Gli accordi di Villa Madama: dalla Costituente a Craxi

Cristiani d'Italia (2011)

Gli accordi di Villa Madama: dalla Costituente a Craxi

Alessandra Berto

Premesse

Sebbene il problema della revisione del Concordato fra la Repubblica italiana e la Santa Sede sia stato affrontato solo verso la metà degli anni Sessanta, esso attraversò, come è noto, tutto il dibattito politico e culturale italiano anche nel ventennio precedente.

Nei contatti tra i partiti, fin dall’estate del 1943, erano infatti riemersi i temi della pace religiosa e del destino dei Patti Lateranensi, verso i quali si consolidò un duplice atteggiamento: mentre il Trattato era considerato da tutte le forze del Cln un dato di fatto non in discussione, il Concordato era ritenuto invece bisognoso di profonde revisioni, tant’è che era divenuta opinione comune tra le forze politiche l’opportunità di denunciarlo unilateralmente. Appena due anni e mezzo più tardi la questione concordataria si pose tuttavia in modo diverso. Le voci che ne avevano chiesto la soppressione si attenuarono e quasi non ci furono eccezioni nel decidere il mantenimento – almeno momentaneo – del documento, magari temperato in alcuni articoli, seguendo naturalmente la procedura consensuale prevista dallo stesso1. Convinti che la scena politica fosse troppo sbilanciata a favore della componente cattolica, anche i laici abrogazionisti, ora non più convinti, cedettero alle logiche imposte dai nuovi equilibri, pur di non compromettere il consenso che la Chiesa concedeva alla nascente democrazia.

Alla Costituente fu inevitabile riaffrontare il campo minato del rapporto tra Stato e Chiesa e i nodi arrivarono al pettine in seno alla commissione dei 75, in particolare durante i lavori per la stesura dell’art. 5 (successivamente 7), nella quale riemersero i contrasti e le posizioni ideologiche che, assieme alle appartenenze culturali, vennero a galla in tutta la loro distanza. Le formazioni politiche contrarie ai contenuti dell’art. 7 furono notoriamente la socialista, la repubblicana, la demolaburista, l’azionista e quella di alcuni sparuti membri del partito liberale (tra i quali Benedetto Croce). A sostegno di una menzione costituzionale del Concordato si schierarono invece i democristiani, i qualunquisti e il gruppo di liberali che non aveva avallato la posizione del proprio leader. Il Pci seguì invece una linea del tutto indipendente e sui generis che, pur con alcuni malumori interni, finì per sostenere la menzione dei Patti nel testo della Carta2. Palmiro Togliatti era perfettamente cosciente del ruolo ricoperto dalla Chiesa durante il periodo bellico e di come si fosse rivelato fondamentale alla tenuta del sistema paese. Di conseguenza sapeva che i rapporti con il mondo cattolico, proprio in virtù del peso determinante conferito dalle circostanze, non potevano essere affrontati attraverso lo scontro ideologico, nocivo in questa fase di concertazione3. Sul versante della Santa Sede, tuttavia, non venne mai meno la rigidità dottrinale in materia ecclesiastica che gli ammiccamenti di Togliatti non riuscirono minimamente a scalfire. La politica di conquista che Stalin promosse negli anni appena successivi la fine della Seconda guerra mondiale nell’Europa dell’Est e la conseguente limitazione o soppressione del diritto alla libertà religiosa apparvero infatti sempre più la prova inconfutabile che trattare col comunismo non era possibile, né consigliabile. Pio XII e tutto il clero in generale non risparmiarono nulla nella battaglia contro il comunismo4, e tanta profusione di energie rischiò di rendere inutile la strategia di avvicinamento messa in opera dal Pci. Fu in questo contesto che Togliatti decise di ricorrere all’ultima arma di cui disponeva: il Concordato e la sua possibile denunzia.

Il segretario del Pci prese la parola su questo tema in occasione del II Consiglio nazionale del partito che si tenne a Roma tra il 7 e il 10 aprile 1945. Il discorso pronunciato in quell’occasione fu insolitamente severo: ricordò come il partito si fosse speso per il mantenimento della pace religiosa nella penisola, come partecipasse alla vita politica e associativa nella piena legalità e come, ciò nonostante, subisse un costante attacco dalle autorità ecclesiastiche. Gli parve inevitabile concludere affermando che, se a tutto ciò non fosse stato posto quanto prima un freno, la questione della revisione concordataria sarebbe presto ritornata all’ordine del giorno5.

A questo intervento seguì la risposta ancor più severa di padre Lombardi il quale, con la copertura della Segreteria di Stato, nelle pagine de «La Civiltà cattolica» dichiarò apertamente come da parte vaticana non si concepisse nemmeno l’idea che il dopo Mussolini potesse mettere in dubbio i Patti del 1929 o anche il solo Concordato6. Le acque sembrarono chetarsi con il V Congresso tenutosi a Roma tra gli ultimi giorni del 1945 e l’inizio del nuovo anno, quando Togliatti ritornò sull’argomento dei rapporti Stato e Chiesa sottolineando come, per il bene del paese, la Chiesa avrebbe continuato a godere di una propria centralità e indipendenza. A garanzia di ciò passava anche l’accettazione del Concordato, ulteriore tutela per l’affermazione della pace religiosa tra i cittadini. In questo senso Togliatti sottolineò che il Concordato «[…] è per noi uno strumento di carattere internazionale oltre che nazionale, e comprendiamo benissimo che non potrebbe essere riveduto se non per intesa bilaterale salvo violazioni che portino l’una parte o l’altra a denunciarlo»7.

Tra i sostenitori della menzione del Concordato nell’art. 7, si contarono, come accennato, la Democrazia cristiana ormai saldamente rappresentata da Alcide De Gasperi; i qualunquisti, che pur mantenendo un carattere profondamente laico non si opposero alle tutele richieste dalla Chiesa; una parte del Partito liberale, in particolare quella rappresentata dagli anziani notabili del periodo prefascista, i quali nella firma dei Patti Lateranensi vedevano un successo, in parte personale, troppo importante per essere completamente abbandonato. Su posizioni assai distanti si fermarono invece Croce e il gruppo della cosiddetta sinistra liberale, successivamente uscito dal partito per fondare il gruppo del «Mondo».

Alla vigilia del 2 giugno 1946 la maggioranza delle forze politiche era giunta alla comune opinione che il Concordato dovesse essere accettato, ma riformulato in accordo con la Santa Sede nei pochi articoli maggiormente stridenti con l’evoluzione degli assetti socio-politici che l’Italia stava per subire o già vigevano.

Secondo le direttive ecclesiastiche era «dovere di ogni buon cattolico» operare la propria scelta politica anche in base alla linea di condotta adottata dal partito verso la questione concordataria, e dunque indirettamente verso la Chiesa; in questo caso le maggiori garanzie su tale punto erano offerte dal gruppo democristiano. Forte di questa certezza il focus d’azione ecclesiastico ebbe modo di spostarsi sui lavori interni alla Costituente, ai quali fece pervenire a più riprese le proprie richieste. La prima associazione a farsi portavoce dei desiderata vaticani fu l’Azione cattolica, la quale, accanto ai tradizionali temi della famiglia, della dignità della persona, della formazione e della giustizia sociale, chiese che la Carta potesse includere nel proprio incipit l’invocazione del nome di Dio e un riferimento al cattolicesimo come elementi fondanti del nuovo Stato. Inoltre, a definitivo suggello di questa espressione, sarebbe stato aggiunto che i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica erano definiti e regolamentati per mezzo dei Patti Lateranensi. L’accoglimento di simili richieste avrebbe compromesso in via definitiva ogni aspirazione laica del nuovo Stato. Tale considerazione era evidente a tutti, e, anche all’interno del gruppo democristiano, non mancarono le discussioni e le messe in guardia da parte dello stesso De Gasperi. Per la Santa Sede restava tuttavia fondamentale riuscire a raggiungere un accordo che ponesse al riparo gli spazi a sé riconosciuti con la stipula dei Patti del 1929, da considerare almeno per il momento, materia non negoziabile.

L’obiettivo primo da raggiungere, sia per il Vaticano che per le forze politiche che ne appoggiavano il progetto, rimaneva l’inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione; molto meno chiari erano però i metodi da adottare per realizzarlo. All’inaugurazione dei lavori dell’Assemblea Costituente né la Segreteria di Stato, né i vari leader politici – De Gasperi primo fra tutti – avevano maturato un’idea di come affrontare il problema pattizio in seno alla Carta8. Da una parte era in questione la formula giuridica con la quale si sarebbero messi in relazione Costituzione e Patti, dall’altra ci si domandava come salvare la laicità del nuovo Stato pur senza trascurare le tutele richieste dalla Chiesa. In ultima istanza vi era il problema di inserire in un documento nato nel nuovo contesto democratico un atto diplomatico che per lo “spirito” e per il momento storico in cui venne stipulato era del tutto estraneo al nuovo assetto. L’elaborazione di una strategia consensuale che permettesse di raggiungere un adeguato compromesso fu oggetto di discussioni e trattative per interi mesi.

Il primo sostanziale segno di riconoscimento che la Repubblica offrì alla Santa Sede si compì il 31 luglio 1946, in occasione della prima visita ufficiale che il capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, fece al pontefice. Fu un evento che ebbe un altissimo valore simbolico e diplomatico e non deve essere considerato come semplice atto di cortesia. Da parte vaticana ci fu infatti il formale riconoscimento del nuovo assetto statuale condizionato però dalla permanente vigenza dei Patti. Fu in questo frangente che Pio XII si convinse che il modo migliore per blindare gli accordi era legarli alla Costituzione mediante un inserimento vero e proprio o con una loro menzione nei principi generali.

Il timore più grande consisteva infatti nel pericolo di veder approvare una Costituzione contenente norme contrarie ai trattati del 1929 e che quindi avrebbero tacitamente introdotto delle modifiche unilaterali al documento. L’operazione pacelliana era pensata in modo tale che qualsiasi contrasto fosse emerso tra i due documenti non avrebbe mai potuto condurre all’immediata soppressione delle normative del 1929, ma, eventualmente, all’apertura delle trattative di revisione bilaterali previste dal medesimo Concordato9.

