MAZZINI, Giuseppe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 72 (2008)

MAZZINI, Giuseppe

Giuseppe Monsagrati

– Nacque a Genova il 22 giugno 1805 da Giacomo, medico e poi professore di patologia e di anatomia nell’ateneo cittadino, e da Maria Drago.

Unico maschio e terzo nato di quattro figli (le sorelle si chiamavano Maria Rosa, Antonietta e Francesca, la prima destinata a farsi suora e, come l’ultima, a morire in giovane età), ricevette la prima educazione in famiglia, in parte a opera di alcuni sacerdoti giansenisti, in parte dagli stessi genitori; e se spesso e opportunamente si sottolineano gli insegnamenti della madre che avrà in lui il figlio prediletto e gli trasmetterà un patrimonio di religiosità, sensibilità e forte rigore morale, non va trascurato l’influsso che ebbe sulla sua formazione il padre, da lui caratterialmente più distante, certo non paragonabile alla moglie sul piano dell’affettività complice ma non del tutto immemore di un passato che intorno ai trent’anni lo aveva visto redattore di un foglio giacobino, Il Censore italiano, e sostenitore dichiarato e partecipe della democratica Repubblica ligure. Come ricordò più tardi lo stesso M., rievocando la propria fanciullezza, «le aspirazioni alla libertà, ingenite nell’animo mio, s’erano alimentate dei ricordi d’un periodo recente, quello delle guerre repubblicane, che suonavano spesso sulle labbra di mio padre» (Edizione nazionale degli scritti, LXXVII, p. 6): che non si trattasse solo di una placida rievocazione è suggerito dall’omogeneità ideologica degli amici e frequentatori di casa Mazzini, anch’essi portati a coinvolgere il bambino nel racconto delle loro esperienze rivoluzionarie. Proprio il padre, del resto, aveva accolto di buon grado l’annessione di Genova all’Impero napoleonico nel 1805 (e questo aveva fatto sì che il M. nascesse cittadino francese), così come, a differenza di gran parte dell’opinione pubblica ligure, non aveva visto male nel 1814 l’assegnazione della Liguria al Regno sardo: una posizione, la sua, all’origine della quale stavano sia il desiderio di entrare in un’organizzazione statale meno antiquata di quella della vecchia Repubblica aristocratica sia la sfiducia nella democrazia che ne caratterizzò la maturità e la vecchiaia.

Non mancò, tra gli amici di famiglia, chi, impressionato dalla precoce intelligenza del fanciullo, gli profetizzasse un avvenire di assoluta eccellenza. Quando aveva sette anni un parente della madre già vedeva in lui «una stella di prima grandezza che sorge brillante di una luce per essere ammirata un giorno dalla colta Europa» (Codignola, p. 191). Forse anche per questo la madre volle che gli fosse impartita un’istruzione in cui le materie scientifiche fossero accortamente dosate con quelle umanistiche; l’aggiunta di alcune attività fisiche e artistiche (scherma, danza, musica) si rese necessaria come scelta formativa cui non era estraneo il proposito di irrobustire un organismo la cui gracilità aveva suscitato nei genitori qualche apprensione. Tra la madre premurosa e il suo docile figlio si creò così un rapporto strettissimo, fatto non solo di comprensione ma anche di istintiva complicità, che il passar degli anni avrebbe vieppiù consolidato.

Nel 1819 il M., terminati gli studi privati, fu iscritto alla facoltà letteraria dell’Università di Genova per un corso biennale che, prescelto per aprirgli la via ai corsi di medicina, lo portò invece a frequentare la facoltà di giurisprudenza, dove si laureò il 6 apr. 1827. Presto accantonato per coltivare la passione per la vita civile, il titolo di studio non gli servì mai, ma gli anni che gli occorsero per conseguirlo furono ugualmente segnati da alcuni fatti fondamentali: la crescita culturale, favorita dalle intense letture storiche e letterarie (tra le più significative lo Jacopo Ortis di U. Foscolo mandato a memoria e, a soli 17 anni, l’Esquisse d’un tableau historique di J.-A. Caritat de Condorcet), la creazione di una cerchia di condiscepoli (G.E. Benza, F. Bettini, N. Ferrari, F. Campanella, i fratelli Jacopo, Giovanni e Agostino Ruffini), molti dei quali gli sarebbero rimasti vicini nelle successive vicende politiche – qualcuno di essi accompagnandolo fino agli anni della maturità e della vecchiaia –, e il fastidio per il conformismo politico e confessionale dell’insegnamento universitario. Di qui appunto originò, insieme con la sfiducia nelle religioni storiche in genere e nel cattolicesimo in particolare, stimolata dalle simpatie per l’illuminismo, la sua prima attenzione ai fermenti studenteschi, che lo videro coinvolto nel 1820 e, più seriamente, l’anno dopo, con la partecipazione (marzo 1821) al corteo che si presentò al governatore della città per chiedere la costituzione. Cose giudicate poi dal M. stesso di non grande rilievo; ben altra impressione gli fece un mese dopo l’incontro con alcuni protagonisti del moto torinese di passaggio a Genova sulla via dell’esilio, che seppe destare in lui un primo, seppur confuso, pensiero «che si poteva e quindi si doveva lottare per la libertà della Patria» (Ed. nazionale…, LXXVII, p. 6).

A dare forma più precisa alle sue prime aspirazioni contribuirono in modo decisivo gli studi umanistici, ripresi e coltivati con maggiore impegno dopo la laurea. L’impossibilità di dare veste politica ai propri sentimenti lo indirizzò infatti verso letture e ricerche di critica letteraria, poco attente in verità agli aspetti formali ma che, compatibilmente con la sorveglianza esercitata dalla censura, tutte andavano in quella direzione, inducendolo a privilegiare, a scapito del classicismo, il romanticismo e la sua estetica non come morbosa autocontemplazione ma come strumento di educazione alla consapevolezza e quindi all’espressione dei bisogni collettivi. Al Foscolo dell’adolescenza si affiancarono l’antitirannico V. Alfieri e poi G. Byron con il suo ribellismo, e si affiancò soprattutto Dante Alighieri, elevato nel primo scritto del M., risalente al 1826-27 (Dell’amor patrio di Dante, destinato all’Antologia di G.P. Vieusseux ma rimasto allora inedito e pubblicato solo nel 1837 da N. Tommaseo), al rango di profeta di una nazionalità da comporre attraverso il superamento delle secolari divisioni della Penisola. Si affacciava già allora nel M. la propensione a esercitare, mediante l’illustrazione di opere dal forte contenuto civile, quel magistero morale che negli anni Trenta avrebbe fatto di lui il maggiore suscitatore di energie volte a formare e a diffondere nell’opinione pubblica più avvertita il senso dell’appartenenza a una patria comune, per quanto ancora indefiniti ne fossero i tratti.

In cerca di un mezzo dal quale far sentire la voce propria e quella degli amici più fidati, nel maggio del 1828 il M. ottenne che un foglio commerciale, l’Indicatore genovese, ospitasse periodicamente le recensioni e gli articoli in cui, selezionando di volta in volta la più recente produzione italiana e straniera soprattutto in materia di romanzo storico (tra gli autori prescelti, W. Scott, F.D. Guerrazzi e, con una intonazione critica di stampo laico, A. Manzoni; nella saggistica la Storia delle letteratura antica e moderna di F. von Schlegel tradotta da F. Ambrosoli, Milano 1828), il giovane M. compiva la sua adesione definitiva al romanticismo e si avviava a impostare quella fondamentale visione dell’unità culturale europea la cui matrice era ancora settecentesca, illuministica, cosmopolitica. Tale impronta cominciò a scorgersi sin dall’esperienza successiva a quella dell’Indicatore genovese, chiuso d’autorità alla fine del 1828: su invito di Guerrazzi e di C. Bini, il M. prese infatti all’inizio del 1829 a collaborare assiduamente all’Indicatore livornese cui la apparentemente più tollerante Toscana consentiva di trattare temi di attualità culturale; e fu in questo periodico che apparve una fitta serie di articoli su poeti e scrittori del romanticismo (J.W. Goethe, P. Giannone, G. Berchet, ancora Foscolo) tenuti insieme da un occhio critico che, sempre fedele alla lezione di Condorcet, postulava una concezione progressiva dello sviluppo della società. A compimento di una riflessione che si era nel frattempo arricchita della conoscenza dei corsi di storia e filosofia di V. Cousin e F. Guizot, alla fine del 1829 il M. riusciva a far accogliere dall’Antologia il saggio D’una letteratura europea, frutto ormai maturo d’una esperienza di lettore orientato chiaramente a cogliere, differentemente dalla storiografia erudita del Settecento, «il segreto vincolo che connette l’indole e i progressi delle Lettere colle vicende del viver civile e politico» (Ed. nazionale…, II, p. 181), l’arte alla vita della nazione, le istituzioni alla condizione della cultura, il tutto attraverso una trattazione che prendeva le mosse dall’antichità greca e romana per delineare un cammino comune verso la modernità: «una tendenza Europea» (ibid., p. 213) avente come tappa essenziale la Rivoluzione francese e la sua azione espansiva, un incedere da cui l’Italia restava esclusa appunto per non essersi affermata come nazione. Ed era questo il primo segnale che la prospettiva puramente patriottica, per quanto importante, non gli apparisse soddisfacente se non risolvendosi in una superiore istanza aggregativa; lo sfondo su cui collocarla era per ora quello dettatogli dall’eclettismo monarchico-costituzionale.

Quando tutto ciò aveva luogo il M., quasi gli fosse impossibile placarsi nel lavoro intellettuale e forse appunto per dargli un senso di cosa non fine a se stessa, si era già affiliato con la mediazione dell’amico P. Torre alla carboneria genovese (1827). Nei ricordi della maturità ne avrebbe ridicolizzato lo spirito settario, i vuoti simbolismi e le procedure esoteriche: in realtà era tale la sua voglia di scendere sul terreno pratico e tanto serio il suo carattere che, in mancanza di altro, accettò di divenire a sua volta affiliatore di altri iniziati; non si negò a una sorta di esercizio stilistico consistente in una lunga lettera a Carlo X di Francia a sostegno del diritto della Spagna alla costituzione (De l’Espagne en 1818-1819 par rapport à la France, rimasto per il momento inedito) e compì disciplinatamente nel settembre 1830 il viaggio in Toscana per l’apertura di una vendita a Livorno (dove vide Bini per poi incontrarsi a Montepulciano con Guerrazzi). A lungo andare, però, la prassi carbonara gli si disvelò in tutta la sua inconcludenza, soprattutto in presenza di una Rivoluzione che come quella francese del luglio 1830 aveva portato alla ribalta un ceto politico dove assai forte e decisa sembrava essere la componente repubblicana. In effetti, anche la macchina repressiva piemontese percepì subito il mutamento di clima. Il 13 nov. 1830, in seguito a una provocazione poliziesca ordita con la complicità di uno dei capi carbonari, il M. fu arrestato e incarcerato nella fortezza di Savona. Prosciolto per mancanza di prove, il 28 genn. 1831 fu liberato e posto di fronte all’alternativa tra il confino in un borgo sperduto del Piemonte e l’esilio. Scelse l’esilio, anche perché convinto che la crisi internazionale aperta dalla Rivoluzione in Francia lo avrebbe presto ricondotto in patria al seguito di qualche armata vittoriosa; e invece per rivedere Genova dovette aspettare il 1848.

