Giustiniano

Enciclopedia Dantesca (1970)

Giustiniano (Giustiziano; Iustiniano)

Paolo Brezzi
Luigi Vanossi

Imperatore romano d'Oriente, che governò dal 527 al 565. D. dedica a lui l'intero canto VI del Paradiso, riservandogli un posto eccezionale nell'economia del poema e dimostrando subito in tal modo di volere attribuire a tale personaggio un particolare significato.

Circa le notizie biografiche generali su G. basterà dire che Flavio Anicio Giuliano, chiamato poi G., nacque l'11 maggio 482 a Tauresio, presso Scupi (oggi Uskub) in Macedonia, da umile famiglia, forse illirica-romanizzata. Avendo un suo zio, di nome Giustino, fatto carriera nelle armi e a corte, lo chiamò con sé e gli fece dare una buona educazione; Giustino divenne anche imperatore e prima di morire si associò al trono il nipote, che il 10 maggio 527 fu acclamato sovrano, dopo la scomparsa di Giustino e avendo da pochissimo tempo sposato la celebre Teodora, che gli fu compagna intelligente e abile nel governo. Nel suo lungo regno G. (morì il 14 novembre 565) riconquistò l'Africa settentrionale e l'Italia, guerreggiò contro i Persiani con alterna fortuna, riordinò tutta l'amministrazione imperiale, si occupò molto di questioni religiose convocando anche un concilio ecumenico a Costantinopoli nel 553 (egli, forse per influenza della moglie, era favorevole al monofisismo e cercò d'imporlo a forza, provocando dispute e contrasti violentissimi) e raccolse in un corpo la legislazione romana precedente aggiungendovi le numerose disposizioni da lui emanate.

Nella presentazione che G. fa di sé nella Commedia (Pd VI 10-27) si ricordano i seguenti punti della sua vita, che hanno una speciale importanza nel ritratto che D. intende disegnare del suo interlocutore: l'aver tratto d'entro le leggi... il troppo e 'l vano (v. 12) ossia la composizione del Corpus iuris civilis (v.); lo zelo per l'ortodossia cattolica dopo che 'l benedetto Agapito, che fue / sommo pastore [dal 535 al 536], a la fede sincera / mi dirizzò con le parole sue (vv. 16-18) correggendo l'errore in cui prima era contento e facendogli vedere chiaro; la guerra vittoriosa condotta dal mio Belisar con una visibile assistenza divina (cui la destra del ciel fu sì congiunta [v. 26]) mentre egli si dava tutto all'alto lavoro della codificazione, che a Dio per grazia piacque di spirarmi (v. 23). Ma prima di entrare nel merito della figura giustinianea secondo la presentazione dantesca possiamo aggiungere ancora questi particolari: alla fine del canto V D. si trova nel cielo di Mercurio - il secondo, riservato agli spiriti che hanno operato il bene ma per averne fama e onore sulla terra - e viene circondato da mille splendori (V 103) desiderosi di esercitare la loro carità; sollecitato da un di quelli spirti pii (che si rivelerà poi per G.: v. 121), il pellegrino pone alcune domande e subito la lumera che prima aveva parlato si fa più lucente per la gioia di poter rispondere.

Così s'inizia il lungo enunciato, eccezionalmente esteso per tutti i 142 versi del canto, che entra subito ‛ in medias res ', non dà illustrazioni esplicative, manca di descrizioni panoramiche o di fenomeni naturali, ha una sola similitudine e non presenta testi incerti o di difficile intepretazione Iniziato il suo discorso, G. ricorda subito che ormai egli non è più Cesare, imperatore, ma un'anima come tutte le altre e che come tale è premiato (o sarebbe stato punito), però egli non può dimenticare la missione assegnatagli in terra, i compiti svolti, i risultati raggiunti e, di conseguenza, su tutto questo si sofferma a lungo allargando la risposta a la question prima postagli da D. quasi costretto a seguitare alcuna giunta per far meglio comprendere i torti di chi si move contr'al sacrosanto segno (VI 28-32: l'aquila imperiale romana). Tuttavia, verso la fine del canto - quasi ricordandosi del posto in cui si trova e del motivo per il quale D. sta visitando il Paradiso -, G. illustra di quali abitanti questa picciola stella si correda (v. 112); gli studiosi hanno notato una specie di " salto qualitativo " nel discorso poetico perché dalle illustri vicende romane e dagli imperatori più famosi si passa bruscamente ai particolari familiari di un Romeo da Villanova. In realtà vi è un seguito logico e artistico, che ora non occorre spiegare in dettaglio, ma si è fatto cenno anche di tale argomento - che sembrerebbe non interessare la biografia giustinianea - perché esso è una bella pennellata umana e spirituale, che integra la personalità dell'ex imperatore quale D. l'ha vista e presentata in tutti i suoi aspetti e momenti.