La soluzione

L’impasse di cui l’intera Assemblea si sentiva prigioniera fu risolta da Giuseppe Dossetti. Di solida formazione giuridica, già allievo di Arturo Carlo Jemolo, accolto dopo la laurea conseguita presso l’Ateneo di Bologna all’Università cattolica di padre Agostino Gemelli, Dossetti divenne libero docente di Diritto canonico nel 1942, cui seguì quattro anni dopo la cattedra di Diritto ecclesiastico presso l’Università di Modena. Negli anni della guerra allacciò rapporti con Lazzati, La Pira, Vanni Rovighi e Padovani, e alla fine del 1943 entrò a far parte del Cln provinciale di Reggio Emilia in rappresentanza della Dc, per divenirne successivamente presidente. Riconfermato alla stessa carica nell’aprile del 1945, nell’agosto successivo fu inserito nel Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, all’interno del quale si ricavò un ruolo di primo piano tra i maggiori rappresentanti della sinistra del partito. Eletto alla Costituente, dove partecipò ai lavori della commissione dei 7510, entrò a far parte della sottocommissione sui diritti e doveri dei cittadini, presieduta dall’ex popolare Umberto Tupini, diventando ben presto il principale interlocutore della Segreteria di Stato.

Ancora a decenni di distanza dagli eventi descritti, il sacerdote reggiano ricordò come la redazione e l’interpretazione dell’art. 7, come anche dell’art. 8 sulla libertà religiosa, fossero stati «assolutamente» suoi11, e come fosse stato decisivo il rapporto di fiducia stabilito con Togliatti.

Le specificazioni di Dossetti nel noto discorso alla Costituente del 21 marzo del 1947 sulla natura strumentale dell’art. 7 – che comportava il vincolo dello Stato a non disciplinare unilateralmente le materie contenute nei Patti – aprì infatti la strada al voto della stessa maggioranza dei costituenti, compreso il Pci, che scelse la via del compromesso, con grande scorno dei socialisti che gridarono al tradimento tra delusione e rabbia12.

Norme intangibili?

Ben presto si aprirono le contese sull’interpretazione dell’art. 7, tra chi vi leggeva la costituzionalizzazione del Concordato e chi vi vedeva invece la consacrazione di un principio di bilateralità.

Dal 1947 alla metà degli anni Sessanta l’inclinazione prevalente nella prassi fu quella di considerare i Patti Lateranensi completamente recepiti «in tutto il loro contenuto».

La teoria della ‘costituzionalizzazione dei Patti’ cominciò a essere affrontata solo all’inizio degli anni Settanta per lasciare il posto a una posizione opposta. A conferma di questo cambiamento, su cui si erano già lungamente espressi i due maggiori costituzionalisti dell’epoca, Costantino Mortati e Carlo Esposito, giunsero nel febbraio del 1971 due sentenze della Corte costituzionale (nn. 30 e 32) passate poi alla storia per il ribaltamento della prospettiva che proponevano. In esse venne infatti sottolineato come l’indipendenza dei Patti Lateranensi dalla Costituzione fosse sancita già chiaramente nel primo comma dell’art. 7 (sent. n. 30/71)13.

Le motivazioni che spinsero la dottrina giuridica a dividersi sul tema dipesero largamente dalla stagione politica di allora, ancora troppo debole per affrontare con i giusti mezzi un tema spinoso come il Concordato, il suo mantenimento o la possibile revisione.

Il mutare dei tempi

Nonostante il ‘congelamento’ della questione concordataria negli anni successivi ai lavori costituenti, il problema continuava tuttavia a essere sollevato.

Il decreto di scomunica dei comunisti nel 1949, divenne in particolare il pretesto per l’organizzazione di un convegno sul tema della laicità che si tenne nel novembre dello stesso anno. Nell’occasione Pietro Nenni, che aveva votato contro l’art. 7, chiese se non fosse giunta l’ora di avviare la discussione sulla revisione del Concordato, se non addirittura una sua denuncia unilaterale. La provocazione restò tale e sul tema non venne avviato nemmeno un confronto. Passò appena un anno e nell’ottobre del 1950, intervenendo nel dibattito sulla fiducia al sesto governo De Gasperi, il leader socialista ripropose la questione, chiedendo che venissero rivisti almeno gli artt. 5, 34 e 36 del Concordato, i quali trattavano gli importantissimi temi della revoca del nulla osta sacerdotale, del matrimonio religioso e dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola14.

Fu una perorazione senza futuro, come dimostrò il disimpegno dei comunisti, che non solo espressero un giudizio negativo in merito alla proposta di Nenni15, ma evitarono sistematicamente ogni presa di posizione polemica in merito al tema dei rapporti tra lo Stato, la Chiesa e le confessioni religiose più in generale. Questo spiega perché dopo il 1948 ogni dibattito su questi temi scomparve sostanzialmente dalla politica nazionale per trovare, solo a sprazzi, un interlocutore nella ristretta cerchia degli intellettuali che scrivevano su riviste come «Il Ponte», «Belfagor» e «Il Mondo». Per tutti gli anni Cinquanta e la prima parte del successivo decennio non ci furono né dialogo né vero dibattito sull’argomento, ma solo un costante e mal celato disagio che emergeva di tanto in tanto di fronte al trattamento giuridico riservato alle minoranze, che dimostravano come in realtà il contenuto e lo spirito dell’art. 8 non fossero mai stati accettati e applicati16. Come è noto, la prima svolta favorevole al dialogo sulla libertà religiosa ci fu nel biennio 1955-1956 con il decisivo avvio dell’attività della Corte costituzionale.

Anche sul piano culturale si ritornò a una certa vitalità di proposte: sono da ricordare in particolare il convegno tenutosi a Milano con titolo Libertà religiosa e libertà costituzionali nel luglio 1956 e la più importante iniziativa organizzata dagli Amici del «Mondo», svoltasi ai primi di aprile dell’anno successivo a Roma, nella quale si ritornò a parlare più apertamente del rapporto tra lo Stato e la Chiesa. Tra le iniziative di questo genere organizzate sul tema Stato e Chiesa questa fu senz’altro una delle più significative, in quanto si concluse con una mozione nella quale veniva chiesta apertamente l’abrogazione del Concordato, auspicando la realizzazione di un regime laico in cui vigesse la netta separazione tra lo Stato e la Chiesa17.

La proposta avanzata dagli Amici del «Mondo», pur non avendo la forza di smuovere le acque parlamentari, costituì comunque il pretesto per riportare la discussione sull’argomento. In breve si riaccese anche la polemica verso il Pci, ‘accusato’ di essere colpevole quanto i democristiani per le scelte compiute in ambito costituente e del deterioramento della laicità italiana18.

Nel 1958 un altro episodio diede misura di quanto i tempi e i costumi fossero cambiati: il vescovo di Prato, Pietro Fiordelli, definì dal pulpito i coniugi Bellandi pubblici concubini per aver scelto di contrarre matrimonio solo con rito civile. Il vescovo venne querelato, citato in tribunale e successivamente condannato in contumacia (nonostante una memoria difensiva proposta da Dossetti)19. La sentenza sconcertò tutte le gerarchie e ‘l’Italia cattolica’ e fin dal primo momento suscitò stupore e venne ritenuta profondamente iniqua, solo la scomunica latae sententiae che colpì i giudici e la coppia di sposi raffreddò gli spiriti. Questo episodio divenne però la dimostrazione che l’art. 7 non forniva più alla Chiesa la tutela sperata.

Nella primavera dello stesso anno vennero sciolte le camere e indette nuove elezioni; la Cei, presieduta da Giuseppe Siri, fece sentire la sua voce rinnovando la fiducia incondizionata alla Dc. L’anno successivo la scena si ripeté in occasione delle elezioni regionali in Sicilia durante le quali il Sant’Uffizio si premurò di ricordare che il decreto di scomunica contro i comunisti non era mai venuto meno; questa volta il Pci recepì il problema concordatario, auspicando quanto prima l’adeguamento di quest’ultimo al mutato spirito dei tempi. Non ci fu alcuna ricezione governativa e i problemi di politica ecclesiastica legati alla revisione del Concordato continuarono a rimanere temi di discussione tra gli ecclesiastici e le minoranze religiose, le più colpite nell’esercizio dei loro diritti, le più sensibili al problema della libertà di culto, le più tenaci nella lotta volta all’ottenimento dell’abrogazione della legislazione fascista sui «culti ammessi»20.

Il segno del Vaticano II

L’annuncio e la celebrazione del Vaticano II segnarono una tappa fondamentale anche per il processo di revisione concordataria sul quale incisero il fermento e le aperture dischiuse dal processo conciliare21. Il monolitismo cattolico che sembrava aver caratterizzato tutta la lunga stagione del pontificato pacelliano entrò in crisi in ogni sua forma, portando in superficie il desiderio di ritornare a una dimensione originaria della vita religiosa, desiderio che si espresse sovente anche attraverso varie forme di dissenso estese non solo all’ambito strettamente ecclesiale ma anche a quello politico e familiare. La crisi colse di sorpresa chi non aveva saputo dare il giusto peso ai segni di cambiamento già presenti nella società italiana: la diffusione di gruppi di rinnovamento religioso, le esperienze di ricerca e le forme di dissenso su cui i mass media posarono l’attenzione, fecero emergere con stupore un popolo cattolico tutt’altro che conformista22.