Accompagnato al confine da uno zio, il 10 febbr. 1831 iniziò le sue peregrinazioni dalla Svizzera dove, a Ginevra, fece visita a S. de Sismondi, celebrato autore della Histoire des républiques italiennes au Moyen-âge, da lui subito apprezzato come uno dei pochi stranieri capaci di offrire un’immagine non convenzionale dell’Italia e di comprenderne le difficoltà; poi si diresse a Lione per unirsi ad altri esuli italiani che preparavano una spedizione che dalla Corsica avrebbe dovuto portarli in Italia per prestare aiuto agli insorti dei Ducati e delle Legazioni. Che il governo di Bologna respingesse l’offerta fu per il M. la prova di quanto fosse moderata quella dirigenza politica e mal riposta la sua fiducia nell’intervento francese; quest’ultimo concetto («maledizione alla Francia di Luigi Filippo», cit. in Grandi - Comba, p. 60), esposto a caldo in un articolo intitolato Une nuit de Rimini en 1831 ed esteso poi fino a porre in serio dubbio la funzione storicamente propulsiva della democrazia transalpina, si radicò in lui con tanta forza da finire per costituire, oltre che una causa frequente di frizione con altri esponenti della democrazia, un autentico caposaldo del suo pensiero politico; allo stesso modo, la separazione dalla carboneria si tradusse in una critica serrata del suo limitato programma e della sua «mancanza di fede politica».

Sarebbe tuttavia errato pensare a una rottura brusca del M. con la setta, che nell’esulato italiano contava molti seguaci con cui i contatti e la collaborazione erano in pratica obbligati; si può anzi dire che proprio dalla carboneria più radicale il M., che nell’aprile del 1831 era entrato a far parte degli Apofasimeni di C.A. Bianco di Saint-Jorioz, attingesse una parte della leva che costituì la base per la propria organizzazione, la Giovine Italia, da lui fondata a Marsiglia nel luglio del 1831, presumibilmente dopo una gestazione interiore durata qualche mese.

La nascita della Giovine Italia era stata preceduta da un altro importante scritto mazziniano, la lettera A Carlo Alberto di Savoia, edita in opuscolo a Marsiglia nel giugno del 1831 e recante in epigrafe il motto «Se no, no!». Rivolgendosi a colui che da poco era diventato re di Sardegna il M., apparentemente dimentico delle aspre polemiche liberali sul suo comportamento nel 1821, gli prospettava l’ipotesi di abbracciare il movimento patriottico e di guidarlo fino al conseguimento dell’indipendenza e dell’unità nazionale. Il documento, accolto positivamente dagli ambienti dell’emigrazione italiana e diffuso in gran numero di copie anche in Piemonte, non ebbe altra risposta che quella delle autorità sarde che ordinarono l’arresto del M. nel caso di un suo rimpatrio. Tuttavia – anche in virtù del suo linguaggio gonfio ed enfatico e di qualche espressione di elogio rivolta al re – restò a lungo come testimonianza di un passo assai discusso, che il M. dirà compiuto allo scopo di disilludere quanti per attaccamento ai metodi carbonari ancora contavano sulla collaborazione con i sovrani e in cui invece i suoi avversari (e, nel clima esasperato del ’48 e del suo fallimento, specialmente i federalisti lombardi con alla testa C. Cattaneo che rilanciarono la polemica optando per una interpretazione moderata) vedranno una prova della sua non piena, e solo in parte sincera, adesione alla causa repubblicana. Probabilmente, il M. voleva solo dare la misura di quanto fosse importante per l’Italia la conquista dell’unità; e certo, l’ingresso negli Apofasimeni, il rapporto allacciato di lì a poco con quel grande vecchio del giacobinismo che rispondeva al nome di F. Buonarroti e l’influenza del sansimonismo e delle posizioni più radicali del repubblicanesimo francese sull’evoluzione del pensiero mazziniano sembrerebbero voler dire piuttosto che nel M. la svolta verso una concezione rivoluzionaria si era ormai compiuta.

In questa prospettiva, la creazione della Giovine Italia rappresentò il salto di qualità che il M., ritenendosi ormai pronto per una lotta politica da condurre in piena autonomia e con fini chiaramente unitari, volle compiere per dare attuazione a una speranza concepita nei mesi della detenzione a Savona e ai principî successivamente elaborati a partire da un’attenta analisi delle condizioni generali dell’Italia e della sua storia.

Rivelandosi pronto a cogliere le vaghe aspirazioni già concepite in altri ambienti della sua organizzazione, che tendeva chiaramente a distinguersi dalle sette e a provarne l’inadeguatezza con il proposito non tanto di combatterle quanto di assorbirle, il M. proponeva un programma che, proprio in opposizione alle misteriose gerarchie e ai segreti del settarismo, dichiarava pubblicamente gli obiettivi da perseguire nell’Istruzione generale per gli affratellati nella Giovine Italia diffusa nella seconda metà del 1831: obiettivi che, desunti dalla storia e dalla «intima costituzione sociale del paese», erano identificati con l’indipendenza e l’unità repubblicana della Penisola, da raggiungere con due mezzi pure essi apertamente dichiarati, l’educazione e l’insurrezione, l’una da conseguire con una incessante predicazione (o apostolato), l’altra da effettuare con il ricorso alla guerra per bande da poco teorizzata da Bianco di Saint-Jorioz, senza dipendere dall’aiuto straniero e facendo leva esclusivamente sul popolo: dunque, l’unità non solo come fine ma come metodo politico di lotta rivoluzionaria. Essenziale era poi lo stadio successivo a quello insurrezionale, che il M. teorizzava come «governato da un’autorità provvisoria, dittatoriale, concentrata in un piccol numero d’uomini» (Ed. nazionale…, II, p. 53) in rappresentanza delle zone del Paese insorte: alla cacciata dello straniero sarebbe seguita la rivoluzione vera e propria, cui sarebbe spettato il compito di instaurare il governo repubblicano «quando l’insurrezione avrà vinto» (ibid.), abolendo ogni forma di privilegio e introducendo il principio dell’eguaglianza; ugualmente caratterizzanti erano altre precisazioni dottrinali quali l’accettazione del dibattito interno (ferma restando l’impossibilità di discutere le basi ideali dell’associazione) e la previsione di una organizzazione amministrativa della repubblica «religiosamente» (ibid., p. 50) rispettosa delle libertà comunali. Possibilista verso ogni forma di collaborazione, il M. decretava infine una chiusura drastica nei confronti del federalismo, visto come fattore di debolezza interna e come fomentatore dei localismi più gretti.

Il vero lavoro incominciò subito dopo la propagazione di questo manifesto, e non fu solo lavoro tendente a costituire congreghe nelle maggiori città del Nord Italia, a reclutare proseliti e a fare di essi i propagatori delle nuova fede (con una rapida diffusione della Giovine Italia a Genova e quindi in Toscana e nelle Romagne, un po’ più tardi in Piemonte e in Lombardia). Risale a questi mesi di fine 1831 e di inizio 1832 l’affiliazione di personaggi come Bianco di Saint-Jorioz, L.A. Melegari, G. La Cecilia, N. Fabrizi, G. Lamberti, G. Giglioli, G. Modena ecc., che saranno i quadri di un partito che basava la militanza non sull’esecuzione di questo o quel piano ma sulla virtù, lo spirito di sacrificio, la fede e l’unità di credenza: per cui parte decisiva del lavoro rivoluzionario fu la divulgazione dei principî costitutivi del pensiero politico mazziniano attraverso l’apostolato e fu l’approfondimento dei temi del patriottismo che egli affidò alle pagine di una rivista, intitolata anch’essa La Giovine Italia, comparsa la prima volta a Marsiglia all’inizio del 1832 e pubblicata fino al giugno 1834 per un totale di sei fascicoli. Qui comparvero, oltre a un articolo di Buonarroti nel quale si postulava l’esigenza della dittatura rivoluzionaria (tesi da cui in una nota al testo il M. volle dissociarsi), alcuni dei suoi scritti più significativi sul piano dottrinale (Della Giovine Italia nel primo fascicolo, Delle cause che impedirono finora lo sviluppo della libertà in Italia nel secondo e terzo fascicolo, i Pensieri ai preti italiani nel quinto, in polemica con l’indifferentismo religioso) volti a chiarire le linee di un programma di totale rottura con i metodi e i capi delle passate rivolte; ed erano scritti indirizzati soprattutto ai giovani di qualunque ceto, individuati come la forza che, indisponibile ai compromessi e alle mediazioni, avrebbe portato nella lotta la dedizione, l’energia creativa e il disinteresse necessari per condurla felicemente a termine superando lo scetticismo degli inerti. Sarà su di loro che avranno particolare effetto le caratteristiche, incalzanti iterazioni degli appelli e dei manifesti mazziniani.

Sul piano più propriamente teorico va poi sottolineato, oltre gli apporti già segnalati del pensiero storico del romanticismo (in particolare di quello francese), il ruolo che nello sviluppo del mazzinianesimo ebbero gli scritti di G. Vico (conosciuti attraverso la traduzione francese di J. Michelet), di C.-H. de Saint-Simon e di J.G. von Herder: dal primo egli ricavò la teoria del perfezionamento progressivo respingendone però come produttiva di scetticismo la tesi dei corsi e ricorsi storici; da Saint-Simon trasse, con altri spunti, le basi di quello che sarebbe stato il suo associazionismo; da Herder, infine, e appunto a correzione di Vico, la concezione dello sviluppo storico come progresso indefinito.

Diversamente dalle altre teorie rivoluzionarie da cui pure aveva attinto qualche elemento, quella del M. era caratterizzata da un fortissimo contenuto religioso che ne costituiva l’originalità ma, in qualche misura, anche il limite e, per l’identità da lui postulata tra religione e politica, rischiava di farne qualcosa di simile a una teocrazia. Si faceva qui sentire l’influsso della lettura delle opere di F.-R. de La Mennais (e, dal 1834, della corrispondenza intrattenuta con lui) come di altri riformatori religiosi francesi. Non riferibile ad alcuna delle confessioni ufficiali e anzi molto critica non solo verso il cattolicesimo ma verso lo stesso cristianesimo, che riteneva ormai finito («finito non nel senso di vederlo distrutto tra venti, trenta anni – spiegava a Melegari l’8 apr. 1837 – [ma nel senso] che tutto ciò che si compie, tutto ciò che accade, tutto ciò che si scrive, tende a preparare una nuova religione, la Fede umanitaria»; Ed. nazionale…, XII, p. 369), la sua era la posizione di un teista che faceva discendere da Dio l’idea di progresso dell’umanità come legge suprema da cui far derivare il concetto di missione. Calato nella storia, tale concetto imponeva la creazione della nazione come l’organismo collettivo che solo avrebbe potuto tradurlo in atto tramite l’iniziativa di uno dei tanti popoli vittime, a causa della dominazione straniera, di una condizione di ritardo rispetto alle più progredite nazioni storiche.

