gli indiani d'America e il mondo classico, con una scelta delle Moeurs di Lafitau, Palermo 1960; L'eterno selvaggio. Presenza e influsso del mondo primitivo nella cultura moderna, Milano 1961; Ilmondo alla rovescia, Torino 1963; Le origini della poesia popolare, ibid. 1966; Preistoria e folklore, raccolta di saggi dal 1936 al 1964 a cura di A. Buttitta, Palermo 1978.

Bibl.: P. Toschi, G. C., in Lares, XXXII (1966), 1-2, pp. 1-14; S. Lo Nigro, G. C., in Orpheus, XIII (1966), pp. 159-164; A. Rigoli, G. C., in Nuovi Quad. del Merid., IV (1966), 13, pp. 90-94; Id., Ricordo di G. C., in Annali della facolta di magistero dell'università di Palermo, IV-VII (1963-66); G. Tucci, G. C., in Grande Diz. encicl. UTET, Torino 1967, V, p. 31; Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, Commemor. di G. C., (interventi di A. Pagliaro e G. Bonomo, con bibliografia), Palermo 1967, pp. 58; A. Buttitta, L'evoluz. ideologica di G. C., in Riv. di etnografia, XXI (1967), pp. 113-121; G. Bonomo-A. Buttitta, G. C., in Letter. italiana. I critici, IV, Milano 1969, pp. 2807-2824; G. Bonomo, prefaz. a G. Cocchiara, Storia del folklore in Europa, Torino 1971; A. Buttitta, prefaz. a G. Cocchiara, L'eterno selvaggio, Palermo 1972; A. M. Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne, in Rass. degli studi sul mondo popolare tradizionale, Palermo 1973, pp. 213-214; G. Bonomo-A. Buttitta-I. Calvino-P. Toschi-R. Wildhaber e altri, Demologia e folklore. Studi in memoria di G. C., Palermo 1974, passim; S. Miceli, introduz. a G. Cocchiara, Il linguaggio del gesto, Palermo 1977; A. Buttitta, introduz. a G. Cocchiara, Preistoria e folklore, Palermo 1978.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE
TAG

Seconda guerra mondiale

Paolo emilio pavolini

Scoperta dell'america

Raffaele pettazzoni

Ernesto de martino