A concilio concluso, l’8 dicembre 1965, ci si accorse tuttavia di quanti problemi fossero rimasti insoluti, sia nelle discussioni ma anche negli stessi documenti conciliari che in più di qualche punto apparvero il giusto compromesso tra molte tendenze. Fra le tante domande ne emersero due sentite da tutti come particolarmente stringenti per il contesto italiano: la Chiesa intende davvero rinunciare a un regime di privilegio? Il regime concordatario si deve riaffermare o no?23

L’interrogativo era sollecitato dallo stesso testo della costituzione conciliare Gaudium et Spes, in cui al punto 76 si leggeva che il potere ecclesiastico e quello civile sono entrambi sovrani nella propria sfera, entro la quale sono liberi di agire in piena indipendenza e sulla base del proprio diritto:

«Certo, le cose terrene e quelle che, nella condizione umana, superano questo mondo, sono strettamente unite, e la Chiesa stessa si serve di strumenti temporali nella misura in cui la propria missione lo richiede. Tuttavia essa non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall’autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni»24.

L’approdo della revisione in Parlamento

La necessità di riconsiderare il testo concordatario ritornò all’ordine del giorno con una vastissima eco nell’opinione pubblica nel gennaio del 1965, quando il prefetto di Roma riabilitò la norma dei Patti che attribuiva alla capitale il «carattere sacro» per impedire la rappresentazione del dramma teatrale «Il Vicario» del tedesco Rolf Hochhuth. Il tema che trattava dei presunti silenzi di Pio XII di fronte al dramma patito dagli ebrei durante la Seconda guerra mondiale si dimostrava un argomento spiacevole e spinoso. Per questo l’autorità pubblica sperò di eluderne le conseguenze appellandosi al contenuto dell’art. 1 del Concordato, senza considerare col giusto peso l’eco ancor più vasta che avrebbe attirato una decisione tanto anacronistica25. La polemica si riversò in Parlamento con diverse interrogazioni e si ripresentò durante il dibattito sulla fiducia al governo Moro, durante la quale il socialista Mauro Ferri auspicò che potesse avere inizio, in accordo con la Santa Sede, una revisione delle norme concordatarie in contrasto con la Costituzione. Nello stesso mese Lelio Basso, esponente del Psiup, presentò alla Camera una mozione sulla medesima questione.

Si giunse dunque con difficoltà e con un ritardo ormai cronico sull’evoluzione dei tempi alla discussione parlamentare dell’ottobre 1967, durante la quale venne approvata una mozione comune tra Psdi-Pri e Dc nella quale si affermò che lo Stato riconosceva l’«opportunità di riconsiderare talune clausole del Concordato in rapporto all’evoluzione dei tempi ed allo sviluppo della vita democratica […]» e impegnava il governo «[…] a prospettare all’altra parte contraente tale opportunità in vista di raggiungere una valutazione comune in ordine alla revisione bilaterale di alcune norme concordatarie»26. Tutto il dibattito parlamentare si svolse però con toni bassi e con palese timidezza dei partiti. Rispetto al periodo della liberazione l’oggetto in discussione era ulteriormente mutato: ora all’adeguamento del Concordato col passo dei tempi, si aggiungeva la necessità di un adeguamento anche allo ‘spirito’ del Vaticano II. Per gli italiani – laici e cattolici – la pace religiosa passava proprio attraverso la riformulazione degli assetti concordatari27.

La stessa Dc, sostenitrice della mozione, non era d’altra parte compatta al suo interno. Tutti gli interventi sull’interpellanza, compreso quello dotto e articolato di Guido Gonella, ebbero un registro minimale perché l’ottica rimaneva sempre quella del mantenimento della «pace religiosa»28.

È così che il discorso sulla revisione dei Patti riuscì a riemergere da un clima di sostanziale silenzio nel quale si trovava da anni e a spogliarsi dell’aura di intangibilità conferitagli dalle interpretazioni di molta giurisprudenza.

Sullo sfondo di quella mozione si collocò la scelta del governo guidato da Giovanni Leone, alla fine del 1968, riconfermata poi dall’esecutivo di Emilio Colombo, di nominare una commissione governativa di studio presieduta e istituita da Gonella, allora ministro di Grazia e Giustizia (ruolo che poche settimane più tardi fu di Silvio Gava), ed entrata nella fase operativa alla fine di febbraio del 1969, incalzata dal mutato quadro politico del paese. Nel discorso di insediamento della cerimonia, che si tenne nello stesso anno, il ministro parlò esplicitamente dei criteri che si sarebbero dovuti seguire durante i lavori: sostenne che la Camera non aveva inteso invitare il governo alla proposta di modifiche marginali, eliminando solo alcune ‘frange’ per le quali, la nomina di una commissione ad hoc sarebbe stata superflua. Tuttavia, in occasione del discorso ai componenti della commissione di studio, il guardasigilli Gava affermò che non si poteva non sottolineare che nel Concordato vi era un complesso di materie e di norme nel quale stava gran parte della sua ragione di essere e senza il quale la pace religiosa sarebbe stata sicuramente e definitivamente compromessa, norme che quindi non potevano che restare nel loro contenuto ‘sostanziale’29. I criteri della mozione parlamentare vennero dunque ribaltati dal ministro per crearne di nuovi, interni al Concordato stesso, nel quale si riconoscevano una serie di norme e di principi immodificabili30.

A queste istruzioni si attenne la Commissione, composta, oltre che dal presidente Gonella, anche da Gaspare Ambrosini, Arturo Carlo Jemolo, Franco Valsecchi, Roberto Ago, Pio Fedele e Paolo Rossi, che nel giro di appena cinque mesi terminò il proprio lavoro, limitandosi a una semplice ripulitura del testo del 1929, con l’aggiunta di due articoli. Questa proposta di revisione, ricordata come la Relazione della Commissione ministeriale di studio per la revisione del Concordato, rimase senza eco e non fu discussa né alla Camera, che ne ebbe un sommario resoconto da parte di Colombo dopo lunga insistenza solo nel 1971, né fuori dal Parlamento. I motivi di tanta reticenza, che spinsero all’elusione del problema fino al 1976, anno in cui furono riavviati i lavori, possono essere individuati nel ruolo avuto da tre agenti frenanti: l’approvazione della legge 898/70 con la quale si istituì il divorzio; il referendum abrogativo del 1974 in cui i sì si fermarono sotto la soglia del 41%31; infine la riforma del diritto di famiglia l’anno successivo, con la legge 151/75.

I primi due furono eventi epocali, con i quali gli italiani avevano, consapevolmente o meno, tracciato due segni indelebili sul tessuto sociale. Il processo di avanzamento della società e dei costumi iniziato alla metà degli anni Sessanta continuava a fare il proprio corso, rendendone così consapevole non solo la Dc ma la stessa Chiesa, già alle prese con fenomeni di dissenso e dal difficile avvio della Cei.

I lavori per la revisione del Concordato ripresero lentamente e sottotono nel 1971, dopo che il presidente del Consiglio Colombo, a seguito delle pressanti insistenze dell’opposizione, riferì il 7 aprile alla Camera sui risultati ottenuti dalla Commissione di studio nei due anni precedenti. Constatato inoltre che il Vaticano era ancora disponibile a una trattativa, nonostante la legge sul divorzio continuasse a essere interpretata Oltretevere come un vulnus al Concordato, il dibattito si concluse con l’approvazione di un ordine del giorno, di cui Giulio Andreotti fu primo firmatario, nel quale il Governo veniva nuovamente invitato «a promuovere il relativo negoziato, mantenendo i contatti con le forze parlamentari […] e riferendo conclusivamente alle Camere prima della stipulazione dell’accordo di revisione»32.

Il referendum sul divorzio, il congelamento delle trattative e le ipotesi di lavoro

Se il varo della legge 898 negli ambienti vaticani non fu accolto con favore, quel quasi 60% degli italiani che al referendum del 12-13 maggio 1974 scelse di non abrogare questa normativa provocò un vero choc negli ambienti ecclesiastici di ogni livello e in parte del mondo cattolico, tanto da indurre a un momentaneo ‘congelamento’ delle ipotesi di revisione concordataria avanzate fino ad allora.

Il primo tentativo di ricucire questo strappo venne dal Pci che propose nuovamente una soluzione del problema atto a escludere l’ipotesi dell’abrogazione e favorevole a una trattativa bilaterale che conducesse rapidamente a una soluzione positiva della questione. A questo proposito si espressero in un intervento alla Camera datato luglio 1974 Berlinguer, Natta e Jotti attraverso un’interpellanza parlamentare nella quale, richiamando l’o.d.g. dell’aprile 1971, chiedevano che l’Aula fosse informata «dei passi compiuti e dei risultati conseguiti, di quali atti siano in corso o ritenga di compiere il Governo e quali siano gli intendimenti della sua condotta per giungere a un esito sollecito e positivo» e nel caso in cui nessuna trattativa fosse ancora stata avviata, si chiese di conoscerne le ragioni33. A tale invito il presidente del Consiglio Moro diede immediato seguito avviando una serie di esplorazioni interne ai partiti a cui accordò il proprio appoggio anche Nenni, ormai deciso a mettere da parte la vecchia ipotesi abrogazionista per seguire quella più conciliante della revisione, in questo appoggiato anche dal giovane Bettino Craxi che successivamente se ne sarebbe fatto interprete e continuatore fino alla fase finale. Quest’ultimo sulle colonne dell’«Avanti!» sottolineò in particolare e a chiare lettere che la strada della denuncia unilaterale era da considerarsi un’ipotesi. Il Concordato andava piuttosto riesaminato soprattutto alla luce delle materie in esso affrontate, su cui legiferare era diventata una necessità inderogabile dato il mutato spirito dei tempi e della società. Così facendo anche i rapporti tra lo Stato e la Chiesa avrebbero avuto l’ammodernamento lungamente inseguito34.

Tra i partiti le ipotesi di lavoro sul processo di revisione rimanevano tuttavia poco omogenee. Le destre temevano che la profonda rivisitazione del testo pattizio snaturasse il documento privando la Chiesa delle tutele (o privilegi, come molti altri le definivano) che il regime fascista le aveva concesso. L’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Gian Franco Pompei, lavorò a lungo all’ipotesi di un ‘accordo quadro’, nel quale venissero rivisti e considerati solo pochi e brevi articoli, eventualmente accompagnati da intese bilaterali che avrebbero regolamentato nel dettaglio i temi più complessi. Pompei sondò più volte la controparte vaticana su tale ipotesi, ritenendo di avere in questo frangente il favore di Paolo VI e del Segretario di Stato Jean-Marie Villot, che alla fine preferirono però dare il loro appoggio all’ipotesi di revisione35.