Nondimeno è indubbio che, dovendo parlare di G. nella Commedia, il centro dell'interesse rimane politico, e su tale caratteristica concentreremo ora la nostra attenzione. A parte la lunga storia dell'aquila - che non ha avuto ognora G. come protagonista (e quindi non ci tocca adesso), anche se è sintomatico che D. abbia fatto proprio di lui il narratore delle gesta romane antiche e medievali viste quale un lungo e fortunato volo dell'uccello simbolo dell'Impero - ciò che soprattutto importava a D. era presentare G. come l'anti-Costantino per eccellenza, e questa tesi viene sostenuta mediante vari generi di prove (avere riportato l'Italia sotto il potere sovrano mentre la penisola è fatta indomita e selvaggia [Pg VI 98] senza il freno imperiale; avere agito in pieno accordo con il pontefice e preposta la fede alla ragione - la parola ‛ fede ' ricorre tre volte in cinque versi! [Pd VI 15-19] - dando a vedere che l'obbedienza non è soltanto una virtù personale per un cristiano ma è anche una fondamentale direttiva di buon esercizio del governo; avere assolta una delle principali funzioni di chi comanda, ossia la formulazione delle leggi, la cura della giustizia come base di tutto l'ordine civile, ecc.). Come l'imperatore del quarto secolo si era reso colpevole di varie mancanze (indipendentemente dalla sua buona volontà, tanto è vero che era anch'egli tra i beati, ma sul piano storico) - quali l'abbandono dell'Italia, la cessione al papa di una ‛ ricca dote ' temporale -, così quello del sesto aveva tentato nei limiti consentitigli dalle circostanze di porre un rimedio a quello stato di cose dando un indirizzo che tutti i suoi successori avrebbero dovuto proseguire se si voleva che il mondo tornasse ad andare bene. Poiché la tradizione - che è un diritto consacrato - va rispettata, essendo questa una condizione indispensabile per il buon funzionamento delle istituzioni politiche, D. senti la necessità di rifarsi alla storia attraverso il suo G. e inserire l'azione paradigmatica di quell'imperatore nella lunga linea continua del passato romano universale per trovarvi una garanzia di esattezza e giustizia nonché la premessa per una nuova riunificazione mondiale che fosse imperiale e cristiana.

