FINZI, Giuseppe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 48 (1997)

FINZI, Giuseppe

Giuseppe Monsagrati

Nacque a Rivarolo Fuori (oggi Rivarolo Mantovano) il 27 febbr. 1815 da Abramo e da Rosa Finzi, entrambi di ascendenza israelita.

L'agiatezza della famiglia, proprietaria di vasti possedimenti in una delle zone più fertili della Bassa padana, gli consentì, dopo gli studi liceali a Mantova, una giovinezza abbastanza irrequieta, fatta di viaggi, di studi universitari a Padova, di simpatie intellettuali per la cultura degli enciclopedisti francesi, di frequentazioni degli ambienti dove le aperture verso le avanguardie letterarie e il libero pensiero sfociavano sempre nell'insofferenza per la dominazione austriaca.

Dopo un periodo di generico ribellismo, un'esigenza di lotta più concreta spinse il F. - nel 1834 o nel '36, secondo le sue contraddittorie testimonianze - verso l'organizzazione che canalizzava il malcontento in un vero progetto politico, la Giovine Italia. Ad affiliarlo sarebbe stato A. Partesotti, più tardi rivelatosi come uno dei più abili informatori dell'Austria. Le delazioni di questo, relative al biennio 1843-44, tendono, forse per solidarietà di concittadino, a presentare l'attività del F. nei limiti di una rassicurante "bella condotta". In sostanza, entrando nel mondo della cospirazione democratica, il F. non sarebbe mai andato oltre una collaborazione di natura logistico-organizzativa: così tra il 1843 e il 1844 egli si recò prima a Parigi, poi a Londra, dove dal Mazzini ricevette non meglio precisati "incarichi speciali per la Svizzera e la Lombardia".

Il 17 marzo 1848 il F. era a Milano con A. Guerrieri Gonzaga e altri amici, tutti convocati da C. Correnti per una riunione preparatoria dell'insurrezione. Spaccata in due dalle vicende della guerra, il 21 aprile la regione di Mantova - che costituiva la zona chiave per lo sviluppo della controffensiva austriaca - fu dal governo provvisorio lombardo affidata, per la parte rimasta sotto il controllo degli insorti (e poi dei Piemontesi), alla giurisdizione di un Commissariato alla cui testa fu posto G. Arrivabene che, insediatosi a Bozzolo, si fece assistere da un Consiglio composto di quattro sezioni: quella della guerra e sicurezza pubblica fu affidata al F. che impiegò tutte le proprie energie per propagandare l'idea della fusione con il Piemonte. neutralizzare gli austriacanti, avviare la gente del posto alle armi, preparare le difese in previsione di un contrattacco dell'esercito imperiale.

Lo scollamento fra l'azione instancabile da lui promossa (ad esempio con la formazione della legione mantovana) e l'assistenza militare fornitagli dalle truppe regie lo indusse più volte, tra maggio e giugno, a recarsi presso il quartier generale di Carlo Alberto senza tuttavia ottenere nulla di concreto. Fu un'esperienza amara che, dopo l'armistizio, spinse il F. a rifugiarsi in Svizzera e ad aderire all'iniziativa di quei democratici che, col Mazzini alla testa, proclamavano la necessità di sostituire la guerra di popolo a quella regia.

In questa fase il F. non ebbe modo di segnalarsi particolarmente. Tornato a Mantova con una rinfrescata patina di mazzinianesimo, fu coinvolto come responsabile della zona di Marcaria nella rete di comitati che don E. Tazzoli aveva messo in piedi nel Mantovano alla fine del 1850. Nella tarda primavera del 1851 il F. fu inviato con T. Massarani a Londra da dove, incontrato il Mazzini, tornò con istruzioni relative allo spaccio delle cartelle del prestito e al necessario coordinamento con la rete dei comitati veneti. Prendeva così corpo la congiura di Belfiore che dove va colpire l'Austria nel cuore della sua dominazione e che invece, dopo il fermo del Tazzoli (27 genn. 1852) e i successivi arresti e confessioni a catena, finiva in un processo destinato a concludersi con una lunga serie di condanne, nove delle quali alla pena capitale.