Esclusi i radicali, che continuarono a sostenere con sempre maggiore veemenza la necessità di abrogare in toto il testo, cominciò a rifarsi avanti l’ipotesi di semplificazione e assottigliamento del Concordato, sfrondato delle «foglie secche» di jemoliana memoria36, attraverso la progressiva azione della Corte costituzionale che individuava e invalidava le norme che andavano a contrastare con la Costituzione.

Tra i sostenitori dell’‘accordo quadro’ ci furono Benigno Zaccagnini che, con l’approvazione di Moro, ipotizzò non una semplice e minima revisione ma un accordo-cornice (come allora venne definito), in cui però non fu mai avanzata una proposta vera e propria data l’insoddisfazione che fin da principio la Chiesa dimostrò verso una simile ipotesi37. Tra queste ipotesi di lavoro emerse anche quella di Pietro Scoppola che propose non un’abrogazione ma un azzeramento del testo del 1929, il quale, pur mantenendo una copertura costituzionale, sarebbe stato sostituito da un accordo quanto più ‘asciutto’ possibile sui temi di fondo e sostenuto da specifiche intese per le materie maggiormente articolate38. Nel frattempo Giovanni Spadolini pubblicò gli atti della Commissione Gonella del 1969, ponendo in una luce molto critica il risultato finale, a suo giudizio latore di una proposta di revisione superficiale e troppo limitata per essere considerata accettabile39.

La ripresa delle trattative

Tra giugno e agosto del 1975 fu chiara l’impossibilità di raggiungere entro breve termine un accordo positivo tra le parti contraenti. Ne diede lucida testimonianza l’ambasciatore Pompei nella stesura di un rapporto sullo stato delle trattative al ministro degli Esteri Mariano Rumor40. I dialoghi ripresero l’anno successivo.

La riapertura delle trattative coincise con la formazione del ‘governo della non sfiducia’ e con l’avvicinamento all’area di governo del Pci che, confermando la propria disponibilità alla ricerca di un’intesa con la Santa Sede, contribuì a emarginare le forze più laiche e radicali maggiormente favorevoli all’abolizione dei Patti che alla loro revisione.

Andreotti, dall’agosto 1976 capo del governo della ‘non sfiducia’, comunicò a Gonella l’intenzione di passare quanto prima a una conclusione dei lavori della commissione di studio e a un rapido negoziato con la controparte, incaricando di condurre la trattativa governativa Gonella, Jemolo e Ago, che già si era occupato della materia sette anni prima. Il 25 ottobre successivo, con l’invito da parte del governo alla Santa Sede ad aprire i negoziati, il papa nominò a sua volta i componenti della delegazione vaticana, scegliendo monsignor Agostino Casaroli, monsignor Achille Silvestrini, suo diretto collaboratore, e padre Salvatore Lener, da decenni collaboratore della «La Civiltà cattolica»41.

Il 21 novembre le commissioni erano già in grado di presentare un testo definitivo, ricordato come ‘I bozza’ o ‘bozza Andreotti’, sul quale, come sottolineò Gonella in una lettera al presidente del Consiglio Andreotti, gli interventi «[…] costituiscono in realtà una profonda rielaborazione del testo, ne fanno uno strumento nuovo, più organico e più sintetico, e più consono, soprattutto in tema di libertà di coscienza […]»42.

Da 45 gli articoli passarono a 14, complice la soppressione di molte normative ormai considerate incompatibili sia con la Costituzione che con lo spirito dei tempi, quali per esempio quello sul giuramento dei vescovi, o sul trattamento di favore per gli ecclesiastici in stato di arresto o condanna. Spariti anche il «carattere sacro» della città di Roma – a cui si attribuiva però un «carattere particolare» in quanto sede vescovile del papa e centro del mondo cattolico –, l’allusione a una religione di Stato e la menzione del termine «sacramento» nella normativa matrimoniale che lasciò il posto a una più sobria dicitura con riferimento al diritto canonico.

Queste trattative rimasero completamente segrete alle camere, tanto che quando i partiti si trovarono a discuterne in Aula, il 25 novembre 197643, i deputati non ne sapevano nulla e le reazioni furono in qualche caso di rifiuto o forte critica (da parte di radicali e liberali in particolare)44. Il dibattito invernale servì comunque a inaugurare la fase finale del cammino di revisione ponendo il negoziato su un duplice piano: da una parte quello della discussione tra le due delegazioni, dall’altra il riscontro e il confronto sul piano parlamentare.

La maggior parte delle richieste si concentrarono sull’autonomia dello Stato rispetto alla Chiesa e su una decisa rinuncia di ogni posizione di privilegio per quest’ultima45. Tra gennaio e maggio del 1977 le medesime Commissioni, su invito parlamentare, tornarono a confrontarsi, giungendo alla stesura della ‘II bozza’ che Andreotti illustrò ai gruppi parlamentari il 22 giugno, mentre Gonella, in qualità di presidente della commissione governativa, ne discusse con le rappresentanze dei partiti tra l’ottobre e il novembre successivi46.

Il testo recepì quanto era emerso dalla presentazione parlamentare della ‘I bozza’; in particolare, si cercarono degli approfondimenti nelle normative che affrontavano l’esonero dal servizio militare per i sacerdoti, la scomparsa dei cappellani militari, l’insegnamento della religione a scuola, accettato in qualità del fatto che i principi della religione cattolica sono parte integrante dello spirito e della storia italiana, e la legislazione matrimoniale, che ebbe importanti novità in merito alle cause di nullità matrimoniali. Nulla di nuovo venne invece presentato in merito ai beni ecclesiastici47.

Nel giro di consultazioni con i gruppi parlamentari tali e tante furono le osservazioni e le richieste di emendamenti che si ritenne opportuno evitare la discussione in aula e procedere direttamente a un nuovo negoziato con la Santa Sede48. Il testo ebbe in effetti molte più critiche rispetto al primo perché a giudizio di molti, tra cui Scoppola, troppo si concedeva e troppo poco o nulla addirittura se ne traeva in cambio.

Come si intuisce, la via parlamentare era la più lunga e laboriosa ma consentiva di coinvolgere tutte le forze in campo, facendole convergere intorno al medesimo risultato col consenso più ampio possibile, come raccomandava la stessa controparte vaticana.

Per l’esito finale fu decisivo il ruolo di Paolo VI e del vescovo ausiliare di Lucca, monsignor Enrico Bartoletti, in cui il pontefice ripose piena fiducia: nominato Segretario generale della Cei nel 1972 (carica che tenne fino alla morte sopraggiunta nel marzo del 1976), Bartoletti informava direttamente il papa e agiva in prima persona così da non essere frenato dalla mediazione di terzi. La revisione del Concordato italiano, che avrebbe dovuto essere materia di pertinenza della Segreteria di Stato o del Consiglio per gli affari pubblici, lo vide perciò protagonista insieme a Casaroli, che dopo la morte di Bartoletti divenne l’unico perno della trattativa49.

Verso la conclusione. III e IV bozza

Il lavoro di Gonella, Ago e Jemolo proseguì allora con una ‘III bozza’, consegnata ad Andreotti il 2 febbraio 1978, nella quale rimanevano però aperti i tre nodi più difficili di tutta la questione: 1) l’insegnamento della religione a scuola; 2) la giurisdizione matrimoniale; 3) la giurisdizione sugli enti ecclesiastici. Su questi tre punti emersero il maggior numero di proposte di modifica ed emendamento da parte del Parlamento, proposte che a tratti incontrarono la ferma resistenza alla modifica da parte della delegazione vaticana, giunta al limite delle concessioni a essa consentite50.

Il 1978 fu un anno di svolte, con l’assassinio di Aldo Moro e la morte di Paolo VI, da sempre punto di riferimento della politica italiana. Il percorso di riforma degli accordi Lateranensi sembrò arenarsi sulle soglie dei pontificati di Luciani (che per la verità non ebbe nemmeno il tempo di prendere in esame la causa) e poi di Wojtyla, eletto il 16 ottobre di quello stesso anno. Lo scandalo Ior che travolse i vertici ecclesiastici all’apertura del nuovo decennio e l’intreccio con le vicende politiche della P2 misero quindi il tema concordatario in nuova luce.

Nel frattempo anche la Dc subì il duro contraccolpo di questi eventi, che nel 1981 contribuirono all’apertura della prima presidenza del Consiglio non democristiana, col governo di Giovanni Spadolini succeduto due anni dopo da Bettino Craxi. Fu in particolare quest’ultimo a giocare un ruolo decisivo nelle trattative che di lì a un anno dalla formazione del suo governo di pentapartito, lo avrebbero condotto a siglare gli accordi di Villa Madama, chiudendo con grande successo una questione che si protraeva ormai da almeno vent’anni.

Prima di Craxi una soluzione positiva era stata desiderata dall’anziano Nenni, deciso a chiudere in via definitiva le insistenze abrogazioniste difese a lungo da Lelio Basso, ora facilitato anche dall’elezione al Quirinale del compagno di partito Sandro Pertini nell’estate del 1978. Complice soprattutto l’esito del referendum sul divorzio giunto nella primavera del 1974, fu Nenni che nei primi mesi dell’anno successivo, sulla base di un’intesa col capo del governo Moro, cominciò a far cambiare linea al proprio partito, determinando la positiva conclusione a cui giunse Craxi nel 1984.