Va detto che già in questi anni e più insistentemente dopo il 1848 tali affermazioni, presto sintetizzate nella fortunata formula «Dio e Popolo», e l’antimaterialismo che le animava attirarono sul suo ideatore rimproveri di formalismo e denigrazioni sul tipo di quelle che gli rivolgerà K. Marx definendolo il «nuovo Maometto». In realtà, al principio degli anni Trenta il pensiero del M. era sul piano sociale (soprattutto se riferito all’Italia) tra i più avanzati che fosse dato conoscere, dal momento che la libertà e l’eguaglianza in cui egli vedeva i primi frutti della conseguita unità non erano solo parole buttate lì per captare consensi ma implicavano un cambiamento profondo e davvero rivoluzionario dell’assetto del Paese; anzi la libertà aveva per lui senso solo nella misura in cui fosse stata «mezzo necessario per fondar l’Eguaglianza, per ricostituire il Popolo» (a Melegari, 2 ott. 1833; Ed. nazionale…, IX, p. 98), e le moltitudini cui andavano sovente il suo pensiero e le sue preoccupazioni non erano soltanto la massa di manovra da cui sarebbe dipeso il successo militare dell’insurrezione ma erano le prime destinatarie del processo di rinnovamento e di lotta al privilegio che l’unificazione, una volta compiuta, avrebbe messo in moto: che era un premio in sé ben più grande agli occhi del M. di qualsivoglia bene materiale. Forse sbagliava, ma certo non vendeva fumo e rispettava se stesso; e non è un caso che precedentemente all’avvento in Italia delle prime organizzazioni socialiste e internazionaliste, il movimento operaio nascesse in Italia nel segno del mazzinianesimo tenendo insieme questione nazionale e questione sociale.

Quanto alle accuse, allora e soprattutto dopo rivoltegli, di interclassismo e di indifferenza rispetto al problema contadino, esse vanno viste anzitutto nel quadro della lotta politica in atto nell’Italia postfascista, il che ne spiega in qualche misura il carattere ideologico (per il M. non era concepibile che per fare l’Italia si spaccasse il Paese o se ne spaventasse la componente borghese e quella dell’aristocrazia illuminata parlando di legge agraria e di limitazione della proprietà privata; inoltre i contadini italiani del 1830, ben lungi dall’essere gli stessi del 1950, non avevano molti punti di contatto nemmeno con quelli della Francia del 1789). Oltretutto, l’ampia diffusione della Giovine Italia in ogni zona del Paese sembrò dare ragione al M. perché non riguardò solo le città e gli intellettuali ma, coinvolgendo anche i piccoli centri, reclutò molti elementi tra gli artigiani e perfino nella popolazione rurale. Secondo G. Garibaldi, il M. non aveva alcuna esperienza delle reali condizioni del popolo, non avendolo mai conosciuto da vicino: che era un dato di fatto incontestabile soprattutto alla luce dei molti anni passati lontano dall’Italia, anche se è vero che come capo della Giovine Italia ebbe molte ramificazioni nel vasto tessuto dell’emigrazione italiana a Londra cercando di conoscerne i problemi e di alleviarne la miseria. In ogni caso, le carenze e il carattere talora velleitario del mazzinianesimo soprattutto in materia di precisazione dei concetti cardine del suo pensiero (con qualche confusione tra popolo, nazione e repubblica) e di passaggio dal pensiero all’azione (che pure era uno dei punti fermi del suo programma) non devono far trascurare l’efficacia delle sue doti di comunicatore, la modernità del suo linguaggio, la lucidità delle sue analisi che il futuro rivelerà sempre ben informate, in particolare sulla politica internazionale.

Tra il 1831 e il 1834, dunque, il M. delineò con progressiva chiarezza i tratti teorici della sua attività, lasciandosi alle spalle le esperienze collaborative con altri movimenti, in particolare quella avviata nell’autunno del 1832 con i Veri Italiani di Buonarroti che, discendendo dal babuvismo, ai suoi occhi aveva il difetto di vagheggiare una società imperniata sull’egualitarismo e di subordinare all’iniziativa della Francia l’autonomia dei vari movimenti rivoluzionari. Nel 1833 sembrò finalmente arrivato il momento di mettere alla prova le strutture cospirative che la Giovine Italia si era intanto data grazie a una capillare propaganda, fatta di scritti clandestinamente introdotti in Piemonte, che le aveva consentito di penetrare perfino nelle file dell’esercito sabaudo («riuscimmo ad impiantare relazioni con quasi tutti i reggimenti», scrisse poi il M.; Ed. nazionale…, LXXVII, p. 145) e aveva fatto concepire l’idea di una rivolta a Genova e Alessandria; senonché il piano fu bloccato sul nascere dalla delazione di un congiurato che innescò una lunga serie di arresti e processi conclusi con dodici esecuzioni capitali e con il suicidio in carcere di J. Ruffini. La morte di uno dei suoi più antichi amici colpì profondamente il M. che, raggiunta Ginevra dalla clandestinità marsigliese cui nel giugno del 1832 l’aveva costretto un decreto di espulsione della Francia, meditò di reagire alla repressione sabauda con una spedizione in Savoia (cui aderirono volontari polacchi e tedeschi) e un moto nella sua città natale. Fissati per il febbraio 1834, fallirono l’uno e l’altra rivelando, insieme con alcuni grossi difetti organizzativi, la debolezza intrinseca di una politica che la rottura con Buonarroti, la polemica antifrancese e la fede nei propri principî avevano isolato dalle altre forze rivoluzionarie.

Non era però nel carattere del giovane M., né lo fu in seguito, scoraggiarsi per un insuccesso, sia pure di così vasta portata. Analizzandolo, si convinse che era giunta l’ora di collocare il problema italiano in una dimensione più vasta, suscettibile di realizzare quella tendenza europea cui egli pensava da anni (la spedizione di Savoia ne era stata una prima manifestazione) e per la quale la Giovine Italia, in crisi profonda dopo gli smacchi del 1833-34, appariva insufficiente. Ginevra era il punto d’incontro ideale per quegli esuli d’ogni parte d’Europa cui poteva interessare l’ipotesi di una santa alleanza dei popoli da contrapporre a quella dei re, che era all’origine della loro condizione di perseguitati: il M. fece leva su tale sentimento per convincere il 15 apr. 1834 i rappresentanti dell’emigrazione tedesca e polacca a firmare con lui a Berna il patto costitutivo (Atto di fratellanza) della Giovine Europa. In primo piano veniva così l’ideale non del generico cosmopolitismo ma quello di un «ordinamento federativo della Democrazia Europea sotto un’unica direzione» (Ed. nazionale…, LXXVII, p. 214) come punto d’arrivo dell’affratellamento delle nazioni martiri, ognuna delle quali investita, all’atto della sua stessa formazione, di una missione: favorire l’unità «delle razze germaniche, di quelle slave e di quelle greco-latine» (all’esule polacco J. Lelewel, 21 febbr. 1835, in Ed. nazionale…, Appendice, I, p. 206). Alla base c’era la definitiva presa d’atto della conclusione dell’epoca «individuelle» aperta dalla Rivoluzione francese di cui il M. considerava ormai acquisiti i risultati di progresso (ma idolatrarla in nome della sua tradizione rivoluzionaria pur dopo l’avvento di una monarchia borghese significava perpetuare l’attesa dall’esterno di una libertà che il popolo italiano avrebbe invece dovuto conquistare da solo) e la presa di distanza dall’Inghilterra avente a cuore «l’egoismo nazionale, commerciale, e non altro» (a P.S. Leopardi, 2 giugno 1834: Ed. nazionale…, IX, p. 386); in più, c’era, tramite l’accentuazione del concetto di umanità con cui la nazionalità doveva armonizzarsi, la risposta a ogni forma di nazionalismo, tale apparendogli anche quell’egemonia della Francia che Buonarroti insisteva a riproporre: tema, questo, che animava soprattutto un lungo intervento del M. nella Revue républicaine del gennaio 1835 dal titolo De l’initiative révolutionnaire en Europe.

Ma il patto di Berna difficilmente andò oltre una nobile dichiarazione d’intenti né, pur favorendo la formazione di solide amicizie personali tra gli esuli, divenne mai un vero polo di aggregazione per la sinistra europea o per gli altri risorgimenti e solo a distanza di anni funzionò da esempio per alcuni movimenti nazionali (la Giovine Boemia, il Giovine Tirolo, la Giovine Russia ecc.) idealmente collegati al ceppo originario; presto manifestò anzi una certa litigiosità tra i fondatori (il M. vide subito messo in discussione il proprio ruolo di leader dell’associazione e nel giugno del 1835 si dimise dal comitato centrale) e risentì dei conflitti sociali apertisi nell’emigrazione tedesca.

Al proprio attivo la Giovine Europa mise invece la creazione della Jeune Suisse e, a partire dal 1° luglio 1836, l’uscita di un periodico bilingue che non ne era l’emanazione ma che ne riprendeva nel titolo il nome e nel quale il M. e i suoi collaboratori proseguirono il loro lavoro di ricerca teorica, discussione e proselitismo. Dei circa settanta articoli che il M. vi pubblicò, uno faceva il punto sul rapporto tra intellettuali e popolo (marzo 1836: De l’association des intelligences), ma quello che meglio spiegava la sua condizione spirituale del momento era Interessi e principii (titolo originale Des intérêts et des principes, gennaio-febbaio 1836): chiaramente influenzato, come tutta la sua riflessione di questo periodo, dal pensiero di Saint-Simon per un verso, di La Mennais per l’altro, il concetto di rivoluzione era qui collegato non agli interessi materiali (comunque non da trascurare, precisava il M.) ma all’affermazione di un principio morale, di un «pensiero comune a tutti» di un fine collettivo: «Non si compiono grandi cose se non rinnegando l’individualismo e con un sagrificio costante al progresso generale. Ora il sagrificio è il sentimento del dovere in azione. E il sentimento del dovere non può scendere dagli interessi individuali, ma esige la conoscenza d’una legge superiore inviolabile» (Ed. nazionale…, VII, pp. 169 s.).

Gli argomenti, il tono profetico e l’insistito richiamo a Dio erano qui gli stessi che in modo anche più solenne caratterizzavano il maggiore scritto mazziniano del periodo, Foi et avenir, pubblicato in opuscolo a Bienne nel 1836 per protestare contro una legge che in Francia bloccava la stampa repubblicana, poco o affatto conosciuto in Italia, poi ripubblicato a Parigi nel 1850 e inserito dal M. stesso nel quinto volume dell’edizione cosiddetta Daelliana: ribadito l’esaurimento della Rivoluzione francese e, con esso, dell’epoca dei diritti, il futuro dell’Europa vi era visto alla luce del principio di associazione come «metodo del progresso» (Ed. nazionale…, VI, p. 329) e la sua realizzazione subordinata all’adozione di un pensiero religioso, di una fede da cui fare scaturire il concetto di dovere come premessa indispensabile per il compimento della missione e l’avvento di una moderna democrazia europea.

Sono stati attribuiti agli anni tra il 1835 e il 1840 e accostati alla polemica sull’iniziativa rivoluzionaria gli appunti, recentemente riscoperti e pubblicati (L. Rossi, M. e la Rivoluzione napoletana del 1799. Ricerche sull’Italia giacobina, Manduria-Bari-Roma 1995, poi vol. VI della n.s. degli Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, Roma 2005, pp. 101-118), per uno scritto mai terminato che il M. ebbe in mente di dedicare alla Rivoluzione napoletana del 1798-99. Probabile lavoro di preparazione per un intervento politico che, com’era tipico in lui, muovendo da considerazioni storiche servisse a costruire un progetto rivoluzionario, l’abbozzo rendeva omaggio al patriottismo dei repubblicani napoletani ma soprattutto esaltava la resistenza spontanea opposta dai «lazzari» ai Francesi, sintomo, secondo l’autore, di una predisposizione delle masse all’insurrezione che in quel contesto storico e geografico aveva fini legittimisti ma che un adeguato lavoro di educazione avrebbe potuto piegare alla causa nazionale.

