GRAN BRETAGNA

Enciclopedia Italiana - III Appendice (1961)

GRAN BRETAGNA (XVII, p. 667; App. I, p. 685; II, 1, p. 1076)

Lucio GAMBI
Ornella FRANCISCI OSTI
Giovanni MAGNIFICO

BRETAGNA Ad integrazione delle notizie di carattere statistico, economico-finanziario e sociale qui appresso riferite, v., per la parte storico-politica e culturale, inghilterra; britannico, impero; commonwealth of nations, in questa Appendice.

Popolazione. - Il Regno Unito di G.B. e Irlanda del Nord ha tenuto nel 1951 il suo primo censimento del dopoguerra da cui è risultata una popolazione di 50.225.224 ab. Una più recente valutazione (metà del 1957) ha indicato una popolazione di 51.455.000 ab. I dati per contee del censimento 1951 sono nel quadro a pag. seg.: e da questi dati si rileva in primo luogo che dal 1931 (ultimo censimento di anteguerra) al 1951 si è avuto ovunque un incremento, il cui valore medio è di 8,7%. Ma la disparità di questo valore, fra regione e regione, è alquanto rilevante: in Inghilterra - ove l'aumento medio è stato di 9,7% - sia il Midland, come specialmente le contee orientali fra Humber e Tamigi e quelle affacciate verso la Manica, denunziano un incremento che supera di molto la media; invece l'aumento è stato più debole o trascurabile in quelle che i geografi inglesi chiamano Lancastria e Northumbria, e anche nel campo urbano di Londra (5,5%). Nel Galles si può dire poi che l'entità della popolazione è rimasta inalterata e qualcuna delle contee montagnose ha manifestato diminuzioni. In Scozia l'aumento globale è stato di 5,2% ma solo i Lowlands e la regione costiera orientale fra il Forth e il Moray hanno segnato incrementi alquanto più forti della media: per il resto la densità della popolazione si è conservata più o meno simile a venticinque anni fa e le contee montagnose dei monti Cheviot e soprattutto quelle degli altipiani più settentrionali mostrano diminuzioni non lievi. Pure in diminuzione la popolazione delle isole che costeggiano la Scozia, e tra esse in più notevole decremento (-10%) le Shetlands e Lewis. Invece è in ripresa, per quanto non saliente, la popolazione dell'Irlanda settentrionale (2,4%).

In complesso quindi è da segnalare, per buona parte del paese, una rianimazione demografica vivace, grazie a cui gli incrementi della popolazione - dopo un indebolimento fra il primo anteguerra e il 1931 -sono tornati nel recente dopoguerra a eguagliare quelli, rilevanti, degli inizî del secolo (l'incremento naturale è salito da 3,7 per mille nel 1938 a 5 per mille nel 1955-57), e in modo particolare si è avuto l'arresto della diminuzione demografica segnalata dal Galles e dalla Scozia negli anni fra le due guerre.

Ma in questo medesimo periodo ha continuato a svilupparsi con ritmo crescente un fenomeno già iniziato nel primo dopoguerra: cioè lo svuotamento delle aree centrali di Londra, che nel primo dopoguerra si era già manifestato nella zona della City.

Fra il 1931 e il 1951 una quarantina delle divisioni amministrative interne di Londra - cioè buona parte della contea di Londra e qualche quartiere adiacente - hanno visto scendere la loro popolazione in media di 1/4 (la City ha avuto un calo di oltre metà) mentre invece è fortemente aumentato il carico umano delle parti suburbane o periferiche della conurbazione (l'Outer Ring) ove non di rado la popolazione è raddoppiata. In realtà il fenomeno - di per sé comune a ogni conurbazione moderna - è stato appesantito durante la guerra dal grosso moto di evacuazione che i ritorni del dopoguerra non sono riusciti a controbilanciare. E precisamente in questo spopolamento della parte nucleare di Londra è da vedere una fra le molte ragioni dei forti mutamenti demografici nelle contee meridionali. In ogni modo la popolazione della conurbazione londinese, che era di 8.348.000 ab. nel 1951, ha segnato in complesso un aumento di 1,6 o solamente fra il 1931 e il 1951. Un aumento dunque non rilevante. Ma (ad eccezione di Birmingham) poco più forte è stato l'incremento delle altre conurbazioni inglesi nel medesimo periodo.