In una serie di articoli apparsi sull’«Avanti!», Craxi, allontanandosi gradualmente dal tradizionale anticlericalismo socialista, prese posizione contro l’abrogazione che, se perseguita, avrebbe favorito a suo parere nuove fratture nel tessuto sociale italiano e nel rapporto con la Chiesa, impedendo così lo sperato adeguamento dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa al mutato clima sociale e politico. Il 20 settembre 1978, ancora sulle colonne dell’«Avanti!», Craxi offrì anche al neoeletto papa Giovanni Paolo I la disponibilità socialista al dialogo:

«A tali trattative i socialisti hanno dato, e sono pronti a dare ancora, ogni necessaria collaborazione attraverso il dibattito in Parlamento e gli incontri con la delegazione governativa, ma anche portando dal Parlamento nel paese la discussione su un tema di profonda rilevanza ideologica e di non scarsa emergenza politica per laici e cattolici»51.

Craxi anticipatore dei tempi aveva intuito la possibilità di proporsi come sponda alla Santa Sede e alle tante frange di un cattolicesimo inquieto.

Nel novembre 1978 Gonella illustrò ai gruppi parlamentari la ‘III bozza’, nata dalla collaborazione di quest’ultimo con Jemolo e Ago e, come detto, consegnata al presidente del Consiglio Andreotti il 2 febbraio precedente. Nell’occasione emersero delle valutazioni non negative che indussero Andreotti ad affrontare in aula un nuovo confronto.

Le novità più rilevanti presentate dal nuovo testo possono essere riassunte nei seguenti punti: 1) Stato e Chiesa cattolica sono pienamente sovrani e reciprocamente indipendenti – per la prima volta anche la Santa Sede si unì alla controparte in questa affermazione presente nell’art. 1 –;2) cessazione della definizione della religione cattolica come religione di Stato – secondo comma art. 1 –; 3) soppressione dell’art. 5; 4) in materia matrimoniale conferma di quanto deciso nella ‘II bozza’; 5) riconoscimento alla Chiesa del diritto di istituire e gestire liberamente scuole di ogni ordine e grado, 6) in materia di insegnamento della religione in ambito scolastico si estende anche alla scuola primaria il carattere non-obbligatorio di tale disciplina; infine 7) per quanto riguardò gli enti ecclesiastici, vista la quantità di osservazioni mosse dal Parlamento ai testi precedentemente presentati e la difficoltà di accomodare tante obiezioni nei tempi ristretti che erano stati chiesti, si preferì ribadire il principio costituzionale secondo il quale associazioni e istituzioni ecclesiastiche non potevano essere discriminate per questo loro carattere e venne al contempo proposto di rimettere alle competenze di una commissione mista l’elaborazione di un nuovo e completo regolamento in merito alla materia che avrebbe avuto ultimazione a un anno dalla nomina del gruppo di lavoro52. Tutti gli articoli in genere presentavano una forma più breve e semplice.

Nella relazione che accompagnò il testo della ‘III bozza’, Gonella sottolineò come la commissione da lui presieduta avesse affrontato le trattative con spirito aperto, disposta talvolta a sacrificare qualcosa del proprio punto di vista (niente di fondamentale però) per l’unanime raggiungimento di un accordo53.

Il senato iniziò a discutere questi risultati il 6 dicembre dello stesso anno54 e nell’occasione si ebbe il riconoscimento da parte dei partiti tradizionalmente ‘revisionisti’, come il Psi e Pci, di una possibile svolta positiva nei negoziati. La conclusione delle trattative era però subordinata alla risoluzione di alcuni fondamentali nodi dei rapporti tra società civile e religiosa, quali il matrimonio e l’ora di religione55. All’invito rivolto dall’esponente comunista Paolo Bufalini alla Delegazione di proseguire con il «[…] metodo sin qui seguito, quello di coinvolgere il Parlamento nelle diverse fasi della contrattazione diplomatica»56, seguì quindi il documento di chiusura redatto da Andreotti, nel quale confluirono le sollecitazioni, i suggerimenti e le condizioni poste dal Parlamento per la conclusione delle trattative. Assieme ad alcuni aspetti della legislazione matrimoniale e dell’insegnamento religioso a scuola, il punto più difficile da chiarire rimaneva la definizione della commissione paritetica che avrebbe dovuto riformare la normativa sugli enti ecclesiastici e che non aveva mai del tutto convinto il Presidente del Consiglio, che a questo proposito così si espresse:

«[…] qualcuno dubita […] che una commissione mista che in dodici mesi disciplini bilateralmente la materia stessa, oggi coperta dalle garanzie concordatario-costituzionali, sia un’ipotesi illusoria. Si teme che, come spesso accade, si imbocchi la via di infinite proroghe, lasciando a lungo il tutto sotto una disciplina vigente, che pur si reputa inattuale»57.

Concluse quindi suggerendo alla Commissione governativa di formulare una nuova e più accettabile proposta di soluzione da discutere con la controparte, tenendo come ultima possibilità la proposta di Gonella, Jemolo e Ago.

Nel dibattito al senato tra i più critici sui risultati contenuti nella ‘III bozza’ fu Spadolini il quale si dimostrò molto perplesso verso un testo vecchio di almeno dieci mesi, in cui erano riflesse le concessioni che la delegazione vaticana, guidata da Casaroli e completata da Silvestrini e Lener, aveva delineato negli scambi d’opinione con la delegazione italiana fra il dicembre del 1977 e il gennaio dell’anno successivo, una volta recepite le articolate osservazioni pervenute dai gruppi laici di Palazzo Madama. Notava Spadolini: «Si può dire che il negoziato fra Italia e Santa Sede sia chiuso, pure essendo entrato per ammissione unanime nella fase conclusiva? No»58. Esistevano infatti, per l’esponente repubblicano, dei nodi fondamentali da sciogliere, soprattutto in materia matrimoniale e di enti ecclesiastici. Tuttavia, alla fine fu anch’egli tra i firmatari di un ordine del giorno, approvato a larga maggioranza, in cui si affermava che esistevano ormai le condizioni per entrare nella fase conclusiva del negoziato. Da qui l’entusiasmo di Gonella che in una lettera ad Andreotti scrisse:

«Caro Presidente, Finis! Finalmente un sospirato finale. In varie sedute dopo la discussione del Senato, abbiamo messo a posto tutto, comprese varie varianti. Anche il Papa ha fatto sentire i suoi pareri. Ho urgente ed assoluto bisogno di un’ora per leggerti il testo e sottolineare alcune cose sulle quali vi è bisogno del tuo consiglio. Anche la Commissione sugli enti è stata ridimensionata. Tu sei impegnato solo a “informare” i capigruppo, e non a discutere. Potresti farlo per lettera illustrativa che potrei prepararti. La tua firma solenne a Palazzo Chigi potrebbe avvenire prima della riapertura della Camera»59.

La morte di Paolo VI e il brevissimo pontificato di Luciani segnarono al contempo la chiusura di un’epoca e l’apertura di una nuova fase dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa. Il tramonto della stagione governativa di ‘solidarietà nazionale’, il lento declino della guida politica democristiana, l’emergere di nuove questioni etiche quale l’aborto, la maggiore influenza della Cei e in particolare della sua presidenza e l’elezione del papa polacco, furono tutti segnali del cambiamento in atto che a tratti si trasformarono in veri e propri agenti frenanti del difficile dialogo tra le parti.

Le consultazioni tra le delegazioni ripresero nel dicembre dello stesso anno e, poco più di un mese dopo, la ‘IV bozza’ era già pronta per il consueto giro di pareri presso i gruppi parlamentari, che constatarono senza entusiasmo che il testo proposto era del tutto simile al precedente tranne nel punto inerente gli enti ecclesiastici su cui, almeno parzialmente, vennero offerte alcune proposte risolutive.

Il nuovo documento di carattere ufficioso, che ebbe una diffusione solo informale nei gruppi parlamentari e una circolazione limitata ad alcune riviste specialistiche, non riscosse né favore né approvazione. Si preferì dunque, momentaneamente, non presentare il lavoro in aula e continuare i contatti informativi con i gruppi parlamentari. Si diffuse tuttavia la notizia che, nonostante le difficoltà incontrate da quest’ultima bozza, una soluzione fosse d’altra parte vicina, tanto da destare un certo sospetto nei partiti laici, preoccupati dalla prospettiva di essere messi di fronte al fatto compiuto senza avere più alcuna possibilità di intervento in merito. Inoltre in molti si interrogarono sul perché non si arrivasse alla firma dell’intesa ormai conclusa con i Valdesi60.

I mesi successivi misero in luce quante difficoltà rimanessero ancora da sbrogliare e le parti ripresero a incontrarsi solo tra il 29 e il 31 ottobre 1978 con un importante avvicendamento nel gruppo vaticano: la nomina del cardinal Casaroli alla Segreteria di Stato impose infatti la necessità di riformulare il gruppo, nel quale, a partire dal 22 settembre entrò monsignor Audrys Juozas Backis, allora sottosegretario al Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa, mentre Silvestrini, nel frattempo nominato segretario del Consiglio medesimo, andò di fatto assumendo il ruolo di capo della delegazione61. La commissione Gonella rimase invece composta dagli stessi membri dei mesi precedenti.

Il 18 gennaio 1979 le parti firmarono un verbale congiunto di conclusione ufficiale dei lavori62, al quale seguì il successivo 14 febbraio una lettera scritta dal capo del governo Andreotti alla Commissione italiana, nella quale esprimeva soddisfazione per il lavoro svolto e per la conclusione dei negoziati63. Tale dichiarazione non fu però riconosciuta ufficialmente dal governo e il 29 marzo successivo, durante la presentazione del V governo Andreotti, il presidente del Consiglio non menzionò la conclusione delle trattative con la Santa Sede, ma solo i nuovi e positivi sviluppi da cui la vicenda continuava a essere interessata.

La stretta finale

Il desiderio di chiudere la trattativa cominciò a farsi pressante anche da parte della Santa Sede che, per mezzo del pontefice, invitò in più occasioni, pubbliche e private, a raggiungere nel più breve tempo possibile una conclusione64. Così l’11 marzo 1980, su espresso invito vaticano (una novità rispetto al passato), fu siglata la ‘V bozza’, in tutto simile alla precedente, eccezion fatta per la normativa inerente gli enti ecclesiastici che ritornò a essere più lunga e articolata. Non era stata però abbandonata l’idea di una commissione esterna che entro dodici mesi avrebbe dovuto riformare la materia, punto su cui anche il nuovo presidente del Consiglio, Francesco Cossiga, al pari del predecessore, nutriva numerose riserve.