Intanto il febbrile lavoro di coordinamento dei movimenti democratici non poteva non suscitare l’attenzione degli organi di polizia sia francesi sia austriaci per i quali il M. era ormai uno tra i più pericolosi rivoluzionari operanti in Europa. Note diplomatiche si riversarono una dopo l’altra sulle autorità svizzere che nel maggio 1836 ne disposero l’arresto e ne decretarono l’espulsione; arrestato una seconda volta in Francia due mesi dopo e autorizzato a partire per l’Inghilterra, tornò nuovamente in Svizzera dove, tra Grenchen e Soleure, visse nascosto e ramingo per alcuni mesi, in una condizione psicologica resa ancora più tormentata dalla conclusione della lunga relazione sentimentale con Giuditta Sidoli (con la quale, secondo alcuni studiosi, aveva avuto nel 1832 un figlio, affidato ad amici francesi e morto nel 1834, di cui peraltro il M. non parla mai in modo esplicito nella corrispondenza, né in quella con la Sidoli né in quella con la madre che pure era la sua maggiore confidente).

Si situò, in questo scorcio del 1836, il periodo più critico della sua vita, quello che il M. stesso chiamò della tempesta del dubbio, ossia della sofferenza interiore determinata in lui dalla somma di una serie di amarezze pubbliche con quelle personali: la paralisi della Giovine Italia, la stanchezza e la sfiducia di chi gli era rimasto vicino (i fratelli Ruffini), il senso di vanità di tutti i suoi atti e di una impari lotta con il sistema delle potenze coalizzate, il pensiero che da tali atti fosse dipesa la morte di chi gli era stato caro, il timore che all’origine delle sue scelte si potesse sospettare esserci stata l’ambizione personale. Il lungo momento di disperazione conobbe anche tentazioni suicide che il M. superò con la presa di coscienza del residuo d’egoismo che non aveva ancora eliminato dalla sua vita e che, inducendolo al dubbio, lo aveva reso dimentico di come essa fosse missione e dovesse obbedire alla legge del dovere. Passaggio essenziale del suo percorso di salvazione («dal martirio alla pace»; Ed. nazionale…, LXVII, p. 258) fu, contemporaneamente all’acquisizione irreversibile del senso religioso dell’esistenza, la rinuncia definitiva a ogni aspirazione individuale, a ogni pretesa di felicità. Da allora ebbe valore per lui solo un principio, lo stesso applicato a ogni altro individuo e che A. Herzen, che fu tra gli stranieri uno di coloro che meglio ne compresero la psicologia, così sintetizzò: «Per Mazzini gli uomini non esistono, per lui esiste una causa, e una sola causa; egli stesso esiste, “vive e si muove” soltanto in essa» (A. Herzen, Passato e pensieri, Milano 1970, p. 277).

Era ancora in preda ai postumi di questa crisi quando le pressioni diplomatiche di Austria e Francia sulla Svizzera che lo ospitava lo costrinsero a cambiare asilo. Si mise allora in viaggio per l’Inghilterra giungendo a Londra con i fratelli Ruffini all’inizio del 1837. Non gli fu facile ambientarsi in un Paese che da sempre considerava abitato da gente votata all’utilitarismo e governato da una classe politica nutrita di egoismo materialistico e di ostilità verso la causa dei popoli oppressi. La rendita garantitagli dai genitori si rivelò presto insufficiente rispetto al tenore di vita londinese, né a sollevarlo dalla miseria e dai debiti bastarono i vari espedienti di traffici di prodotti alimentari dall’Italia cui per qualche tempo, più che altro per fare contento il padre, si adattò con pessimi risultati. Fu dunque assai propizia l’occasione che gli si presentò quando fu chiamato a collaborare ad alcuni periodici inglesi con articoli che dovette comunque adeguare al gusto, alla forma mentis e alle esigenze conoscitive dei lettori britannici, volte non verso l’Italia in particolare ma verso il movimento intellettuale europeo. Ebbe allora e sempre qualche difficoltà ad adattare il proprio pensiero all’avversione tipica degli Inglesi per «tutto che sa di generalizzatore, di sintetico e dì pure di spiritualismo», come scriveva il 7 marzo 1839 a Benza (Ed. nazionale…, XV, p. 415); ma in tal modo, oltre ad assicurarsi un compenso peraltro assorbito quasi tutto dal costo dei traduttori, acquistò qualche fama negli ambienti culturali e formò le sue prime amicizie: più caduca perché viziata da un dissidio di fondo, ma fertile per lo sviluppo del suo pensiero quella con lo storico Th. Carlyle; destinata a durare tutta la vita quella con le famiglie Ashurst, Nathan, Biggs. Per quanto non rifuggisse dal frequentarle, non si può dire che rinunciasse alla vita di ascetica dedizione al dovere cui si era votato nel 1836.

In Westminster Review, in British and Foreign Review, in Tait’s Edinburgh Magazine, in Foreign Quarterly, in Monthly Chronicle apparvero suoi articoli e recensioni che non erano dunque di pura propaganda politica, che anzi il più delle volte riguardavano temi e personaggi della grande letteratura e della pubblicistica europea – Goethe, V. Hugo, La Mennais, George Sand, lo stesso Carlyle, da lui significativamente criticato per quella sua visione atomistica che privilegiava l’individuo e così facendo smarriva «il vero senso della razza umana» (Genio e tendenze di Tommaso Carlyle, in Ed. nazionale…, XXIX, p. 90) –, ma che rendevano possibile l’ospitalità concessa dalle stesse riviste ad altri scritti più specificamente italiani, scritti in cui spesso il M., servendosi di argomentazioni mai banali, proponeva una visione polemica del cattolicesimo e della Chiesa di Roma, con ciò riuscendo a suscitare interesse per le condizioni dell’Italia, per la sua storia, per le sue tradizioni artistiche, letterarie e musicali. A quest’ultimo tema il M. aveva già dedicato nel 1836 un notevole saggio, Filosofia della musica, nel quale, coerentemente con tutto il suo pensiero e con la temperie del romanticismo, vagheggiava dalla fusione delle due scuole, la tedesca e l’italiana, l’avvento di una «musica europea», ossia di una musica che avesse un «intento sociale» e riunisse in sé i due elementi caratterizzanti, «la santità della fede che distingue la scuola germanica» e «la potenza d’azione che freme nella scuola italiana», tenendo insieme «l’individualità e il pensiero dell’universo, – Dio e l’uomo» (Ed. nazionale…, VIII, p. 144); di curioso vi era anche l’applicazione all’argomento artistico dello stesso schema con cui il M. aveva guardato alla storia europea, risultando qui G. Rossini il genio che, proprio come la Rivoluzione francese, aveva chiuso l’epoca dell’individualismo e dal quale, proprio come dalla Francia, sarebbe stato bene emanciparsi. Contemporaneamente, altre riviste europee accoglievano le sue corrispondenze sull’Inghilterra, frutto di uno sforzo che lo costringeva a un approfondimento dal quale i suoi pregiudizi e le sue opinioni sul sistema sociale e politico inglese sarebbero usciti almeno in parte modificati.

Un’impresa che gli costò molta fatica e non gli portò nessun guadagno materiale, ma rappresentò per lui l’attuazione di un impegno morale, fu l’edizione del manoscritto – ritrovato presso un libraio inglese – del commento di Foscolo alla Divina Commedia: manoscritto che tuttavia era incompleto, tanto che il M. dovette integrarlo con un dispendioso lavoro di annotazione cui aggiunse la revisione del testo e una introduzione non firmata. Una volta ultimata, l’opera in 4 volumi fu pubblicata nel 1842-43 da un editore italiano attivo a Londra, P. Rolandi; nel 1844, sempre di Foscolo, uscì a Lugano, per cura e con prefazione del M., un volume di Scritti politici inediti.

L’idea di un ritorno alla militanza politica, mai dismessa sul piano dell’attenzione per l’evoluzione della questione italiana, cominciò a farsi avvertire nel 1839, ricevendo stimolo da un lato dalla presenza di nuovi fermenti insurrezionali nella Penisola, dall’altro dalle prime fortune del moderatismo, ormai avviato grazie a S. Pellico e a N. Tommaseo verso la brillante stagione propositiva dei primi anni Quaranta. Annunciata da un manifesto datato 30 apr. 1840, rinasceva dunque la Giovine Italia, dotata ora di una struttura più capillare e diffusa fin nelle Americhe, di una Congrega centrale di Francia, che attraverso Lamberti teneva i contatti con l’Italia e con gli esuli sparsi nel Mediterraneo, di un personale politico ampiamente rinnovato rispetto alla prima organizzazione. Tornato alla piena attività, il M. respinse poi l’invito a cooperare nelle vesti di teorico fattogli pervenire da Fabrizi, fondatore nel 1839 della Legione italica, e, forte anche dell’esperienza ricavata dall’osservazione delle coeve agitazioni operaie inglesi e delle forme associative poste in essere dagli esuli polacchi, prese a indirizzare la propria attenzione verso la condizione dell’emigrazione italiana a Londra. Era la sua una scelta di campo che lo allontanava momentaneamente dall’interclassismo della prima Giovine Italia, sospingendolo a dar vita in quello stesso 1840 all’Unione degli operai italiani che a partire dal 10 novembre si dotò di un organo di stampa, l’Apostolato popolare, compilato quasi tutto da solo, non sempre regolare nelle uscite ma assai fermo nel proposito di dare nuove basi di massa alla lotta antiaustriaca (in funzione della quale il M. stampava un appello Agli Italiani, un secondo appello Agli operai italiani e alcuni articoli sulla dominazione austriaca: Prospetto dei territori e delle popolazioni della monarchia austriaca; Organizzazione delle bande; Condizioni economiche della Lombardia, quest’ultimo di dubbia attribuzione). «Abbiamo nel primo periodo della nostra vita lavorato pel Popolo, non col Popolo. Bisogna farlo ora, e per molte ragioni morali e politiche che indovinerai», scriveva ancora a Benza il 19 maggio 1840 (Ed. nazionale…, XIX, p. 119): rientreranno certamente in questo programma l’i-

naugurazione, il 10 nov. 1841, della scuola elementare gratuita per i bambini italiani (che durò fino al 1848 e fu accompagnata dal 1842 al 1844 da due fogli educativi, il settimanale Il Pellegrino e il quindicinale L’Educatore) e la pubblicazione, nell’Apostolato popolare, dei primi 4 capitoli dei Doveri dell’uomo. Qua e là, la produzione di questi anni era punteggiata di appelli ai giovani perché dessero nuova linfa al patriottismo.