È da notare che in occasione del censimento 1951 uno speciale Interdepartmental Committee of Social and Economic Research ha dato per la prima volta un riconoscimento ufficiale e una definizione topografica ben precisa delle conurbazioni. Questo Committee ha riconosciuto, dopo Londra, altre cinque conurbazioni, e cioè: quella cosiddetta dei Midlands occidentali (che fa capo a Birmingham, con Smethwich, Dudley, Walsall, Wolverhampton) ove viveva nel 1951 una popolazione di 2.236.700 ab.; quella cosiddetta della Mersey (che fa capo a Liverpool, con Bootle, Birkenhead, Wallasey) che ospitava nel 1951 1.382.250 ab.; quella del Lancashire sud orientale (con centro principale a Manchester e centri secondari a Salford, Oldham, Stockport) con 2.422.000 ab. nel 1951; quella dello Yorkshire occidentale (con Leeds, Bradford, Halifax, ecc.) che contava nel 1951 1.692.000 ab. e infine quella del Tyne (con capo a Newcastle e centri secondarî in Gateshead, South Shields, Sunderland) ove nel 1951 furono censiti 835.000 ab. Inoltre in Scozia è ben riconoscibile un'altra conurbazione con centro a Glasgow e con, per lo meno, 1.082.500 ab.

Uno dei fenomeni topografici più tipici delle conurbazioni negli ultimi trent'anni è stato l'allargamento dei loro impianti urbani a cui hanno contribuito - oltre al costo relativamente basso dei terreni posti intorno agli abitati - anche le nuove esigenze sociali: e le nuove direttive urbanistiche fatte proprie e attirate dall'azione governativa (v. oltre): perciò diverse conurbazioni hanno duplicato la loro superficie, pure dove la popolazione è solo leggermente aumentata. Il risultato di questa dilatazione topografica si è risolto in un più vivace rafforzamento dei legami fra i varî nuclei urbani, ma una sua conseguenza è pure il fatto che i movimenti giornalieri degli operai e degli impiegati, salvo a Londra, non risultano ora molto salienti da e verso le conurbazioni, perché si risolvono in genere interiormente all'area conurbata.

Per le altre principali unità urbane è significativo il fatto che i loro spostamenti demografici mostrano in genere la medesima direzione di quelli che in complesso rivela la regione in cui si trovano: e quindi le città del sud inglese (ad es. Ipswich 104.800, Portsmouth 238.700, Bristol 442.500 ab.) e specialmente quelle dei Midlands (Coventry 267.300 e Nottingham 306.000 ab.) denunziano per lo più un deciso aumento riguardo al censimento 1931; mentre quelle costiere del Galles (per es. Cardiff 243.600 e Swansea 161.300 ab.) indicano aumenti più deboli, e quelle ai margini dei monti Pennini (Sheffield 501.000, Derby 141.300, Stoke-on-Trent 274.000) o sulle pianure orientali (Hull 299.000, Norwich 121.000, Great Yarmouth 51.100 ab.) si trovano in condizioni di stabilità o di lieve decrescenza. Del pari, in Scozia si notano ovunque, nelle principali unità urbane, degli aumenti di popolazione, ma poco vistosi: Edimburgo ha 466.800 ab., Aberdeen 182.700 e Dundee 177.900. E anche Belfast, che pure è stata oggetto di una vivace confluenza umana dalle contee vicine, non aveva, nel 1951, cresciuto di molto la sua popolazione (443.600 ab.). In ogni modo il 45% della popolazione britannica viveva nel 1951 in centri con popolazione di più di 100 mila persone.