Entrambe le parti erano dell’opinione che la trattativa fosse giunta ormai al termine; da qui il consiglio di Gonella al capo del governo di evitare nuove discussioni delle bozze in Parlamento fino al momento della ratifica definitiva, opinione sostenuta anche dalla Santa Sede e combattuta come in passato dai partiti laici, timorosi di essere esclusi dalle trattative. Nonostante le numerose interpellanze e interrogazioni presentate da questi ultimi, la ‘V bozza’ non fu mai trasmessa al Parlamento, né da Cossiga, né dal suo successore, Arnaldo Forlani, che pure entrò in possesso del testo nell’aprile del 1981 per mano dello stesso Gonella.

Tante difficoltà per la conclusione finale erano dovute ancora una volta al quadro politico che, come accennato, continuava a vivere momenti di instabilità ulteriormente aggravati dalla perdita di centralità e autorevolezza della Dc. La nascita a fine giugno 1981 del primo governo a guida laica di Spadolini fu quasi una naturale conseguenza di questo affresco politico e sociale, tormentato dai recenti avvenimenti inerenti l’emergenza creata dal terremoto in Irpinia, la scoperta degli elenchi legati alla loggia massonica P2, lo scandalo Ior e il crack del Banco Ambrosiano, l’attentato a Giovanni Paolo II e, infine, il referendum sull’aborto.

In merito alla vicenda di revisione, oltre a questi eventi si devono aggiungere anche altri due fatti: la Commissione governativa venne privata di due componenti importantissimi, Jemolo e Gonella, scomparsi il primo nel maggio del 1981 e il secondo nell’agosto del 1982, e la Corte costituzionale, allora presieduta da Leopoldo Elia, pronunciò due importanti sentenze in merito al matrimonio religioso65.

Questo susseguirsi di eventi comportò un momentaneo congelamento dei rapporti che indussero alla sospensione dei negoziati in attesa di una nuova proposta da parte italiana.

Spadolini, tra i pochissimi politici ad occuparsi con competenza e costanza del problema concordatario, ambiva alla conclusione personale di questo percorso, conferendo un carattere proprio e maggiormente laico alla trattativa che credeva non fosse mai stato sufficientemente perseguito dalla delegazione di Gonella66. La morte che colse due dei tre membri della Commissione fu dunque il giusto pretesto per non effettuare alcuna nomina sostitutiva e anzi per sciogliere il gruppo di lavoro67, successivamente sostituito da una commissione tecnica non bilaterale, istituita presso il dipartimento degli affari legislativi della Presidenza del Consiglio e composta da Vincenzo Caianiello (che ne fu anche il presidente), Pio Ciprotti, Antonio Malintoppi e Francesco Margiotta Broglio. Tale commissione ebbe il compito di riesaminare la ‘V bozza’ e fornire il proprio parere sulle questioni pendenti.

L’esito di questi lavori giunse il 14 maggio 1982, con la consegna al presidente del Consiglio della relazione che rettificava il testo del 1980 introducendo alcune novità di rilievo che sarebbero poi ritornate anche nell’intesa conclusiva. In primo luogo venne rispolverata l’ipotesi del ‘concordato quadro’, in passato già più volte proposto dalla componente laica del Parlamento, composto da una serie di principi fondamentali atti a regolare i problemi di comune interesse con la Chiesa e accompagnati da una serie di intese bilaterali che avrebbero regolamentato le singole questioni, ottemperando così ai contenuti dell’art. 8 della Costituzione.

Il gruppo di Caianiello indicò come possibile oggetto delle intese con la Santa Sede, o meglio ancora con la Cei: gli enti ecclesiastici, l’ora di religione e la conservazione dei beni culturali di interesse religioso68.

Nonostante le novità di rilievo emerse dalla cosiddetta ‘V bozza bis’, Spadolini ritenne non opportuno sottoporre il testo ai gruppi parlamentari e nemmeno giungere al dibattito in Aula. La crisi Ior-Banco Ambrosiano e ciò che ne conseguì posero il governo in tali difficoltà da non essere in grado di concludere né la trattativa né la legislatura. L’esecutivo tornò in mano democristiana, con Amintore Fanfani, il quale decise di ricostituire la delegazione italiana il 18 gennaio 1983, nominandone membri l’ex presidente della Corte costituzionale ed esponente del Psdi Paolo Rossi e l’ecclesiasticista Pietro Gismondi che ne divenne anche il presidente. Nell’aprile successivo la Delegazione presentò la ‘VI bozza’, sostanzialmente uguale alla V, ma tutto si bloccò nuovamente con lo scioglimento anticipato delle camere e il voto del giugno successivo.

Gli accordi di Villa Madama

La pesante sconfitta subita dalla Dc nelle elezioni politiche di fine giugno aprì la strada al governo di Bettino Craxi, insediato il 4 agosto 1983. Il leader socialista decise in primo luogo di accantonare la delegazione rappresentata da Gismondi e la bozza da questi fatta pervenire nell’aprile precedente, attribuendo a sé la trattativa, cui decise di prendere personalmente parte nell’ultima fase. Si avvalse inoltre della competenza di esperti di sua fiducia, tra i quali Gennaro Acquaviva, esponente cattolico del Psi, e Francesco Margiotta Broglio.

Il 1° dicembre il presidente del Consiglio si recò in Vaticano per discutere con Casaroli69 in merito ai principi sui quali era possibile raggiungere un’intesa condivisa tra Parlamento e Chiesa cattolica70, evitò in seguito di presentare ai capigruppo parlamentari una bozza non ancora definita, per il pericolo che il protrarsi di puntigliose discussioni facesse nuovamente arenare la trattativa, il 23 gennaio 1984 si limitò a trasmettere loro solo una ‘nota informativa’ inerente alle linee principali. Tale nota fu di grande importanza perché rese ufficiale la prospettiva di un accordo ‘quadro’ o ‘cornice’ al quale allegare ulteriori protocolli aggiuntivi che avrebbero regolamentato i punti più ostici del Documento.

Il 25 gennaio la discussione approdò al Senato71 dove, per la prima volta dall’inizio della vicenda, un ramo del Parlamento si dichiarò sostanzialmente soddisfatto dell’impostazione data dal governo al testo del negoziato e accordava il proprio assenso alla firma del documento. Su queste basi Craxi riprese le trattative con la Segreteria di Stato, sottoponendo poi il progetto di accordo al Consiglio dei ministri che, il 17 febbraio 1984, lo approvò all’unanimità.

Il giorno successivo, il 18 febbraio 1984, Craxi e Casaroli, a Villa Madama, firmarono il nuovo Concordato tra lo Stato italiano e la Santa Sede. Il documento di modifica sottoscritto da ambo le parti riprese la forma del ‘concordato-quadro’ nel quale furono fissati i punti principali dell’accordo, successivamente integrati da un Protocollo addizionale e da un Atto di nomina della Commissione paritetica italo-vaticana per la riforma della legislazione concordataria in tema di enti e beni ecclesiastici, della quale si trova menzione nello stesso accordo del 1984 al sesto comma dell’art. 7. Il 21 febbraio successivo a Palazzo Chigi venne firmata anche l’intesa con la Tavola valdese72.

Il nuovo testo – vigente tutt’ora – presenta una forma assai più agile rispetto al precedente, nel quale si contano 14 articoli al posto dei 45 precedenti, in linea con la natura dell’accordo-quadro la cui formula andò gradualmente imponendosi73. Dopo l’apertura, in cui si leggono le ragioni storiche che hanno spinto le parti a modificare gli accordi del 1929, si notano subito alcune importanti novità rispetto alla ‘VI bozza’ che possono essere brevemente riassunte negli articoli 1, 7, 9 e 13.

Nell’art. 1 viene elevato a vero e proprio principio cardine dei rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica il dettato conciliare che parla di sana cooperazione tra le due istituzioni, pur sempre nella salvaguardia della rispettiva autonomia e indipendenza dei propri campi d’azione (Gaudium et Spes). Un elemento di innovazione è rappresentato anche dall’art. 7, che regolamenta la complessa questione degli enti ecclesiastici e del loro mantenimento mediante l’otto per mille che, secondo gli accordi presi il 23 febbraio successivo alle firme, venne disciplinata da una commissione paritetica italo-vaticana presieduta da Margiotta-Broglio e monsignor Attilio Nicora, vescovo ausiliare di Milano. La commissione così costituita pervenì a un testo condiviso l’8 agosto 1984, cui vennero apportate le ultime modifiche mediante uno scambio epistolare tra Casaroli e Craxi il 15 novembre successivo. Giunta l’approvazione delle parti contraenti si giunse infine alla ratifica dei protocolli e degli allegati annessi con le leggi 206/85 e 222/85. Infine, tra i più importanti punti innovativi vi furono gli artt. 9 e 13. Il primo garantisce alla Chiesa la possibilità di istituire istituti scolastici di ogni tipologia e grado e di poter liberamente esercitare la professione dell’insegnamento; fu inoltre assicurato il mantenimento dell’ora di religione che però non ha carattere obbligatorio in alcuna scuola di ordine e grado74. Il secondo prevede che ulteriori materie per le quali necessiti la collaborazione tra Chiesa cattolica e Stato possano essere regolate sia con nuovi accordi tra le due parti, sia mediante intese tra le competenti autorità dello Stato e la Conferenza episcopale italiana75. Gli accordi di Villa Madama sono stati ratificati e resi esecutivi con la legge 121/85.