Arrestato nella sua villa di Canicossa di Marcaria la notte tra il 16 e il 17 giugno 1852, il F. superò indenne gli interrogatori, le minacce di bastonature, i confronti con altri inquisiti, rispondendo in modo quasi spavaldo ai tentativi posti in atto dagli inquirenti per farlo parlare. I soli elementi a suo carico erano il viaggio a Londra e il possesso di scritti sovversivi, sufficienti tuttavia per il tribunale a infliggergli la pena di morte se, come prescriveva il codice penale, egli avesse confessato: il F., invece, negò sempre, accettando senza batter ciglio, negli otto mesi che lo separarono dal processo, le dure condizioni di vita del carcere della Mainolda e trovando nella forza di volontà e nella saldezza dei nervi l'arma che gli consentì di resistere fino a quando un consiglio di guerra, con sentenza del 3 marzo 1853, lo condannò a 18 anni di carcere duro. Il 17 maggio 1853 fu trasferito al carcere di Theresienstadt (Therezin) in Boemia.

Oltre ad inasprire la sua avversione per l'Austria, la vicenda gli aveva lasciato dentro la certezza che a tradire lui e gli altri congiurati fosse stato L. Castellazzo, futuro esponente del movimento garibaldino e dell'Internazionale nonché alta carica massonica.

Impegnatosi subito dopo il ritorno in libertà nella demolizione morale del presunto delatore, il F. non si placò più e replicatamente tentò di ottenere una pubblica condanna del Castellazzo, il quale però fu scagionato dai giurì che nel 1859 e nel 1866 erano stati investiti dell'esame del caso. Finalmente nell'ottobre del 1884, dopo l'elezione del Castellazzo al Parlamento nel collegio di Grosseto, il F., pungolato dallo spirito inquisitorio dello storico A. Luzio, che egli stesso aveva chiamato a dirigere la Gazzetta di Mantova, lanciò contro di lui una violentissima polemica sul milanese Pungolo, sperando di ottenere così l'annullamento dell'elezione. Deluso per non aver trovato ascolto, l'11 dic. 1884 si dimise da deputato.Posto in libertà il 2 dic. 1856 in virtù dell'amnistia concessa da Francesco Giuseppe alla vigilia della visita ai domini italiani, il F., che aveva trascorso gli ultimi mesi nella fortezza di Tosephstadt, tornò ai propri affari e alla famiglia. Nel 1859 si riaffacciò alla politica per accettare, il 20 giugno, dal governo piemontese l'incarico di commissario straordinario per la provincia di Mantova.

Presa stanza a Cannato, dovette anzitutto provvedere all'assistenza ai feriti di Solferino. Quindi dovette misurarsi col problema di un territorio solo in parte liberato (lo stesso capoluogo era ancora occupato) e dunque esposto al rischio di un ritomo in forze dell'Austria. Il F. si sforzò di procurare il consenso più ampio possibile al nuovo ordine trovando buona accoglienza anche nei contadini; indisse poi una leva e creò una guardia nazionale, ma tutto questo fervore non bastò a scongiurare le conseguenze dell'armistizio di Villafranca, che l'11 luglio cristallizzò la situazione su basi che al F. parvero inaccettabili e per rifiutare le quali prima inviò un accorato appello a Vittorio Emanuele II e a Napoleone III, poi tempestò di lettere L.C. Farini perché, come responsabile della Lega dell'Italia centrale, proteggesse militarmente i tre distretti dell'Oltrepo (Gonzaga, Revere, Sermide) minacciati più direttamente dagli Imperiali. Nessuno gli venne incontro, e quando si risolse a forzare la situazione demolendo alcune fortificazioni austriache, la palese violazione dello statu quo fissato a Villafranca indusse U. Rattazzi a destituirlo (2 ott. 1859). Il F. replicò presentando immediatamente le dimissioni.