Malgrado il forte impulso dato al proselitismo e la ripresa dei collegamenti con la cospirazione attiva in Italia, la seconda Giovine Italia stentò molto, in parte per l’azione di spie e provocatori che ne limitarono le mosse, in parte anche più notevole per la defezione o la dispersione dei vecchi elementi approdati ora alle sponde del moderatismo giobertiano o filosabaudo. Contestato in passato per il carattere avventuroso delle sue prime iniziative, il M. si dissociò dai tentativi posti in atto da Fabrizi in Romagna, e quando questi gli si riavvicinò, fu d’accordo con lui nello sconsigliare ad Attilio ed Emilio Bandiera l’attacco al Regno borbonico che sarebbe loro costata la vita. Tale atteggiamento non gli evitò una nuova pioggia di accuse sulla facilità con cui mandava i giovani allo sbaraglio: il M. se ne difese rivendicando alla Giovine Italia la tutela della memoria dei Bandiera (che celebrò in un appassionato scritto commemorativo, Ricordi dei fratelli Bandiera e dei loro compagni di martirio, edito a Parigi nel 1845) e convertendo poi a proprio favore la maldestra operazione con cui il ministro degli Interni britannico aveva disposto la sorveglianza sulla sua corrispondenza con l’intenzione, mai provata, di comunicarne il contenuto all’Austria. Agli Inglesi lo scandalo interessò soprattutto per il geloso attaccamento alla sicurezza del proprio servizio postale: ciò non toglie che, grazie al dibattito che seguì alla Camera dei Comuni e agli interventi giornalistici in sua difesa compiuti da personaggi del calibro di Carlyle, la figura del M. acquistasse ora in Inghilterra la popolarità che mai aveva avuto e che gli sarebbe tornata utile per far conoscere all’opinione pubblica la causa italiana.

Intanto, anche per fronteggiare le tendenze frazioniste che la diffusione delle tesi moderate di V. Gioberti e di C. Balbo stava provocando in seno alla democrazia, il M. oscillava ora tra l’esclusivismo ideologico e la disponibilità a dare contenuti più possibilisti alla propria strategia accantonando temporaneamente l’obiettivo repubblicano: in realtà, una fortissima riserva mentale condizionava (e avrebbe condizionato sempre) i suoi apparenti cedimenti al moderatismo, nella convinzione che comunque l’ultima parola sull’ordinamento del futuro stato nazionale sarebbe dovuta spettare al popolo. In una fase di sostanziale arretramento, la prudenza gli consigliava di non correre dietro tutti i piccoli moti locali e di tentare di ricompattare piuttosto le forze della sinistra nell’attesa dell’inevitabile crisi rivoluzionaria che i moderati, con l’insufficienza dei loro metodi «omeopatici», avrebbero finito per scatenare.

Chiuso sulla scena italiana, il M. puntò allora a rioccupare quella europea accreditandosi con un programma teorico che, saldando definitivamente i conti con le ideologie rivoluzionarie più estreme – le ideologie di stampo babuvista e comunista – riaffermava il fondamento religioso della politica e il potenziale di libertà collettiva racchiuso nel principio di nazionalità: tesi, queste, che espose in un lungo articolo dal titolo Thoughts upon democracy in Europe, pubblicato a puntate in People’s Journal a partire dall’agosto 1846, e alle quali fece seguire, al principio del 1847 e su iniziativa dei suoi amici inglesi, la nascita della People’s International League: un organismo che, oltre a rilanciare la linea europeista, sperava potesse risolvere i problemi di finanziamento che lo tormentavano sin da quando era entrato in politica.

Ripubblicati in anni recenti, i Pensieri sulla democrazia in Europa (Milano 1997) sono stati dal curatore S. Mastellone giudicati l’espressione più alta del pensiero politico italiano dell’Ottocento e indicati come il testo che, nato per fissare il concetto di democrazia nell’elaborazione cui il M. era pervenuto anche per effetto dei contatti con altri pensatori, diede vita, in una Londra segnata dall’afflusso di esuli d’ogni parte d’Europa, a un ampio dibattito nel quale sarebbero entrati gli stessi Marx e F. Engels riprendendo polemicamente alcune delle tesi mazziniane nel Manifesto del Partito comunista.

Intanto, per dare impulso alla mobilitazione degli animi, il M. non trascurava di alimentare il mito del Garibaldi sudamericano indicando in lui l’uomo che avrebbe guidato le forze rivoluzionarie alla vittoria. E di fronte al nuovo fattore di disturbo rappresentato dall’avvento di Pio IX e dalla spinta al riformismo dei sovrani che ne era derivata, scrisse, «in un momento di espansione giovanile» (a Lamberti, 8 sett. 1847, Ed. nazionale…, XXXI, p. 300), una lettera al nuovo papa, poi edita in opuscolo (A Pio IX, pontefice massimo, Parigi 1847) e più volte ristampata in Italia, per sollecitarlo ad abbracciare la nuova fede dell’indipendenza nazionale facendosene propugnatore e per rassicurarlo sull’appoggio che i movimenti popolari avrebbero dato alla sua iniziativa. Gettata a Roma nella carrozza del papa, la lettera conteneva nel giudizio sul cattolicesimo ormai «perduto nel dispotismo» (Ed. nazionale…, XXXVI, p. 227) le ragioni del suo fallimento: che sarebbe stato davvero tale se il M. non avesse calcolato strumentalmente il vantaggio che comunque gliene sarebbe derivato per il fatto stesso di tornare con quel gesto clamoroso e provocatorio a far sentire la propria voce in Italia in un momento in cui la sua maggiore preoccupazione concerneva non tanto il risveglio del riformismo regio quanto la piega federalistica che la ventilata lega dei principi avrebbe impresso alla soluzione della questione nazionale. Appunto a scongiurare tale pericolo mirava l’Associazione nazionale italiana che il M. e altri esuli di varia appartenenza fondavano a Parigi il 5 marzo 1848: c’era, in essa, il preannunzio del ruolo di simbolo vivente dell’unità che il M., accingendosi a tornare in patria, riteneva di dover assumere nella prospettiva della guerra all’Austria da lui ritenuta imminente. Come aveva già fatto con il riformismo, puntava a non farsi escludere dal quadro dei protagonisti nell’attesa che le contraddizioni della guerra federale esplodessero e gli restituissero l’egemonia nel movimento unitario.

Era, la sua, una linea che rimetteva alla sovranità popolare, una volta che si fosse conseguita l’indipendenza, la decisione sulla forma di governo dell’Italia liberata e che, nella Milano dell’insurrezione, dove il M. arrivò il 7 aprile tra grandi manifestazioni di consenso, predicava la sospensione di qualunque scelta istituzionale e adombrava dunque una tregua ideologica con la monarchia piemontese. Ne derivò un forte attrito con Cattaneo e i federalisti repubblicani che non esitarono a dargli del «venduto», un’accusa nata dal nervosismo del momento ma che nascondeva una più profonda insoddisfazione rispetto al peso – a torto o a ragione ritenuto eccessivo – che in tutti quegli anni il M. con il suo attivismo unitario e con la sua capacità di creare politica aveva saputo guadagnarsi nell’opinione pubblica e in seno alla democrazia.

Un chiarimento si ebbe quando il Piemonte impose alla Lombardia la scelta della fusione: non sentendosi più vincolato, il 20 maggio il M. fondò un quotidiano, L’Italia del popolo, coerente evocazione, sin dal titolo, del pensiero che lo guidava da anni, quello di una nazione che da Roma avrebbe diffuso «la parola della fratellanza universale e della concordia nell’opere», e lo avrebbe fatto con la repubblica, ossia con «la forma naturale della Democrazia» (Ed. nazionale…, XXXVIII, pp. 6, 10). Il giornale cessò le pubblicazioni il 3 agosto, alla vigilia del ritorno degli Austriaci a Milano; e qui cominciarono le peregrinazioni del M. che dalla Svizzera, dove era riparato al seguito della legione di Garibaldi, invocò la guerra di popolo (ma i fuochi di rivolta accesi in Val d’Intelvi si spensero subito), e quindi, dopo un breve soggiorno a Marsiglia, riprese la via dell’Italia.

Intanto, nel novembre, aveva dato alle stampe un opuscolo, Ai giovani. Ricordi, edito a Lugano e poi a Venezia, polemico verso la conduzione della guerra regia e verso il «concettuccio» (Ed. nazionale…, XXXVIII, p. 280) dinastico che l’aveva ispirata; al posto del quale il M. rilanciava il programma già bandito dalle colonne dell’Italia del popolo il 27 maggio 1848, e cioè la convocazione a Roma di una «Assemblea nazionale costituente italiana» (ibid., pp. 287 s.).

Era ciò che lo attendeva all’inizio del 1849: sbarcato a Livorno l’8 febbraio, il M. fu raggiunto a Firenze dalla notizia dell’avvenuta proclamazione della Repubblica Romana. Prima di portarsi a Roma, dove era stato eletto alla Costituente, trattò a lungo con la Toscana che si era ribellata al granduca l’ipotesi di unione tra i due Stati che così avrebbero formato un forte polo di aggregazione nell’Italia centrale. Non riuscendo a superare l’opposizione di Guerrazzi, partì per Roma, dove entrò il 5 marzo e il 6 tenne il suo primo discorso all’assemblea, opponendo sin dall’inizio all’idea di un’esperienza politica localizzata il suo disegno di redigere non una costituzione ma una dichiarazione di principî che esprimesse le ragioni ideali della Repubblica senza sottolinearne il carattere romano; era convinto che si dovessero concentrare tutte le energie nella guerra all’Austria, magari anche aiutando il Piemonte, e su questo, almeno all’inizio, l’assemblea fu d’accordo accettando anche di potenziare su sua richiesta l’esecutivo e ponendolo praticamente a capo del triumvirato. Quando ebbe inizio l’intervento della Francia e delle altre potenze coalizzate per restaurare il potere temporale, il M. comprese subito che Roma repubblicana, diversamente da quanto egli avrebbe voluto, non sarebbe stata la prima tappa dell’emancipazione italiana, ma non per questo ritenne suo dovere limitarsi ad animare la difesa, anzi in un primo momento sperò che la vittoria del 30 aprile servisse a convincere Luigi Napoleone ad adottare verso la Repubblica una politica che non fosse quella di pura repressione auspicata dall’Austria e concordata con il papa; per questo motivo si spinse fino a frenare il contrattacco di Garibaldi e successivamente a vanificarne l’intenzione di portare la Rivoluzione nel Napoletano (e originò da qui la frattura che da allora in poi avrebbe diviso i due capi della democrazia italiana). L’isolamento internazionale rappresentava la carenza più vistosa per un governo che, come il suo, predicava laicamente principî universali senza riscuotere simpatie all’estero, nemmeno presso i Paesi protestanti (con qualche eccezione per gli Stati Uniti). Anche per questo l’accordo raggiunto con F. de Lesseps, inviato dell’assemblea francese, riconoscendo di fatto il governo repubblicano parve premiare la sua strategia. Invece il diplomatico francese fu richiamato in patria e la trattativa da lui condotta annullata: era il preludio alla ripresa dell’assedio che si concluse il 3 luglio con l’entrata dei Francesi in Roma; tre giorni prima il M., vedendo respinta dai costituenti la sua proposta di uscire dalla città per portare la guerra al Nord, si era dimesso dal triumvirato. Per lui il bilancio finale di quattro mesi di governo segnò all’attivo, al di là della buona prova fornita come statista e dell’accresciuto prestigio internazionale, la conferma che Roma era davvero il centro naturale della nazionalità italiana e dell’unità morale dell’Europa.