Note

1 R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984), Bologna 2009, pp. 333 segg.

2 G. Sale, Il Vaticano e la Costituzione, Milano 2008, pp. 59 segg.

3 Ibidem, pp. 79-80.

4 G. Petracchi, Russofilia e russofobia: mito e antimito dell’U.R.S.S in Italia (1943-1948), in L’Italia e la politica di potenza in Europa, II, a cura di E. di Nolfo, R.H. Rainero, B. Vigezzi, Settimo Milanese 1990, pp. 655-676.

5 Cfr. l’intervento in P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, V, Torino 1975, p. 506.

6 Cfr. l’intervento di padre R. Lombardi, Una «mano tesa» minacciosa, «La Civiltà cattolica», II, 1945, pp. 147-159. Sulla questione e in particolare sull’intervento di padre Lombardi cfr. P. Melograni, Comunisti e cattolici (Note sulla politica del P.C.I. negli anni 1944-1947), «Passato e presente», I, 1958, pp. 587-614.

7 P. Togliatti, Opere, 1944-1955, a cura di L. Gruppi, V, Roma 1984, cfr. pp. 210-211. Il medesimo passaggio è ripetuto nell’intervento che Togliatti tenne il 25 marzo 1947 all’Assemblea costituente, poco prima delle votazioni sull’art. 7 (5 del progetto) della Costituzione, Ibidem, p. 267.

8 Sull’argomento si veda G. Sale, Il Vaticano, cit.

9 Una prima e breve revisione bilaterale dei testi pattizi venne operata subito dopo la visita di De Nicola in Vaticano, cancellando i residui più evidenti del passato regime monarchico. La pretesa di mantenere questi caratteri passatisti avrebbe infatti potuto creare notevoli problemi in sede costituente; una tale decisione avrebbe posto in evidenza l’incancellabile legame tra il documento e il regime che lo approvò, offrendo il fianco proprio a chi su questo punto voleva fare leva. Cfr. I documenti diplomatici italiani, s.X, 1943-1948, vol. IV 13 luglio 1946-1° febbraio 1947, pp. 443, 642-643, 677-679, 717.

10 A. Melloni, L’utopia come utopia, in G. Dossetti, La ricerca costituente (1945-1952), a cura di A. Melloni, Bologna 1994, pp. 17-30.

11 A colloquio con Dossetti e Lazzati. Intervista di Leopoldo Elia e Pietro Scoppola (19 novembre 1984), Bologna 2003.

12 Su questo passaggio della vicenda cfr. G. Andreotti, 1947. L’anno delle grandi svolte nel diario di un protagonista, Milano 2005, p. 57; M. Rodano, Del mutare dei tempi, I, L’età dell’inconsapevolezza, il tempo della speranza (1921-1948), Roma 2008, pp. 358-359.

13 Sull’argomento i riferimenti bibliografici sono molti, segnalo solo i più noti: L. Elia, Giuseppe Dossetti e l’art. 7 della Costituzione, in La storia, il dialogo, il rispetto della persona. Scritti in onore del Cardinale Achille Silvestrini, a cura di L. Monteferrante, D. Nocilla, Roma 2009, pp.433-451. In particolare per questo passaggio cfr. p. 443; C. Esposito, Costituzione. Legge di revisione della Costituzione e «altre» leggi costituzionali, in Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo, III, Milano 1963, p. 217. Cfr. inoltre il commento di Elia, in A colloquio con Dossetti e Lazzati, cit., pp. 75-76.

14 S. Lariccia, Stato e Chiesa in Italia 1948-1980, Brescia 1981, p. 15.

15 Ibidem. È lo stesso Togliatti a esprimere il proprio dissenso dalla provocatoria proposta di Nenni nel corso di un comitato centrale del Pci riportato nelle pagine de «l’Unità» il 15 dicembre 1949.

16 Sull’argomento cfr. G. Long, Alle origini del pluralismo confessionale. Il dibattito sulla libertà religiosa nell’era della Costituente, Bologna 1990; S. Ferrari, Ripensare la laicità: la sfida del pluralismo religioso, «Civitas», 1, 2006, pp. 145-158.

17 Si veda L. Salvatorelli, R. Pettazzoni, P. Barile, et al., Stato e Chiesa, Atti del VI Convegno Amici del «Mondo» (Roma 1957), a cura di V. Gorresio, Bari 1957.

18 Cfr. la relazione di C. Falconi, Stato e Chiesa, a cura di V. Gorresio, cit., pp. 95-139, la breve descrizione della polemica innescatasi tra Togliatti e la rivista è in S. Lariccia, Stato e Chiesa, a cura di V. Gorresio, cit., pp. 22-23 e il contributo di D. Settembrini, La Chiesa nella politica italiana (1944-1963), Milano 1977, pp. 283-332.

19 Note e Commenti alla sentenza 1° marzo 1958 del Tribunale di Firenze nel processo riguardante il Vescovo di Prato, Città del Vaticano 1958; Processo al vescovo di Prato, a cura di L. Piccardi, Firenze 1958.

20 Ha dell’incredibile ricordare che a metà degli anni Cinquanta in Italia le minoranze religiose non solo venivano ‘tollerate’ ma sopravvivevano in una condizione di vera e propria persecuzione che, citando ancora una volta Settembrini, condusse a una pericolosa discrasia tra il «diritto scritto e quello vissuto». Inoltre la vita di queste ultime era in gran parte regolata dai Regi decreti emessi dal regime tra il 1929 e i 1931. Cfr. S. Lariccia, Diritti civili e fattore religioso, Bologna 1978, p. 51.

21 Sul concilio Vaticano II cfr. Storia del Concilio Vaticano II, 5 voll. che uscì per i tipi del Mulino dal 1995 al 2001 sotto la direzione di Giuseppe Alberigo; G. Alberigo, Transizione epocale. Studi sul Concilio Vaticano II, Bologna 2009. Di questi fenomeni compì inoltre una profonda analisi P. Scoppola, in La «nuova cristianità» perduta, Roma 1985, pp. 111 e segg.

22 Sulla situazione politica e religiosa dell’Italia postconciliare cfr. A. Santagata, Una rassegna storiografica sul dissenso cattolico in Italia, «Cristianesimo nella storia», 1, 2010, pp. 207-241; G. Scirè, La democrazia alla prova. Cattolici, laici nell’Italia repubblicana degli anni Cinquanta e Sessanta, Roma, 2005; M. Cuminetti, Il dissenso cattolico in Italia, Milano 1983; L’altra chiesa in Italia, a cura di A. Nesti, Milano 1970. P. Scoppola, La «nuova cristianità», cit., pp. 114-115.

23 G. Martina, La Chiesa in Italia negli ultimi trent’anni, Roma 1977, pp. 91-194.

24 COGD, p. 614.

25 L’episodio è ricordato da tutti i contributi che hanno trattato la questione della revisione dei Patti. Mi limito qui a segnalare solo F. Margiotta Broglio, Dalla Conciliazione al giubileo 2000, in Roma la città del papa. Vita civile e religiosa dal giubileo di Bonifacio VIII al giubileo di papa Woityla, a cura di L. Fiorani, A. Prosperi, Torino 2000, pp. 1153-1209, G. Spadolini, La Questione del Concordato. Con i documenti inediti della Commissione Gonella, Firenze 1976.

26 Per una consultazione della cronologia, dei discorsi parlamentari e delle successive bozze di revisione del Concordato, cfr. Un accordo di libertà, a cura della Presidenza del Consiglio dei ministri, Roma 1986. Nel caso citato p. 99.

27 Cfr. La revisione del Concordato alla prova, Atti del Convegno nazionale sulla revisione del Concordato, Bologna 1977 (in partic. G. Alberigo, La pace religiosa nell’evoluzione dei tempi e nello sviluppo della vita democratica della Repubblica italiana, pp. 25-42).

28 Si vedano gli interventi di Gonella e Natoli in La revisione del Concordato nelle discussioni parlamentari, I, a cura di P. Ciprotti, A. Talamanca, Milano 1975. Il primo alle pp. 68-89, il secondo alle pp. 94-109.

29 Cfr., ibidem, p. 194 e Insediata da Gava la commissione per la revisione del Concordato, «Il Popolo», 28 febbraio 1969, cit. in Il dibattito sulla questione del Concordato (1965-1976), a cura di E. Testoni, Roma 1976, p. 72.

30 Cfr. G. Alberigo, La pace religiosa cit., p. 34.

31 Cfr. G. Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum (1965-1974), Milano 2007; D. De Vigili, La battaglia sul divorzio. Dalla Costituzione al referendum, Milano 2000.

32 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, 7 aprile 1971, p. 27719.

33 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, 22 luglio 1974, p. 16067.

34 B. Craxi, 20 settembre: una data e un’occasione importante, «Avanti!», 19 settembre 1976.

35 Nel Rapporto di fine missione redatto dall’ambasciatore il 17 novembre 1977 per il ministro degli Esteri Forlani, e prima ancora nella lunga lettera alla moglie Ilde, datata 26 agosto 1976, Pompei descrive con lucidità le tante occasioni perdute da entrambe le parti in causa per una positiva conclusione della vicenda concordataria prima che la Santa Sede avesse la sua «rinnovata Porta Pia» nell’esito referendario del 1974. Al capolinea della sua missione il diplomatico sottolinea con decisione la necessità di una soluzione dovuta al raggiungimento non della «penultima, ma [de]ll’ultima ora», cui segue il personale rammarico per non aver potuto contribuire in modo decisivo a tale auspicata conclusione. «Il mio sentimento personale», scrive in conclusione al suo Rapporto, «è che [la missione] sia un insuccesso nelle cose sostanziali, non essendosi prodotto un diverso e migliore (per ambo le parti) incontro tra lo Stato e la Chiesa». Cfr. G.F. Pompei, Un ambasciatore in Vaticano. Diario 1969-1977, a cura di P. Scoppola, Bologna 1994, pp. 24-29, 444-445, 575-585; in merito all’ipotesi di revisione formulata da Pompei in collaborazione con il monsignor Enrico Bartoletti, cfr. ibidem, pp. 541-559, 561-574.