La profonda insoddisfazione per l'esito del conflitto e la totale disistima per il Rattazzi lo spinsero verso Cavour e lo indussero a ritenere che in quell'autunno del 1859 Garibaldi rappresentasse la sola via d'uscita per la questione nazionale. E fu appunto Garibaldi che a fine settembre 1859 propose al F. di assumere, insieme con E. Besana, la direzione del Fondo per il milione di fucili ideato per raccogliere uomini, armi e denaro da impiegare nel progetto di invasione delle Marche e dell'Umbria la cui realizzazione era stata bloccata dall'armistizio. Ormai orientato verso il moderatismo cavouriano ma persuaso della necessità di una concordia generale, il F. accettò, superando i propri scrupoli legalitari. Oltre tutto pareva realizzarsi la speranza del F. che il Cavour, di nuovo al potere a inizio 1860, si servisse della rivoluzione per una politica risolutamente unitaria. Con la cessione di Nizza, però, venne meno in Garibaldi la volontà, proclamata il 20 febbr. 1860, "d'usare la maggiore deferenza ai desideri di Cavour" (Garibaldi, Epistolario, V, p. 350), mentre con A. Bertani nasceva un centro di raccolta di più sicura fede democratica. Il F. si trovò allora in grande imbarazzo perché, pur disponendo di una procura notarile con cui Garibaldi gli riconosceva ampi poteri, si sentiva condizionato dagli obblighi di lealtà impostigli in modo informale dal Cavour: a trarlo d'impaccio giunse la decisione di M. d'Azeglio di impedire la consegna ai Mille in partenza per la Sicilia delle armi depositate a Milano. Il F. rifornì dunque la spedizione solo qualche settimana dopo, con un ritardo sul quale doveva aver pesato il convincimento, comune al Cavour, che l'attacco al Regno meridionale si sarebbe concluso con un'invasione dello Stato pontificio. Molto meno ambigua risultò l'assistenza prestata all'organizzazione delle spedizioni guidate da G. Medici e da E. Cosenz, imbarcate l'8 giugno e il 1° luglio 1860 sui tre vapori che il F. in persona aveva acquistato a Marsiglia.

Cessato il pericolo di un'iniziativa del Bertani in Italia centrale, ma non quello di una prosecuzione dell'impresa garibaldina da Napoli a Roma, a fine luglio 1860 il Cavour spedì al Sud il F. ed E. Visconti Venosta per favorire l'emergere di un ceto di potere napoletano capace di sostituirsi a Garibaldi e garantire così un'annessione senza scosse al Piemonte: il primo, in particolare, doveva organizzare un'insurrezione e chiamare a raccolta il cosiddetto Comitato dell'Ordine, ma il piano fallì completamente. "Dégouté" per la chiusura dell'ambiente partenopeo alla visione liberale della nazionalità, il 4 sett. 1860 il F. tornò a Torino ad occuparsi del Comitato d'emigrazione veneta, nato per sensibilizzare il paese al destino delle province rimaste in mano all'Austria. Un secondo breve soggiorno napoletano (fine ottobre 1860) serviva solo a confermarlo nella convinzione che si dovesse usare il pugno di ferro per tenere a freno le tendenze anarcoidi del Meridione e a provocargli nuovi dubbi sulla possibilità "d'introdurre un paese così disorganizzato nel nostro sistema liberale" (a Visconti Venosta, 4 dic. 1860, in Carteggi cavouriani. La liberaz. del Mezzogiorno, IV, p. 46).