Il ritorno in esilio, prima in Svizzera (dove a Losanna rifondò l’Italia del popolo come quindicinale), poi a Parigi e infine di nuovo a Londra, se da un lato lo vide circondato di rispetto per la fiera difesa di Roma e per la linea di politica sociale che pur nei tempi stretti della vita della Repubblica aveva cercato di adottare, dall’altro fu accompagnato da un intenso lavoro di riorganizzazione interna e internazionale. In fondo le vicende romane avevano dato ragione alla sua diffidenza verso la Francia e verso la sinistra francese sul cui appoggio aveva inutilmente contato per una iniziativa antinapoleonica capace di bloccare la spedizione su Roma. Tra gli organismi che in questa fase creò per dare continuità alla spinta rivoluzionaria che non riteneva esaurita, quelli che rispondevano meglio alle sue vedute di una sollevazione generale contro il sistema delle potenze furono il Comitato centrale democratico europeo – fondato a Londra nel luglio del 1850 con l’adesione di un rappresentante per la Francia (A.A. Ledru-Rollin), uno per la Germania (A. Ruge) e uno per la Polonia (A. Darasz) e con il successivo ingresso del rumeno D. Bratianu – e il Comitato nazionale italiano, la cui costituzione fu proclamata con un manifesto datato 8 sett. 1850 che, mentre escludeva la pregiudiziale repubblicana, lanciava il prestito nazionale, forma di autofinanziamento intesa anche come una sorta di investimento sul futuro dell’Italia unita, ma destinata a rivelarsi pericolosissima per i lombardi sorpresi dalla polizia austriaca a detenerne la documentazione.

Come ebbe a sostenere con una fede a tutta prova nell’articolo La Santa Alleanza dei popoli del 26 ott. 1849, la vittoria non poteva mancare ai popoli che, superando il «funesto individualismo» e avendo come base la nazione, si fossero associati per raggiungere lo scopo comune: uno scopo di cui veniva ribadito il contenuto sociale nel momento stesso in cui il M. precisava i contorni di questa futura organizzazione degli Stati liberi, retta da un Consiglio supremo di «pochi uomini venerandi per dottrina e virtù, per intelletto ed amore, per sagrifici intrepidamente durati a pro’ della fede comune nelle diverse contrade d’Europa e d’America»; sarebbe toccato loro esprimere «il concetto della missione generale dei popoli» e istituire quella «imposta della democrazia» grazie alla quale la solidarietà internazionale avrebbe ottenuto tre importanti risultati: fornire credito all’uomo del popolo per farne un imprenditore, finanziare la stampa e l’istruzione nazionali, aiutare i popoli insorti a «rivendicare il proprio diritto» (Ed. nazionale..., XXXIX, pp. 218-220). La cornice era quella di sempre, in cui campeggiavano perenni i valori di religione, patria e famiglia; l’uditorio, invece, mostrava qualche vuoto, segno della difficoltà di continuare a dare ascolto a una voce che all’orecchio di molti cominciava a suonare troppo incline a ripetersi.

Terminata la fase degli scritti teorici, a partire dal 1850 e fino al 1861 il M. fu instancabile nel martellare sulla stampa di partito, nella corrispondenza fittissima, nei contatti con tutti i capi rivoluzionari, una strategia di lotta che nasceva dalla sua visione continentale del problema italiano: la soluzione del quale, coerentemente con le sue idee di sempre, non era fine a se stessa ma, derivando da una insurrezione generale, avrebbe innescato a catena altri processi di liberazione nazionale nell’Est europeo, che inevitabilmente avrebbero portato a una guerra dei popoli oppressi contro i loro dominatori; al termine del conflitto la carta d’Europa sarebbe stata totalmente ridisegnata secondo linee che, distruggendo gli imperi sovranazionali (ovvero spingendoli a civilizzare l’Asia, come il M. prevedeva per la Russia), avrebbero sancito una volta per tutte il diritto delle genti all’autodeterminazione. Questo sforzo di portare alle estreme conseguenze i fermenti nazionali attivi soprattutto in Polonia e in Ungheria ebbe come primo risultato agli inizi degli anni Cinquanta un forte irrigidimento ideologico nei confronti di quelle posizioni che o non avevano mai accettato l’unitarismo mazziniano (e che ora per bocca di G. Ferrari, E. Cernuschi, G. Montanelli, e più tardi anche di Cattaneo, lo accusavano di verticismo e di mandare i giovani al massacro facendo, come già nel 1848, il gioco del Piemonte) o se ne erano differenziate per una maggiore attenzione al problema sociale; ed era questo il caso di C. Pisacane e, in Francia, dei socialisti, a loro volta indicati dal M. come maggiori responsabili della svolta che alla fine del 1851 aveva spinto la borghesia francese ad affidarsi alla dittatura di Luigi Napoleone; per sua fortuna, al distacco dalla sinistra francese corrispondeva, dall’altra parte, un rapporto di più stretta collaborazione con gli ambienti radicali inglesi che a Londra il 15 maggio 1851 davano vita alla Society of friends of Italy da cui sarebbero venuti molti finanziamenti alle iniziative mazziniane.

In risposta agli attacchi che gli giunsero da più parti e che un po’ alla volta dirottarono verso il moderatismo o verso temporanee forme di agnosticismo politico molti di quelli (Garibaldi in testa, seguito nel tempo da G. Medici, G. Sirtori, E. Cosenz, F.E. Foresti) che fino al 1848 lo avevano seguito, il M. avvertì l’esigenza di selezionare i nuovi quadri tra coloro che nella passata Rivoluzione si erano segnalati per determinazione e volontà di giungere fino al sacrificio di sé, personaggi temprati nella lotta e dunque insensibili alle sirene della dissidenza, federalista o moderata che fosse.

Gli furono a fianco in questa fase uomini come L. Dottesio e P.F. Calvi, T. Speri e F. Orsini, mentre della vecchia guardia gli erano rimasti fedeli A. Saffi, M. Quadrio, Modena, Campanella, tutti fiduciosi nel grosso lavorio che il M. aveva avviato da tempo portandosi personalmente in Svizzera, introducendo clandestinamente armi in Lombardia, stringendo accordi con gli elementi più decisi della plebaglia milanese (i «barabba») e cercando complicità tra i militari ungheresi. Il piano, concepito anche per rispondere ai processi austriaci del 1852 e alle condanne a morte che avevano colpito i mazziniani del Mantovano, prevedeva un moto che da Milano si sarebbe esteso fin nell’Italia centrale e che, con l’aiuto degli ungheresi di L. Kossuth, avrebbe attaccato l’Austria nei territori orientali dell’Impero. Nacque di qui il clamoroso insuccesso del 6 febbr. 1853 che lasciò dietro di sé, oltre a un’ulteriore stretta repressiva da parte dell’Austria e del papato, le scorie di una dissidenza ancora più agguerrita e provocò nel M., con la certezza di essere stato abbandonato dalla borghesia («Non mancò il popolo dei congiurati; mancarono al popolo i capi […]. Non una marsina, infatti, si vide tra i combattenti del 6 febbraio a incuorarli, a dirigerli»; Ed. nazionale…, LXXVII, pp. 382, 385), il bisogno di contrattaccare, come sempre gli succedeva quando era in difficoltà: lo fece con una lettera aperta a E. Visconti Venosta, esempio palmare per lui della perdita di fede da parte di un’intera classe sociale, e più ancora con uno di quegli scritti in cui si era abituato a replicare alle accuse rendendo nota la sua versione dei fatti, un opuscolo, stavolta, una specie di instant book edito a Genova nel 1853 e intitolato Agli Italiani, dolente bilancio di dieci anni di impegno e insieme storia di un fallimento, di cui però, nell’atto stesso di annunciare lo scioglimento del Comitato nazionale, il M. riusciva a vedere ancora il lato positivo: «ha provato all’Italia che il fremito d’emancipazione è sceso alle moltitudini» e «ha smascherato […] l’assoluta impotenza della parte regia in Piemonte» (Ed. nazionale…, LI, p. 67). Come avrebbe osservato un Cattaneo inviperito dall’ostinazione con cui continuava a tessere le sue trame, era tipico del M. reputare «vittorie anche i disastri purché si combattesse».

In realtà, ebbe inizio per lui un processo di graduale emarginazione dalla scena italiana, reso più duro dal fatto di aver perso con la madre (9 ag. 1852) la confidente di una vita; né i nuovi insuccessi dei moti in Lunigiana, in Valtellina o in Tirolo e i processi e le impiccagioni che li seguirono erano fatti per propagandare l’efficacia del Partito d’Azione che il M. aveva fondato all’indomani dello scioglimento del Comitato nazionale. Sommerso da una nuova ondata di polemiche, trovò qualche sostegno nell’amicizia devota di alcuni inglesi, le famiglie Ashurst e Nathan, e gli Stansfeld e i Craufurd; ma questo non bastava per farlo uscire dall’isolamento in cui lo avevano gettato nel frattempo la presa di posizione contro l’intervento piemontese in Crimea (sfociato in un appello alle truppe perché disertassero che, nel clima di generale esaltazione per la guerra, gli procurò un contraccolpo di impopolarità) e, soprattutto, il tentativo di delegittimazione morale compiuto contro di lui da D. Manin con un articolo nel Times del 25 maggio 1856 che, rispolverando un episodio poco chiaro del 1834, gli attribuiva la paternità della teoria dell’omicidio politico (o «del pugnale»). Costretto sulla difensiva, il M. dovette riprendere la formula già adottata nel 1854 per lanciare la cosiddetta «bandiera neutra», ossia un programma in cui l’affermazione del suo ideale politico e della repubblica che ne era il fine restava subordinata alla volontà del popolo, qualunque essa fosse. Non si può dire, però, che avesse rinunciato ai suoi progetti: per preparare quello che sin dal 1856 aveva articolato sullo scoppio simultaneo di tre moti lungo la fascia tirrenica, si trasferì di nascosto a Genova, ma ancora una volta dovette registrare un insuccesso, che fu tragico negli esiti della spedizione di Pisacane (2 luglio 1857), riaccostatosi a lui appunto con la speranza di far uscire il movimento democratico dallo stallo in cui lo aveva posto l’ascesa del Piemonte cavouriano. Vittima di un’ulteriore campagna di demonizzazione che però nascondeva ciò che era stato messo in atto dal governo di Camillo Benso conte di Cavour per sfruttare la minaccia da lui rappresentata nei rapporti con Napoleone III, il M. dovette mettere in conto anche una condanna a morte (la seconda, dopo quella comminatagli per la spedizione di Savoia) per la mancata insurrezione di Genova.

Da questo momento Cavour e la sua politica di alleanza con la Francia divennero il principale bersaglio polemico delle recriminazioni del M., affidate di solito ad articoli ospitati da giornali (l’Italia e popolo di Genova, vissuto non senza stenti e difficoltà tra il 1851 e il 1857 e subito sostituito nella stessa città dall’Italia del popolo, giunto a chiusura nel settembre 1858) che il primo ministro piemontese non si stancava di colpire con sequestri e sospensioni: un’azione repressiva, questa, che, insieme con la fondazione della Società nazionale italiana, fatalmente accelerava l’erosione del movimento mazziniano confinandolo in una zona di illegalità dalla quale era sempre più difficile a chi lo guidava far sentire la propria voce. Appunto nell’Italia e popolo era apparso il 15 febbr. 1855 l’articolo Al conte di Cavour, scritto in forma di lettera aperta, fiera rampogna contro colui che, entrando nell’alleanza antirussa, aveva distaccato definitivamente il Piemonte dalla prospettiva di farsi interprete del desiderio di riscatto dell’Italia. Toni aspri, quelli del M., che non gli avrebbero impedito molti anni dopo di parlare di Cavour come de «l’unico uomo di Stato della Monarchia italiana» (Agli Italiani, in Ed. nazionale…, XCII, p. 95), ma che per ora, alla vigilia della svolta del 1859 denunciavano la frustrazione della perduta egemonia sul movimento nazionale. Né il fatto di aver visto più e prima di chiunque altro l’esito deludente di una guerra il cui difetto di fondo stava nello spazio concesso agli interessi imperialistici di Napoleone III bastava a consolarlo della perduta influenza; ma pur dopo Villafranca nemmeno a lui sfuggiva l’importanza del passo compiuto cacciando l’Austria dalla Lombardia. Nulla e nessuno avrebbe però potuto indurlo a cambiare idea sull’immoralità di fondo del potere monarchico.