36 G. Miccoli, Il nuovo Concordato, «Passato e presente», 2, 1984, pp. 3-11.

37 Cfr. XIII Congresso nazionale della Democrazia Cristiana, a cura di DC Spes, Roma, pp. 19-20; R. Orfei, Gli anni di latta, Genova 1998, p. 46.

38 Cfr. A. Giovagnoli, Guido Gonella tra Chiesa e Stato (1969-1982), in Guido Gonella tra Governo, Parlamento e Partito, a cura di G. Bertagna, A. D’Angelo, A. Simoncini, 2 voll., Soveria Mennelli 2007, pp. 509-510.

39 Va considerato che in merito a queste critiche Gonella difese l’operato della Commissione sottolineando che le direttive della mozione parlamentare Ferri-La Malfa-Zaccagnini, con la quale il Parlamento espresse la sua approvazione alla revisione, parlava chiaramente di «riconsiderare talune clausole del Concordato», quelle maggiormente in contrasto con l’evoluzione dei tempi e lo sviluppo della vita democratica nel paese, non il testo nella sua interezza e complessità. Cfr. G. Spadolini, La questione del Concordato, Firenze 1976, pp. V-XXI, pp. 235-236.

40 G. Pompei, Un ambasciatore, cit., p. 456.

41 Lettera di Andreotti al segretario di Stato card. J. Villot (25-10-1976) e risposta di Villot il 27-10-1976, Fondo Gonella, busta 74, fascicolo 65, serie 3.2.5, Archivio dell’Istituto Luigi Sturzo.

42 Lettera finale ad Andreotti (25-11-1976), Fondo Gonella, busta 74, fascicolo 65, serie 3.2.5, Archivio dell’Istituto Luigi Sturzo.

43 Cfr. Discorso pronunciato alla Camera dei Deputati da Andreotti il 25-11-1976, Fondo Gonella, busta 78, fascicolo 83, serie 3.2.5, Archivio dell’Istituto Luigi Sturzo.

44 Andreotti nelle pagine dei suoi diari scrive: «Sono anni che il Parlamento ci invita a concludere, ma al momento della stretta le titubanze riaffiorano. Certe teorie di cattolici, contro i Concordati in genere, non aiutano davvero i laicisti a superare le diffidenze», in G. Andreotti, Diari 1976-1979. Gli anni della solidarietà, Milano 1981, p. 50.

45 L’autunno del Concordato. Chiesa cattolica e Stato in Italia: il dibattito politico (1929-1977), a cura di M. Cordero, Torino 1977, pp. 203-205.

46 Discorso di Andreotti ai capi-gruppo del Senato (22-6-1977), Fondo Gonella, busta 78, fascicolo 84, serie 3.2.5, Archivio dell’Istituto Luigi Sturzo.

47 R. Pertici, Chiesa e Stato, cit., pp. 564-573.

48 C. Cardia, La riforma del Concordato. Dal confessionismo alla laicità dello Stato, Torino 1980, pp. 252-255.

49 A. Riccardi, Vescovi d’Italia. Storie e profili del Novecento, Cinisello Balsamo 2000, p. 181.

50 Cfr. Lettera della Commissione governativa sui risultati della terza bozza al Presidente del Consiglio Andreotti, Fondo Gonella, busta 86, fascicolo 147, serie 3.2.5, Archivio dell’Istituto Luigi Sturzo.

51 B. Craxi, Per un nuovo rapporto, «Avanti!», 20 settembre 1978. Del cambiamento in atto all’interno del Psi ne riportò notizia anche padre Caruso in una nota di «Civiltà Cattolica» nella quale si leggeva: «A nostro avviso, il passo più avanzato, più chiaro e più convincente l’ha realizzato il socialismo dell’on. Craxi, con il taglio deciso e aperto del cordone ombelicale col massimalismo e il leninismo», «Adista», 21-22-23 settembre 1978, pp. 4-5; su questo passaggio cfr. F. Margiotta Broglio, La politica ecclesiastica della Repubblica, «Civitas», 1, 2006, pp. 81-87, 84.

52 Cfr. Pertici, Chiesa e Stato, cit., pp. 573-574; C. Cardia, La riforma del Concordato, cit., pp. 166-168.

53 Il testo della Relazione della Commissione italiana al presidente del Consiglio Giulio Andreotti allegata alla cosiddetta terza bozza recita: «Essa [la Delegazione governativa] ha incontrato nella controparte un atteggiamento comprensivo e un chiaro intento di favorire il raggiungimento di un accordo suscettibile di raccogliere i più vasti consensi, anche se su qualche punto la Delegazione della Santa Sede ha opposto una ferma e spiegabile resistenza a modifiche da essa giudicate non accoglibili, lasciando comprendere di essere giunta al limite delle concessioni ad essa consentite», cfr. C. Cardia, La riforma del Concordato, cit., pp. 252, 252-255.

54 Emendamenti proposti dai gruppi senatoriali, Fondo Gonella, busta 80, fascicolo 119, serie 3.2.5, Archivio dell’Istituto Luigi Sturzo.

55 Atti Parlamentari, Senato della Repubblica, 6 dicembre 1978, p. 15091.

56 Ibidem, p. 15057.

57 Ibidem, p. 15158.

58 G. Spadolini, La revisione del Concordato. Diario di due anni (novembre 1976-dicembre 1978), Firenze 1979, p. 49.

59 G. Giovagnoli, Guido Gonella, cit., p. 518.

60 R. Pertici, Chiesa e Stato, cit., pp. 576-577.

61 C. Cardia, La riforma del Concordato, cit., p. 170.

62 Cfr. Il progetto di modificazioni del Concordato lateranense del 3-12-1979, Fondo Gonella, busta 85, fascicolo 134, serie 3.2.5, Archivio dell’Istituto Luigi Sturzo.

63 Fu un fatto rilevante che il 3 gennaio del 1979 fosse stata firmata la revisione del Concordato tra Spagna e Santa Sede, che archiviava completamente il vecchio testo del 1953, presentando una veste sintetica (sono solo sette articoli più un ottavo che dichiara decaduti alcuni articoli del vecchio testo) che rinviava ad accordi bilaterali e a un protocollo aggiuntivo atto al chiarimento di alcuni punti del testo. Un progetto in tutto simile al concordato quadro proposto anche in Italia. Cfr. R. Pertici, Chiesa e Stato, cit., p. 576.

64 Cfr. Preghiamo perché l’auspicata revisione del Concordato sia portata presto a felice compimento, «L’Osservatore romano», 12-13 febbraio 1979, discorso pronunciato in occasione del cinquantesimo anniversario dei Patti Lateranensi e Presentate al Papa le Credenziali del nuovo ambasciatore italiano, ibidem, 25-26 giugno 1979, discorso pronunciato durante l’incontro con il nuovo ambasciatore italiano presso la Santa Sede.

65 R. Pertici, Chiesa e Stato, cit., p. 579.

66 Il segno dell’‘incompatibilità’ di vedute tra Spadolini e Gonella che si tramutò poi nella ‘presa di distanza’ dall’operato della vecchia Commissione da parte del presidente del Consiglio e nella nomina della Commissione Caianiello è testimoniata anche da alcuni scambi tra Gonella, Spadolini e Silvestrini sempre informato per via indiretta dal primo. Cfr. Colloquio del sen. Gonella con il Presidente Spadolini a Palazzo Chigi (5.2.1982), e Lettera di Gonella a Silvestrini del 8.3.82, Fondo Gonella, busta 87, fascicolo 163, serie 3.2.5, Archivio dell’Istituto Luigi Sturzo.

67 Spadolini voleva tenere per sé la possibilità di trattare con la controparte eliminando gli elementi di mediazione, quali la Commissione italiana.

68 F. Margiotta Broglio, Il negoziato per la revisione del Concordato tra governo e Parlamento, in La grande riforma del Concordato, a cura di G. Acquaviva, Venezia 2006, pp. 53-64; Un accordo di libertà. La revisione del Concordato con la Santa Sede, la riforma della legislazione sugli enti ecclesiastici e i nuovi rapporti con le altre confessioni religiose, a cura della Presidenza del Consiglio dei ministri, Roma 1986, pp. 187-207.

69 La Santa Sede decise in quest’ultima fase di avvalersi anche delle competenze della Cei che nelle ultime settimane intrattenne rapporti costanti tra il suo consiglio permanente, il presidente in carica cardinale Ballestrero, e la Segreteria di Stato. Cfr. R. Pertici, Chiesa e Stato, cit., p. 583 e la nota n. 224 della stessa pagina.

70 F. Margiotta Broglio, Dalla Questione romana al superamento dei Patti lateranensi. Profili dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, in Un accordo di libertà, cit., pp. 47 segg.

71 B. Craxi, Discorsi parlamentari. 1969-1993, a cura di G. Acquaviva, Roma-Bari 2007, pp. 184-205.

72 Un accordo di libertà, cit., pp. 589-617.

73 Sul tema cfr. I. Bolgiani, La Chiesa cattolica in Italia. Normativa pattizia, Milano 2009; per un bilancio dei rapporti prima e dopo la riforma del Concordato cfr. Chiesa e Stato in Italia ieri e oggi, «Civitas», 1, 2006 (nr. monografico); A vent’anni dal Concordato, «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 1, 2004 (nr. monografico).

74 I. Bolgiani, La Chiesa cattolica in Italia, cit.; G. Cimbalo, Scuola pubblica e istruzione religiosa: il Concordato tradito, in A vent’anni dal Concordato, cit., pp. 143-164.

75 In quanto ente ecclesiastico, la Cei acquisì personalità giuridica mediante l’art. 13 della legge 222/85. In caso di disciplinamento di ulteriori materie, ciò permette di coinvolgere nella trattativa i Ministeri competenti (e secondo gli ultimi aggiornamenti legislativi anche le Regioni), per lo Stato, e la Cei (nella persona del suo presidente), per la Santa Sede. Cfr. G. Feliciani, La Conferenza episcopale come soggetto della politica ecclesiastica italiana, in A vent’anni dal Concordato, cit., pp. 249-256.

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