Intanto il 25 marzo 1860 il collegio di Viadana lo aveva eletto al Parlamento. Ebbe confermato il mandato fino alle elezioni del 1882 (XV legislatura), in vari collegi: Milano V, Borghetto Lodigiano, Bologna e Pesaro. Inizialmente a mezza via tra Garibaldi e Cavour, dopo la morte di questo il F. si persuase sempre più che la vita del paese dovesse esprimersi solo attraverso le sue istituzioni. Appunto perciò si dimise dal Comitato veneto dopo il fallimento del moto friulano del 1864, in cui vide la ennesima prova della superiorità del metodo diplomatico su quello insurrezionale; perciò ebbe sempre in odio il Rattazzi, mentre aumentava la sua fiducia nella Destra dove, come esperto di problemi economico-finanziarì, rappresentò quella consorteria lombarda di grandi proprietari terrieri che aveva la sua tribuna più autorevole nella Perseveranza.

La lunga presenza del F. in Parlamento si caratterizzò per integrità morale (come membro della commissione d'inchiesta sulle ferrovie meridionali fu lui a pretendere la severità che, tradotta in una deplorazione formale, costrinse G. Susani e P. Bastogi a dimettersi) e per la veemenza con cui sempre si scagliò contro gli esponenti della Sinistra. In realtà a preoccuparlo davvero erano la scarsa compattezza interna della Destra e l'eventualità di un'alternanza delle forze di governo, a scongiurare la quale diresse continui appelli a G. Lanza e a M. Minghetti. Dopo l'avvento della Sinistra, criticò aspramente coloro che nella Destra per coerenza si dicevano contrari ad ogni ipotesi di conciliazione con la Chiesa. Difese gli interessi della borghesia fondiaria lombarda, invocando un più deciso intervento dello Stato a tutela dell'ordine pubblico (1868) e contro le lotte bracciantili (1883) e battendosi nel 1871 e nel 1883 per le misure protezionistiche sul grano.

Gli ultimi anni di vita del F. furono amareggiati dalla già ricordata polemica col Castellazzo e dalla decisione della Camera di convalidarne l'elezione. Quasi per risarcirlo il 7 giugno 1886 Umberto I lo nominò senatore su proposta del Depretis, ma ormai il diabete di cui soffliva gli aveva provocato la cancrena in una gamba e stava attaccando l'altra. Morì ancor prima di aver prestato il giuramento di senatore, il 18 dic. 1886, nella sua residenza di Canicossa e fu sepolto nel cimitero di Campitello di Marcaria.

Del F. restano il discorso per l'inaugurazione del monumento mantovano ai caduti di Belfiore (Mantova 1872) e la commemorazione del senatore G. Arrivabene (ibid. 1881).