Incalzare i moderati sulla via dell’unità era il solo modo che gli restava per tentare di reinserirsi nel processo di unificazione con un ruolo che non fosse solo di stimolo ma consentisse alla democrazia di dispiegare, seppure in condizioni avverse, l’iniziativa popolare. Fu quello che tentò di fare scendendo in Italia una prima volta nell’estate del 1859 e, quindi, pochi giorni dopo la partenza dei Mille da Quarto, allorché a un Garibaldi più che mai diffidente cercò di dettare una linea che, pur accantonando lo sbocco della repubblica, prevedesse l’estensione della spedizione allo Stato pontificio. Non solo non fu ascoltato ma, arrivato a Napoli il 17 sett. 1860, fu meno di un mese dopo oggetto di una manifestazione, voluta probabilmente da Cavour, con cui al grido di «Morte a Mazzini!» si mirava a colpirlo per le pressioni inutilmente esercitate su Garibaldi a favore della convocazione di un’assemblea costituente che decidesse il futuro della Penisola in luogo dei plebisciti. E però, incurante di ciò che lo toccava personalmente, al ritorno a Londra non fece mistero della gioia che gli avvenimenti del 1860 gli avevano procurato.

Nel decennio successivo il problema di Garibaldi e della sua determinazione ad anteporre la conquista di Roma alla liberazione del Veneto rappresentò il vero nodo da sciogliere per un M. fermo nella convinzione che, liberandosi definitivamente della presenza austriaca, l’Italia avrebbe potuto più facilmente sbarazzarsi del controllo esercitato da Napoleone III sulla questione romana.

Il primo effetto del trionfo garibaldino del 1860 fu, per il M., la necessità di orientare più a Sud che nel passato la sua strategia di lotta: per cui «il mazzinianesimo, che prima dell’Unità non aveva mai avuto salde radici nel Mezzogiorno, divenne poi una formula che acquistò consistenza nella misura in cui, fin dall’inizio, l’“esclusivismo” moderato sembrò frustrare l’aspirazione della piccola borghesia [meridionale] ad ottenere un inserimento soddisfacente nel nuovo Stato» (A. Capone, L’opposizione meridionale nell’età della Destra, Roma 1970, pp. 89 s.). Ma la funzione preminente esercitata un tempo dal movimento mazziniano era ormai un ricordo lontano.

Per il peso che Garibaldi aveva saputo acquistarsi presso l’opinione pubblica, per il prestigio di cui godeva sul piano internazionale, per la facilità con cui sapeva calamitare quei finanziamenti che a lui erano sempre mancati, il M. sapeva di non poter rompere con lui malgrado la distanza che ormai li separava; ma tutti gli sforzi compiuti per sottrarlo al carisma di Vittorio Emanuele II e così portarlo dalla sua parte furono vani, e anzi sia nel 1862 sia nel 1867, al tempo dei tentativi fermati in Aspromonte e a Mentana, rinfocolarono l’ira di Garibaldi nei suoi confronti, al punto che nemmeno il brindisi affettuoso rivoltogli dal nizzardo durante il viaggio del 1864 a Londra riuscì a riscaldare il gelo che – eccezion fatta per qualche breve riavvicinamento – li aveva divisi su tutto. Pur di attuare la propria linea, il M. servendosi di un intermediario si spinse fino a intavolare una trattativa segreta con il re per la liberazione del Veneto, un obiettivo su cui tra il 1864 e il 1865 continuò a investire armi e denaro senza ottenere che avesse luogo quell’inizio di conflagrazione generale che teorizzava da tempo e in cui nel 1863 l’insurrezione della Polonia lo aveva indotto a sperare prima che la Russia intervenisse a reprimerla.

Non meno importante dell’azione gli sembrava il pensiero. La costruzione del nuovo Stato richiedeva la formazione di una salda coscienza civica, un’etica che ponesse gli Italiani al riparo dall’influsso corruttore della monarchia. A quest’opera di educazione il M. si dedicò a partire dal 1861, accettando di pubblicare per l’editore Daelli di Milano una raccolta dei suoi Scritti editi ed inediti da lui curata e recante nei primi otto volumi, pubblicati tra il 1861 e il 1871, una introduzione (le cosiddette «Note autobiografiche», poi raccolte in Ed. nazionale…, LXXVII) in cui egli stesso ricostruiva la propria esperienza politico-dottrinale fino al 1853. Ma il vero strumento di formazione del cittadino della nuova Italia il M. lo affidò ai Doveri dell’uomo, completando il testo dedicato agli operai, che aveva iniziato a pubblicare a Londra nel 1841 e che con una travagliatissima storia editoriale aveva portato avanti tra il 1859 e il 1860 nelle colonne di due suoi fogli militanti, Pensiero e Azione e L’Unità italiana. In volume il lavoro uscì a Lugano nel 1860 con la falsa indicazione di Londra; una seconda edizione si ebbe pochi mesi dopo a Napoli sotto il controllo dello stesso Mazzini.

Opera destinata a una grande fortuna editoriale e più tardi (1903) a essere adottata nelle scuole, i Doveri furono il catechismo di un’Italia laica che cercava nella predicazione della solidarietà sociale e nell’apologia della dimensione spirituale della vita una religione diversa da tutte quelle rivelate, capace di tenere la parte più viva del Paese lontana dalle tentazioni del materialismo indirizzandola verso «un principio educatore superiore» (Ed. nazionale…, LXIX, p. 17); peraltro nelle intenzioni del M. questa evocazione del dovere come legge di vita civile non comportava alcuna rinuncia ai diritti (con l’eccezione del diritto di sciopero, condannato come immorale rispetto al sacro principio del lavoro). Quanto al rigetto drastico del comunismo, che pure vi compariva in chiusura, si può dire che questo fosse il motivo ispiratore delle battaglie dell’ultimo M., sia come organizzatore del movimento operaio italiano sia come indiretto protagonista della nascita a Londra della prima Associazione internazionale dei lavoratori (1864) che egli avrebbe voluto adottasse un documento programmatico ricalcato sull’Atto di fratellanza approvato poco prima nel congresso napoletano delle società operaie italiane da lui controllate.

Il fatto che in quel consesso londinese Marx riuscisse a imporre l’indirizzo inaugurale e gli statuti generali da lui redatti impegnò il M. in un contrasto anche più duro di quello che aveva dovuto affrontare dopo l’arrivo in Italia del russo M. Bakunin e l’iniziale propagazione dell’anarchismo. Sua preoccupazione somma era quella di evitare che in seno al movimento operaio italiano si diffondessero teorie che in nome di altri valori si proponevano di distruggere la famiglia, predicare l’ateismo, attaccare la proprietà privata e attentare all’unità nazionale; in proposito va osservato che finché restò in vita, il M. riuscì a conservare l’egemonia sull’associazionismo e sulle società di mutuo soccorso, pagando però il prezzo di una graduale caduta del proprio ascendente sui giovani e su alcuni settori del proletariato urbano e rurale che soprattutto nel Meridione e in Emilia Romagna avvertivano nelle sue parole un fastidioso tono predicatorio. Più che dal marxismo, però, sul piano organizzativo il vero colpo gli fu inferto in parte da Bakunin, in parte anche maggiore da Garibaldi che con le sue dichiarazioni a sostegno dell’Internazionale seppe guadagnarsi i consensi che il M. andava perdendo, per esempio con le ripetute prese di posizione contro la Comune di Parigi sbandierate dalle colonne della Roma del popolo, l’ultimo periodico da lui fondato all’inizio del 1871 con l’intento di proclamare la missione di libertà incarnata nella terza Roma (non senza, va detto, qualche petizione di principio a favore di una politica di potenza e di dominio sul Mediterraneo ben lontana dall’arioso europeismo di un tempo e dal richiamo, pure lanciato nel 1871, a non confondere la nazionalità con il «gretto geloso ostile nazionalismo» [Nazionalismo e nazionalità, in Ed. nazionale…, XCIII, p. 85], ma poi utilizzato come tribuna per affermare per l’ennesima volta la specificità della propria dottrina sociale imperniata sul rifiuto così del comunismo come del liberismo e sull’associazione di capitale e lavoro nelle stesse mani).

Il raggiungimento dell’Unità e l’attenzione prestata ai problemi e all’organizzazione del movimento operaio non significarono affatto una riduzione dell’attività cospirativa del M., che fu intensissima anche negli ultimi dieci anni ed ebbe una giustificazione non solo nella volontà di mantenersi fedele all’ideale repubblicano (attestata anche dal rifiuto di entrare in Parlamento dopo che per due volte nel 1866 era stata annullata la sua elezione nel collegio di Messina e dopo che nel 1867 una terza elezione nello stesso collegio era stata invece ritenuta valida), ma anche nella constatazione delle condizioni in cui si dibatteva la società italiana, stretta tra un liberalismo non compiuto, un separatismo che per colpire la Chiesa aveva sradicato ogni sentimento religioso, una scuola mal funzionante e un esercito usato per limitare la libertà dei cittadini più che per difenderne la sicurezza dall’esterno. Come già in passato, la sua opera educativa aveva un senso se indirizzata al perseguimento di un fine politico e se affiancata da forme di proselitismo che, per lo stato di illegalità in cui si venne a trovare il movimento repubblicano cercando nuovi adepti nell’esercito regio, non potevano che essere volte a rinfoltire le file della cospirazione. Ossia nell’elemento che per il M. era diventato, senza che egli lo volesse, quasi naturale, tanto da stabilire una linea netta di demarcazione tra chi, come lui, riteneva impossibile e immorale scendere a compromessi con l’istituto monarchico e chi, come il suo antico seguace F. Crispi, affermando in Parlamento (18 nov. 1864) che «chi solleva un’altra bandiera non vuole l’unità d’Italia», si diceva risoluto «a non lasciare il terreno legale». Al M. che aveva replicato con una lettera aperta (A Francesco Crispi [Lugano 1864]) in cui tacciava di opportunismo la sua scelta, Crispi rispose ribadendo in un opuscolo, Repubblica e monarchia (Torino 1865), le proprie convinzioni.

L’abbandono del «terreno legale» da parte del M., escludendo gli attentati politici di cui ancora lo si accusava (ultimo quello a Napoleone III, frutto di una montatura della polizia francese, da cui egli si discolpò con una lettera al Times del 14 genn. 1864), si manifestò con l’intenso lavorio condotto da due organizzazioni segrete, la Falange sacra e l’Alleanza repubblicana (poi denominata universale per via di alcuni contatti con i repubblicani statunitensi), la seconda delle quali fondata nel 1866 all’indomani della guerra per il Veneto, con l’intento di sottrarre a una monarchia da lui giudicata del tutto estranea alla storia nazionale il compito di portare l’Italia a Roma. A tal fine tra il 1867 e il 1868 fu più volte a Lugano dove, ospite della famiglia Nathan, ebbe vari incontri con le ultime leve del suo movimento, in particolare con siciliani, napoletani e romani, ma le trame insurrezionali che tentò di mettere in piedi con le bande armate o con gli ammutinamenti di militari fallirono tutte provocando altri arresti e una vittima, il caporale P. Barsanti, fucilato per il ruolo avuto in una rivolta scoppiata a Pavia. Con un ultimo sforzo di combattività, l’11 ag. 1870 il M. si mise in viaggio per la Sicilia con la speranza di guidare personalmente l’ennesimo tentativo repubblicano, ma, arrestato al momento dello sbarco a Palermo, fu incarcerato il 14 agosto nel forte militare di Gaeta e liberato il 14 ottobre in seguito all’amnistia concessa ai detenuti politici dopo la liberazione di Roma. Nei due mesi di carcere la vera angoscia gli era derivata dal constatare l’inesistenza nel popolo italiano dell’istinto rivoluzionario di cui lo aveva sempre creduto capace.