Non senza una voluta coincidenza egli ha preso le mosse per il suo rapido sommario storico dal punto in cui aveva termine l'Eneide; di conseguenza, dopo un ennesimo ammonimento di G. (Vedi quanta virtù l'ha fatto degno / di reverenza: l'oggetto sottinteso è sempre l'aquila), il poeta ha un bellissimo attacco: e cominciò da l'ora / che Pallante mori per darli regno (Pd VI 34-36). La morte di un alleato di Enea, del figlio del re latino Evandro, che aveva la sua sede sul Palatino - il centro del futuro impero romano -, è il primo olocausto, quasi di vittima innocente, offerto sull'altare della storia per le sorti felici del luogo e dell'ordinamento politico che dovevano diventare sacri ed eterni. Poi G. nella sua esposizione storica ricorda i trecento anni di soggiorno dell'uccello divino in Albalonga; il passaggio sulle rive del Tevere avvenne dopo la vittoria dei romani Orazi sui Curiazi albani, ma non sono i singoli episodi che interessano quanto l'angolo visuale interpretativo, cioè non siamo davanti a un racconto storiografico bensì a un'epopea religiosa di cui Dio stesso è il protagonista. Così una terzina riassume il periodo monarchico (vincendo intorno le genti vicine [v. 42], conquistando la supremazia regionale, affermando il predominio romano sui popoli contermini) e ugualmente sommaria ma lucida è la sintesi della storia repubblicana dal 510 al 264 circa: li egregi capi menzionati sono elogiabili per le indubbie qualità civiche e militari, ma soprattutto per la loro austerità morale, per la modestia e il disinteresse che li distingueva. Abilmente, invece, D. sorvola sulla fase più turbinosa della storia romana, che andava dalle guerre puniche alle guerre civili, mentre con maggiore ampiezza e simpatia ha trattato di Cesare (gli dedica ben sei terzine, che il Bosco ha definito " concitate " perché " sembra che l'aquila portata in pugno da Cesare sia contemporaneamente o quasi nei luoghi più diversi, come fulmini che scoppiano contemporaneamente su ogni punto dell'orizzonte ").

Assai meno calda è l'ammirazione di D. per Ottaviano Augusto, nondimeno essendo arrivati con lui a un punto fermo della storia di Roma e del mondo in quanto la conquista ha raggiunto il suo acme non pur umane ma per divine operazioni (Cv IV V 10), il racconto viene sospeso per passare a considerazioni più profonde e impegnative, per scoprire la giustificazione ideale dei successi e delle virtù del popolo romano. D. compie un gran salto passando dalla storia alla teodicea vera e propria (i versi fondamentali sono quelli di Pd VI 82-90), ma in sede di esame della figura di G. basti osservare che nessun altro meglio di lui poteva fare dichiarazioni del genere, essendo egli un imperatore teologo, che per di più era stato guidato dall'errore all'ortodossia in un punto agevolmente collegabile con i temi politici. Infatti il monofisismo riteneva che in Cristo vi fosse una sola natura, ma con ciò stesso restava vanificata l'intera realtà della natura umana, del mondo terreno, e anche ovviamente, in definitiva, delle attività politiche che impegnano i governanti. L'essere giunto a veder chiaro consentiva a G. di comprendere più esattamente il compito spettantegli come imperatore cristiano, quello di attendere all'alto lavoro muovendo con la Chiesa ... i piedi.

Ricollegandoci a spunti precedenti e tirando le somme, potremmo affermare pertanto che l'effettivo significato del personaggio di G. nella Commedia è quello di far sentire la provvidenzialità di un decorso di cui gli stessi protagonisti non avvertivano tutto il pregnante valore, di cogliere il teleologismo delle vicende antiche considerate sul metro della filosofia della storia cristiana. Ha scritto il Sapegno: " giova sottolineare il significato religioso del discorso di Giustiniano, che illumina i rapporti fra la terrestre epopea dell'Impero nel tempo e la storia ideale e metafisica dell'umanità attuata ‛ ab aeterno ' secondo un organico disegno della Provvidenza ". Però vi è in D. un proposito anche più sottile, ed è quello che veramente individua il canto VI dalle precedenti dichiarazioni politiche di lui; proponendo la stessa questione in termini un po' paradossali, si potrebbe chiedere, con il Passerin d'Entrèves, se D. era ancora imperialista quando scriveva quelle terzine, che sono all'apparenza tutta un'esaltazione dell'istituto e del suo simbolo vivente e operante, l'aquila. Un imperatore come G., tutto rivolto a mettere la sua opera al servizio della retta fede e della giustizia divina, era il correttivo di quei politici - condannati altrove dal poeta - che non avevano saputo vedere la presenza dei piani divini anche negli sviluppi storici dell'umanità, o dei miscredenti o di chi, accecato da banali interessi, non capisce il significato degli avvenimenti; la lunga narrazione del volo dell'aquila diveniva in tal modo non soltanto una sintesi di vicende passate, ma soprattutto la prova che " l'opera di Roma era collegata con il mistero della Redenzione " (Vallese), o, in altri termini, che l'Impero non è autosufficiente, che alla Chiesa spetta la suprema giurisdizione sul mondo, che la civiltà cristiana continua e corona la precedente secondo un disegno provvidenziale, e via di seguito.