Un'altra novità è rivelata dal censimento del 1951: ed è che la popolazione dei distretti agricoli, in continuata diminuzione fino al 1939, dopo questo anno ha segnato un aumento proporzionale, prima per confluenza degli esodi urbani causati dal conflitto, poi per stabile insediamento. Cioè si è portata da 17,7% della popolazione totale nel 1939 a 19,3% nel 1951.

Ma la recente deflessione della popolazione definita nei censimenti come urbana, non significa in verità un rialzo percentuale di popolazione professionalmente agricola; è sempre popolazione urbana, che cioè lavora in città e vive con mentalità urbana, quella che diverse cause spingono fuori dai confini - a volte reali, ma per lo più solo amministrativi - del centro propriamente urbano. Fuori dei confini reali è stata la guerra con le sue distruzioni, a far muovere una parte della popolazione, e poi nel dopoguerra il fenomeno già descritto di sgonfiamento e decongestionamento dei maggiori centri urbani. Fuori dei confini amministrativi, la popolazione è stata incanalata poi da una rivalutazione dei distretti rurali più vicini ai centri, come luogo di dimora stabile, più tranquilla e sana e finanziariamente molto conveniente. Per tali ragioni non si deve quindi credere che la popolazione veramente rurale - quella cioè che lavora nei campi e vive nei villaggi agricoli o in fattorie - sia aumentata: essa anzi è calata da 5,7% nel 1931 a 5% nel 1951, della popolazione globale. Ma questa diminuzione non è, a sua volta, indicativa di un declino della vita agricola in G.B.: piuttosto è segno di aumento della efficienza agricola, perché oggi una produzione agricola razionale e che fa notevole uso di macchine richiede minore numero di braccia.

Pianificazione urbanistica ed edilizia. - Dopo le distruzioni dell'ultima guerra, l'esodo delle popolazioni dalle grandi città - delle quali sin dalla metà dell'Ottocento si sentiva l'insalubrità e ora si era anche sperimentata l'assurdità ai fini della difesa della popolazione in caso di guerra - il progresso delle scienze sociali, hanno spinto i legislatori alla formulazione di leggi che già avevano avuto precedenti agli inizî del secolo (fondazioni di città giardino), ma non sufficientemente organici. Ricordiamo le tappe più importanti di questa legislazione, concreta espressione delle idee politiche e sociologiche del cosiddetto "Welfare state", lo stato assistenziale: i New Towns acts (1946 e 1959) dànno al Ministro per la pianificazione delle città e della campagna (Town and country planning) il potere di considerare alla stessa stregua le zone urbane distrutte dalla guerra e quelle sottosviluppate e in decadenza, nonché quello di costruire città satelliti per la distribuzione di un milione circa di persone dalle aree congestionate e di un adeguato numero di industrie (i due Distribution of industry acts, 1945 e 1950, hanno stabilito il controllo sulla localizzazione delle industrie; i Town and country planning acts, 1947 e 1959, definiscono le questioni economiche risultanti dall'acquisto estensivo di terreni per la costruzione delle nuove città, dal cambiamento di valore delle aree agricole che diventano urbane e dai vincoli che vengono imposti su altre, dando inoltre al ministro la facoltà di acquistare case di valore storico (facoltà integrata dall'Historic buildings and ancient n10numents act, 1953).

Le nuove città vengono realizzate da una "development corporation" nominata dal Ministro of Housing, e dalle autorità locali (per la Scozia dal segretario di stato). Questi organismi, ricevendo il finanziamento dal Tesoro, hanno tutti i poteri: acquistare terreni, progettare e costruire, affittare a privati, affidare a privati la costruzione di edifici e quartieri; ecc.; attività che implicano oltre all'opera di ingegneri, architetti, progettisti, quella di artisti, sociologhi, economisti, ecc.