Prima che l’anno finisse era di nuovo a Londra, da dove nel febbraio del 1871 ripartì per Lugano. Logoro e da tempo gravemente malato, consumò le residue energie fisiche in una febbrile attività giornalistica pubblicando nel suo settimanale Roma del popolo, una lunga serie di interventi a difesa delle posizioni – l’antimaterialismo, lo spirito religioso, la lotta all’Internazionale, la dignità dei lavoratori, il principio di nazionalità, la missione dell’Italia – che vedeva sempre più esposte ai colpi dell’anarchismo e del marxismo. Instancabile, continuava a incitare i più fidati tra i suoi collaboratori con lettere scritte adoperando i metodi cifrati appresi al tempo della militanza carbonara, e questo gli dava la sensazione che il suo mondo resistesse ancora, che fosse ancora possibile, dettando il Patto di fratellanza per le società operaie italiane riunite a congresso (novembre 1871), preservare il movimento operaio dalla contaminazione di dottrine provenienti dall’esterno e segnate dal materialismo ateo e dall’odio di classe.

In cerca di un clima più adatto alla sua malandata salute, il 6 febbr. 1872 il M. si trasferì a Pisa, ospite di Janet Nathan Rosselli. Non essendo inseguito più da mandati di cattura, non avrebbe avuto problemi a manifestarsi pubblicamente; al dottore che fu chiamato a curarlo per una crisi di asma preferì invece presentarsi sotto mentite spoglie, con un nome inglese.

Fu con questa falsa identità che il M., assistito da pochi amici e seguaci, morì a Pisa il 10 marzo 1872.

Sottoposta a un maldestro processo di imbalsamazione, la salma fu poi trasportata a Genova dove un funerale affollatissimo di concittadini, repubblicani e rappresentanze di società operaie di tutta Italia la accompagnò il 17 marzo al cimitero di Staglieno (S. Luzzatto, La mummia della repubblica: storia di M. imbalsamato, 1872-1946, Milano 2001).

Ciò che sopravvisse di lui fu il complesso dei suoi ideali civili, politici e religiosi che un manipolo di fedelissimi cercò di tramandare inalterato alle generazioni successive. Non fu compito facile, perché, per questa forma estrema di coerenza che rifiutava qualunque rapporto con l’Italia ufficiale, la minoranza repubblicana si trovò presto presa tra due fuochi: da un lato la repressione dei governi, dall’altro la concorrenza del movimento socialista che, meglio organizzato e più in sintonia con la società moderna e i suoi problemi, le tolse un po’ alla volta spazio, costringendo molti tra i superstiti a venire a patti con il collettivismo e dunque a modificare uno degli elementi di base del mazzinianesimo in favore di posizioni ritenute più in linea con i tempi. Dopo la crisi di fine secolo l’atteggiamento delle autorità di governo si fece meno sospettoso, e fu preso in considerazione l’influsso positivo che le dottrine mazziniane avrebbero potuto avere sui giovani: ebbe inizio così, nel 1906, la pubblicazione dell’Edizione nazionale degli scritti di Giuseppe Mazzini che fu affidata a una casa di Imola, la Galeati, legata alle cooperative e che andò avanti fino al 1943 per un totale di 100 volumi. Ciò favorì una migliore conoscenza del pensiero del M., ma le prime interpretazioni che ne scaturirono non gli furono benevole: a quella di G. Salvemini che, sulla scia delle critiche di Cattaneo gli aveva rimproverato di essere stato uno strumento della politica sabauda (giudizio poi quasi rovesciato nel volume del 1905 sul Pensiero religioso politico sociale di G. M.), seguì la manipolazione operata dagli esponenti del nazionalismo che fecero del mazzinianesimo ciò che non era mai stato: il viatico a una politica di potenza e di affermazione della nazionalità italiana nello scontro con le altre nazioni d’Europa. Fu questa una chiave di lettura che il fascismo e G. Gentile, che in questo lo ispirò, non esitarono a far propria, evidentemente alterando il senso originale del pensiero mazziniano; e fu seguita dall’interpretazione marxistico-gramsciana fiorita dopo la seconda guerra mondiale essenzialmente come rilievo dei limiti del mazzinianesimo nella teorizzazione del pensiero sociale e del concetto spiritualistico di libertà, e dunque come sostanziale limitazione del peso che esso ebbe ai fini del processo unitario. A conservare il nucleo forte del pensiero del M. e a valutarne con serenità (e cioè vedendone anche i limiti) l’apostolato unitario furono, tra le due guerre, soprattutto gli uomini del Partito d’Azione e L. Salvatorelli che indicarono nell’azione del M. un’eredità ideale atta a esprimere al meglio i valori del Risorgimento rispetto al fascismo e ai suoi contenuti profondamente reazionari (e, in quanto tali, anti-Risorgimento). Forse il fatto che le migliori biografie del M. siano opera di autori inglesi (H. Bolton King, G.O. Griffith, D. Mack Smith) è da ricondurre anche alla difficoltà incontrata dagli storici italiani nel fare i conti con un personaggio che con la sua visione totalizzante si può dire costringa a prendere posizione.

Più particolarmente, in merito all’interpretazione marxista del pensiero del M., è da osservare che la storiografia italiana da essa influenzata non sempre l’ha seguita acriticamente, e spesso ha temperato l’asprezza dei giudizi di Marx con la considerazione del ruolo comunque positivo avuto dalla teoria e dalla prassi mazziniana. In tal senso la conclusione più equilibrata è quella cui è pervenuto N. Badaloni quando afferma che «quello del M. è dunque il tentativo più coerente di trasferire sul terreno della storia un modello della natura umanizzata volto verso il progresso; il limite del tentativo sta nel fatto che il progresso resta entro i confini prescritti del modello, prospettando per il futuro l’attenuazione delle sue interne frizioni e caratterizzando appunto tale esito come progresso» (La cultura, in Storia d’Italia [Einaudi], III, Dal primo Settecento all’Unità, Torino 1973, p. 967).

L’Edizione nazionale degli scritti di Giuseppe Mazzini, pubblicata a cura di una speciale commissione, è tuttora in corso e, dopo i 100 volumi ricordati nel testo (Imola 1906-43), ne ha dati alla luce in una nuova serie altri 11 (ibid., 1961-98), fra cui 4 di Indici e 5 di Zibaldoni giovanili. Tra le varie edizioni precedenti, oltre quella dal titolo Scritti letterari di un italiano vivente (I-III, Lugano 1847), e la Daelliana edita tra il 1861 e il 1904 (agli 8 volumi curati dal M. ne seguirono dopo la sua morte altri 12), va ricordata la raccolta di Prose politiche di Giuseppe Mazzini (Livorno 1848). Tra le molte antologie sono da segnalare: quella curata da L. Salvatorelli (G. Mazzini, Opere, I-II, Milano 1938, di cui il primo volume dedicato all’epistolario); l’Antologia degli scritti politici di Giuseppe Mazzini, a cura di G. Galasso (Bologna 1961); quella inserita nel volume Scrittori politici dell’Ottocento, I, G. M. e i democratici, a cura di F. Della Peruta (Milano-Napoli 1969, pp. 205-840, compresa l’ampia nota introduttiva) e, da ultimo, gli Scritti politici di Giuseppe Mazzini, a cura di T. Grandi - A. Comba (Torino 1972; nuova ed. con introduzione di M. Viroli, ibid. 2005). Una buona scelta di lettere è proposta da U. Zanotti Bianco, Mazzini, Milano s.d. [ma 1922].

Fonti e Bibl.: Le maggiori collezioni di manoscritti mazziniani sono conservate a Roma nella Biblioteca di storia moderna e contemporanea e presso l’Istituto per la storia del Risorgimento; ma documenti mazziniani si possono consultare in vari archivi e biblioteche, in Italia e all’estero. Si tratta di materiale in gran parte edito; per quello pubblicato dopo l’apparizione dell’ultimo volume dell’Ed. nazionale… (citato sopra) e per l’altro offerto periodicamente dal mercato antiquario (circa 2000 lettere) è prevista una nuova serie dell’Appendice a cura della Commissione per l’edizione nazionale, che sta anche provvedendo al trasferimento su supporto informatico di tutti gli scritti.

Su un tema che in un secolo e mezzo ha stimolato una ricchissima attività di ricerca facendo sì, per esempio, che del M. si parli in tutte le storie dell’Italia preunitaria e postunitaria e che di lui e della sua produzione si tenga conto anche nelle storie della letteratura e dell’arte, molte indicazioni bibliografiche si ricavano dalle antologie sopra citate; una rassegna di titoli che comprende anche gli articoli di giornale è quella ospitata dal Bollettino della Domus Mazziniana di Pisa a partire dal 1955; ampi riferimenti a questa produzione nei contributi di F. Della Peruta alla Bibl. dell’Età del Risorgimento in onore di A.M. Ghisalberti, I, Firenze 1974, pp. 298-308, e di G. Luseroni alla Bibl. dell’Età del Risorgimento 1970-2001, I, Firenze 2003, pp. 377-384. Tra i lavori pubblicati successivamente: L. Caratti di Valfrei, La genealogia di G. M., in Rass. stor. del Risorgimento, XCI (2004), pp. 483-520; tra quelli cui ci si riferisce in questa voce, H. Bolton King, M., London 1902 (trad. it., Firenze 1903); A. Codignola, La giovinezza di G. M., Firenze 1926; G.O. Griffith, M.: prophet of modern Europe, London 1932 (trad. it., Bari 1935); D. Mack Smith, M., Milano 1993; S. Mastellone, La democrazia etica di Mazzini (1837-1847), Roma 2000; Id., Thoughts upon democracy in Europe: un manifesto in inglese, Firenze 2001; Id., M. scrittore politico in inglese: democracy in Europe (1840-1855), Firenze 2004. Tra le biografie più recenti si segnalano: R. Sarti, M.: a life for the religion of politics, Westport 1997 (trad. it., G. M.: la politica come religione civile, Roma-Bari 2005), e J.-Y. Frétigné, G. M. père de l’Unité italienne, Paris 2006. Per una storia dell’edizione degli scritti del M. si rinvia a M. Scotti - F. Cristiano, Storia e bibl. delle edizioni nazionali, Milano 2002, pp. 439-459, e a M. Finelli, Il monumento di carta. L’Edizione nazionale degli scritti di G. M., Villa Verucchio 2004.

Nel 2005, bicentenario della nascita, è stato istituito un Comitato nazionale per le celebrazioni che ha organizzato e coordinato una lunga serie di convegni e manifestazioni: nell’occasione è stato creato un sito (www.comitatinazionali.librari.beniculturali.it) dal quale è possibile ricavare notizie sull’attività del Comitato e la bibliografia delle opere uscite in Italia e all’estero.

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