Dopo aver parlato di Firenze, la città partita (If VI 49-75), e dell'Italia di dolore ostello (Pg VI 76-151), D. non poteva mancare di fare la celebrazione dell'Impero nel canto corrispondente del Paradiso, e l'elogio risultò solenne e caldo, sincero e diffuso; il riconoscimento dei meriti storici acquisiti fu pieno, l'approvazione del compito spettantegli nel piano generale della civiltà fu ampia. Nondimeno fu proprio in quest'occasione che apparve evidente la trasformazione subita dall'Alighieri con il passare degli anni (ovviamente si dovrebbe analizzare il problema cronologico della composizione delle diverse opere dantesche e ammettere che la Monarchia è assai anteriore alla Commedia, per meglio intendere l'evoluzione di pensiero qui delineata per effetto delle esperienze fatte in pochi ma decisivi anni e delle meditazioni compiute su quanto era avvenuto nella storia civile ed ecclesiastica di quei tempi). Dalle parole di G. è facile intendere che D. voleva ormai subordinare i valori temporali a quelli religiosi e a ogni impresa umana voleva dare un esito più rivolto a sottolineare i suoi valori morali e quelli personali nella luce della salvezza eterna cristiana che non i trionfi esteriori e quelli temporali. Di conseguenza l'operato dei singoli come delle istituzioni era considerato in una prospettiva escatologica, che rimpiccioliva e faceva perdere di mordente alla contingenza politica, ma che, nello stesso tempo, la colorava di un'intonazione profetica.

L'ultima parte del discorso storico sull'aquila conferma quanto si era ora detto: quasi fosse affaticato dalle altezze alle quali era salito con le osservazioni fatte sulla funzione dell'Impero al tempo dei primi titolari, G. saltò tutti i periodi successivi e passò a parlare dei Longobardi e di Carlomagno; ma la lunga lacuna si riduce molto se - indipendentemente dall'ordine del discorso - s'introducono qui i primi versi del canto, in cui si fa parola di Costantino e di G. stesso, i quali due sovrani hanno un posto di rilievo ai fini del motivo dominante in tutta l'esposizione. Non si parlerà qui del primo, ma converrà ripetere che un confronto diretto tra quello che D. osserva su l'uno e sull'altro mostra sempre meglio come G. sia visto da lui quale anti-Costantino, avendo il secondo annullata, entro certi termini, la donazione (che aveva invertito il corso storico del sacrosanto segno e provocato sconvolgimenti, essendo stata la cagion che 'l mondo ha fatto reo [Pg XVI 104]), restaurata la maestà imperiale in Italia e nell'occidente, ripristinati l'ordine e la giustizia nel mondo, ecc. Sottolineeremo invece l'assoluta mancanza di cesura in D. tra la storia antica e quella medievale perché egli era convinto, come tutti i suoi contemporanei, della continuità del processo e accettava, semmai, il concetto di ‛ translatio imperi ', senza nutrire dubbi sull'eternità dell'istituzione dato che, se cadeva Roma e il suo Impero, ‛ cadet et mundus '.