Nonostante la grave crisi economica del dopoguerra che ha quasi paralizzato ogni attività per qualche anno, sono oggi in costruzione e spesso in via di completamento, quindici città: otto nell'area della grande Londra (per cui il Piano della Grande Londra del 1944 di sir Patrick Abercrombie aveva offerto il primo piano concreto delle città satelliti che poi sarebbe stato ripreso dal New Towns act): Basildon e Garlow nell'Essex; Hemel Hempstead, Stevenage, Hatfield e Welwyn Garden City nel Hertfordshire; Crawley nel Sussex; Bracknell nel Berkshire. Tre in Scozia: per il decentramento di Glasgow: East Kilbride nel Lanarkshire e Cumbernauld nel Dumbartonshire, Glenrothes nel Fife (essenzialmente un nuovo centro in una zona mineraria in espansione). Peterlee e Newton Aycliffe nel Durham, Corby nel Northamptonshire, Cwmbran nel Galles del Sud. Criterio generale per tutte queste nuove città è che siano situate ad almeno 25 miglia dalla metropoli (per quelle fuori della regione di Londra 10 miglia è il minimo), che abbiano un massimo di popolazione da trenta a sessantamila abitanti, che ogni città abbia industrie che ne assicurino una vita indipendente, che siano circondate da una cintura di territorio agricolo dove è proibito costruire. I.a prima città di cui fu iniziata la costruzione fu Stevenage, a 48 km da Londra (la cui Development Corporation, costituita nel dic. 1946, rimase però praticamente inattiva a causa della crisi economica, sino al 1949): la cittadina si sta sviluppando su un'area di 2.468.578 ha con ma popolazione massima di 60.000 ab. (originariamente erano 6.000 circa), con il 28,7% dell'area riservata ad area residenziale, il 7,3% per le industrie, il 5,5% per le scuole, ecc.; sarà completata nel 1965.

Alla fine del giugno 1959 la popolazione totale delle nuove città in Inghilterra e Galles, che a completamento delle città dovrebbe essere di 550.000 ab. aveva raggiunto approssimativamente (stima) i 408.000 ab. (inclusi gli abitanti esistenti nella zona già prima delle nuove costruzioni); 70.346 erano le case completate e 8.717 quelle in costruzione; 358 erano le fabbriche installate e 14 quelle in costruzione; 1.471 i negozî completati e 281 quelli in costruzione; e inoltre scuole (v. oltre), installazioni tecniche (strade, fogne, ospedali, ecc.), centri comunitarî (biblioteche, chiese, ecc.). Nelle nuove città della Scozia, alla stessa epoca, la popolazione, che dovrebbe essere a piani ultimati di 130.000 ab., aveva superato (stima) i 40.500; case completate 9.214 e 2.688 in costruzione, 114 negozî completati e 25 in costruzione.

Il New Towns act aveva provveduto all'accantonamento di 50 milioni di sterline da elargire alle corporazioni per lo sviluppo delle nuove città; leggi successive hanno aumentato il fondo che nel 1959 era stabilito in 400 milioni di sterline.

Pur rinviando alla voce inghilterra: arte, per i criterî e le caratteristiche più strettamente architettoniche cui è informata questa attività edilizia, va qui accennato che nei nuovi quartieri e nelle nuove città, per ragioni di tradizione e di economia si sono conservate le casette indipendenti con giardino proprio, ma quando si è fatto ricorso allo schema ad appartamenti si sono sempre preferite case di pochi piani; i grandi edifici a più piani sono un'eccezione: alternati con volumi più piccoli servono a dare maggior movimento o il più delle volte a richiamare l'attenzione su un edificio per uffci o per riunioni sociali (tanto nelle nuove città che nei nuovi quartieri si cerca di ritornare al centro di quartiere con gli edifici pubblici e sociali più importanti, centro che spesso è riservato ai soli pedoni e che si rifà direttamente all'antica piazza centro della vita cittadina).

La costruzione di nuove città e di nuovi quartieri ha determinato, come è ovvio, la costruzione di nuove scuole, fatto del resto imposto anche dalla estensione della educazione obbligatoria sino ai quindici anni (Education act, 1944), dalla aumentata natalità, dalla distruzione di scuole per opera della guerra: dalla fine della guerra alla fine del 1958 sono state ultîmate circa 5.000 scuole nuove e 800 erano in costruzione. Per il periodo 1960-65 il governo ha stanziato 365 milioni di sterline per la costruzione di nuove scuole; l'Education act del 1959 contempla sussidî sino al 75% per migliorie a scuole private.