Fonti e Bibl.: Le Carte Finzi dell'Archivio di Stato di Mantova sono state utilizzate dagli storici soprattutto per ricostruire le vicende del Fondo per il milione di fucili: cfr. in proposito A. Luzio, Il milione di fucili e la spedizione dei Mille, in Garibaldi, Cavour, Verdi..., Torino 1924, pp. 75-137; Id., La spediz. Medici-Cosenz, ibid, pp. 163-195; R. Giusti, Problemi e figure del Risorgimento lombardo-veneto, Venezia 1973, pp. 113-160; V. Campagnari, Il 1860 nelle carte di G. F., in Rass. stor. del Risorgimento, I-XVIII (1981), pp. 198-213; Lettere del F. sono conservate nelle Carte Minghetti (Bologna), Farini (Roma), Cavalletto (Padova) e Visconti Venosta (Santena); di un certo interesse quelle a L.C. Farini dell'estate del 1859, ora in Museo centr. del Risorgimento di Roma, buste 152/10, 152/45 e 153/7; altre sono edite da L. Chiala, Lettere ed. e ined. di C. Cavour, IV, Torino 1885, pp. CXVII-CXXI; A. Luzio, Lettere di G.R dal carcere (1853-1855), in Riv. stor. del Risorgimento ital., I (1895-1896), pp. 422-436; Id., I martiri di Belfiore e il loro processo, Milano 1905, pp. 358-402 (vi sono anche le lettere al Pungolo sulla questione Castellazzo); R. Barbiera, Una nobile vita. Carteggio ined. di T. Masserani, Firenze 1909, I, pp. 7 ss.; II, pp. 270-273; Le carte di G. Lanza, Roma 1935-1943, II, pp. 384 ss.; VIII, pp. 163, 207 s., 229 s.; R. Giusti, Il 1859 nel Mantovano. Il commissariato straord. di G.F, in Atti e mem. del Museo del Risorgimento di Mantova, VII (1968), pp. 51-113 (poi in Il Risorgimento a Mantova 1849-1866, Mantova 1978, pp. 151-212). Cenni biografici sul F., oltre che in annuari e repertori, in P. Ghidetti, G.F. patriota..., Rivarolo Mantovano 1960. Tra i necrologi si segnala quello della Perseveranza del 23 dic. 1886, quasi tutto centrato sulle vicende di Belfiore. Fonti di primaria importanza per il 1859-1860 sono i Carteggi di C. Cavour. La liberaz. del Mezzogiorno ... (v. Indice generale dei carteggi cavouriani, a cura di C. Pischedda, Bologna 1961, ad nomen) e l'Epistolario di G. Garibaldi, IV-V, a cura di M. de Leonardis, Roma 1982-1988, ad Indices; qualche notazione anche in G. Visconti Venosta, Ricordi di gioventù, Milano 1906, pp. 61, 71, 189, 223, 253 ss., 554, 583 s., 600; Ed. naz. degli scritti di G. Mazzini (cfr. il vol. degli Indici, III, ad nomen); Protocollo della Giovine Italia. Congrega centrale di Francia, I-VI, Imola 1916-1922, ad Indices; Carteggio tra M. Minghetti e G. Pasolini, III, Torino 1929, ad Ind.; Le carte di G. Lanza, cit., XI, ad Ind.; L'Italia radicale. Carteggi di F. Cavallotti, a cura di L. Dalle Nogare - S. Merli, Milano 1954, p.224; Carteggio Cavalletto - Meneghini (1865-1866), a cura di F. Seneca, Padova 1967, ad Ind. Per l'attività parlamentare del F. si rinvia agli Atti parlam. Camera. Discussioni. Legislature VII-XV (si vedano gli indici posti alla fine di ogni sessione o legislatura). La commemorazione del F. Ibid., Senato. Discussioni, tornata del 19 dic. 1886. In sede storiografica, mancando un lavoro d'insieme, lumeggiano la vita del F.: A. Luzio, I martiri di Belfiore, cit., pp. 32, 90, 93 s., 99, 109, 130, 134, 136, 141, 143, 146, 153, 194, 196, 202-210, 281, 330; Id., I processi politici di Milano e Mantova 1851-1853 restituiti dall'Austria, Milano 1919, pp. 30 s., 55-111; A. Centurione Scotto, G. F. ed E. Besana, in La Lombardia nel Risorgimento, XVII (1932), pp. 59-82; A. Rezzaghi, Quarantotto mantovano, Mantova 1913, pp. 14, 74 ss., 85, 88 s., 95, 109 s., 123 ss., 158 s., 248 s., 250 s.; S. Cilibrizzi, Storia parlamentare, polit. e diplomat. d'Italia, Napoli 1939, I-II, ad Indices; G. Carocci, A. Depretis e la politica interna ital. dal 1876 al 1887, Torino 1956, ad Ind.; A. Fario, G. F. commissario straord. dei territori liberati e l'assistenza ai feriti della battaglia di Solferino, in Mantova. La storia, III, Mantova 1963, a cura di L. Mazzoldi - R. Giusti - R. Salvadori, ad Ind.; A. Berselli, La Destra storica dopo l'Unità, II, Bologna 1965, ad Ind.; R. Romeo, Cavour e il suo tempo (1854-1861), Bari 1984, ad Ind.

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