Con il secolo VIII la rievocazione storica di G. ha termine e D. passa a inveire contro quei cotali che ardiscono opporre al pubblico segno le insegne di parte (Pd VI 100-108); né i i fautori dell'Impero, i cosidetti ghibellini, trovavano agli occhi di D. maggior credito dei loro avversari, i guelfi, perché entrambi si appropriavano per loro vantaggio di un simbolo facendogli perdere l'imparzialità e universalità che gli erano propri. Messosi per tale strada D. non si fermò molto presto, anzi scese in dettagli traendo pessimistiche conclusioni sulle fasi ulteriori della storia e assurgendo a valutazioni moralistiche circa la nemesi che colpisce nei figli le colpe dei padri; gli esempi portati da G. nella sua invettiva erano tratti dalle vicende coeve a D., ma soprattutto dall'appassionata polemica sgorga ancora una volta la meditazione storico-teologica sulla giustizia dell'aquila nonché l'esplicita affermazione che per il cielo l'Impero è ‛ termine fisso d'eterno consiglio ' ed è follia sperare che Dio trasmuti l'armi per suoi gigli. Nondimeno tutti i commentatori sono concordi nel riconoscere che in tutta questa parte del discorso di G. è evidente un certo distacco nel giudizio delle situazioni di cui si parla; D. si sentiva al di sopra sia dei ghibellini sia dei guelfi e voleva erigersi ad arbitro sereno e inflessibile, anche se era dispiaciuto di dover condannare i suoi stessi contemporanei perché vedeva che non vivevano nella giustizia e davano sfogo ai loro odi partigiani. Il volo ampio e solenne dell'aquila lungo il corso dei secoli, dalle origini di Roma a Cesare, da Augusto a Carlomagno, messo in bocca a G., doveva servire, nelle intenzioni di D., ad arricchire sempre più la politica di idealità spirituali e a dimostrare che l'‛ humana civilitas ' si attua solamente adoperando i mezzi offerti dalla religione cattolica ma impiegati con un'autonomia che ne salva la dignità. Mancano nel G. dantesco i sentimenti personali o le passioni dell'individuo; sembra che egli non partecipi a quanto va dicendo anche se il suo eloquio è, dal punto di vista linguistico, assai appropriato perché ricco di parole arcaiche e abbondante di riprese discorsive, di ripetizioni verbali, per meglio stabilire una continuità nella narrazione. Ma il fine di D., scolpendo quella figura, era solamente quello di farne un modello e un monito, affidandogli un messaggio da comunicare, quasi esso fosse un decreto che sta sepulto / a li occhi di ciascuno il cui ingegno / ne la fiamma d'amor non è adulto (Pd VII 58-60).

Bibl. - M.F. Stella, G. nell'opera di D., Lanciano 1935; A. Passerin d'Entréves, D. politico e altri saggi, Torino 1955; M. Barbi, Problemi fondamentali per un nuovo commento della D.C., Firenze 1956; G. Vallese, Introduzione al G. dantesco, in " Le parole e le idee " II-III (1963); P. Brezzi, Il canto VI del Paradiso, in Lect. Scaligera III 173-216; ID., Il volo dell'Aquila romana (Paradiso canto VI), in " Studi Romani " XII (1964); G. Vallese, Introduzione al G. dantesco, in Studi da D. ad Erasmo di letteratura umanistica, Napoli 19704, 123-153.

La forma ‛ Giustiziano ' appare in Fiore CX 9 E sì difendea 'l buono Giustiziano, in corrispondenza con Roman de la Rose 11345 " E si defent Justiniens... ". Rispetto a ‛ Giustiniano ', la sostituzione di -n- con -z- sarà dovuta a un proposito di interpretatio nominis, mirante a far risaltare i valori paradigmatici del personaggio, elevato a modello supremo di giustizia (procedimento ben naturale nel contesto allegorico del poemetto). Nel passo del Fiore l'imperatore appare appunto come il supremo rappresentante della legge civile, cui è dedicata tutta la sirma del sonetto (in contrapposizione alla legge divina celebrata nella fronte). Lo stesso ruolo gli verrà poi riconosciuto nella Commedia.

Non è privo d'interesse che l'autorevole codice Ashburnhamiano 828 della Commedia rechi la variante Iustitia (per iustitiā, ‛ iustizian[o] ', in Pg VI 89, contro Iustiniano, Giustiniano degli altri manoscritti. La parola giustizia' ricorre poi tre volte nel discorso di Giustiniano in Pd VI, dove all'imperatore verrà proprio affidato il compito di esporre la nozione della divina giustizia (che rende possibile la coesistenza di diversi gradi di grazia con una condizione di beatitudine).

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