Agricoltura e allevamento. - Uno dei fenomeni della vita economica interna inglese che negli anni dopo il 1946 si è manifestato con maggior risalto, è precisamente quello della ridimensione, e si potrebbe quasi dire rovesciamento, della politica agronomica nazionale. Già la crisi del 1930, ma specialmente l'ultima guerra, hanno spinto la Gran Bretagna ad abbandonare l'orientamento (tenuto in questo campo dal 1846 al 1932 per lo meno) di scarso interesse per le produzioni agricole, e a potenziare di nuovo le risorse agricole nazionali. Fu continuata perciò nel dopoguerra in modo sistematico la politica (già intrapresa nel 1932) di aiuti finanziarî all'agricoltura- specialmente nella fornitura di calce per le terre acide e di attrezzatura in macchine - con la conseguenza di aumentare le terre in coltivazione e la produzione dei campi. Oggi la G.B. ha la più forte densità di trattori nel mondo (uno per ogni 15 ha di terre in coltura) e rese in grano di 28 q a ha in media, che si sono mantenute anche quando le superfici coltivate si sono ampliate a suoli meno fertili che quelli di morena fondale e di alluvione, a cui il grano era ristretto prima della guerra. D'altra parte la divulgazione dei trattori è stata favorita pure dalla particolare struttura aziendale britannica, cioè dalle grandi unità aziendali derivate dal fenomeno di enclosure fra i secoli 16° e 18°: grazie a tale struttura la Gran Bretagna non ha avuto bisogno di eseguire riforme di commassazione (come buona parte dei paesi dell'Europa media in questo ultimo dopoguerra) e neanche di modificare fortemente la composizione sociale della sua società agricola.

Malgrado i gravi pesi fiscali, i 3/5 delle terre (e cioè la totalità delle aziende oltre i 50 ha) restano ancor oggi in proprietà di non coltivatori. L'impresa rurale in queste grandi aziende è però svolta oggi specialmente da affittuarî (farmers) che in genere non ambiscono acquistare la proprietà della terra per poter più liberamente cercare il miglior profitto trasferendosi da un'azienda a un'altra. E l'imprenditore di affitti rurali impiega degli operai agricoli: i quali formano ancor oggi i 2/3 della popolazione agricola attiva. Con questo sistema-non intralciato dalle chiusure e dai provincialismi della minuscola e frantumata proprietà contadina- l'industrializzazione della vita agricola è stata più facile e celere.

Questa rianimazione dell'agricoltura non ha puntato propriamente e unicamente sulla dilatazione dei cereali, ma in primo luogo sulla conversione dei prati naturali (la tipica grazing country che copriva prima della guerra per lo meno 2/5 del paese) in superfici di colture a foraggio o a cereali, con larga destinazione ai bestiami. I valori percentuali delle principali destinazioni ricevute dalla superficie, riportati nello specchio seguente per le diverse regioni britanniche e riferiti al 1932 e al 1955, dimostrano chiaramente l'entità di queste ridimensioni agronomiche:

Questi dati giustificano l'aumento rilevante di buona parte delle più divulgate coltivazioni erbacee e da tubero fra l'anteguerra e gli ultimi anni: il frumento è salito da 19.650.000 q come media del periodo 1934-38, a 25.350.000 q come media del periodo 1952-56; l'avena in pari tempo da 19.920.000 q a 26.720.000 q; l'orzo in pari tempo da 9 milioni a 23.950.000 q; le patate da 51.110.000 q a 76 milioni.

Il numero dei bovini è lievemente cresciuto, da 8,8 milioni nel 1938 a 10,6 milioni nel 1950 e a 11 nel 1958. E pure cresciuto (dopo la gran contrazione causata dai consumi di guerra) è il numero dei porcini che da 1,8 milioni - quanti erano nel 1946 - è rimontato nel 1952 alle condizioni di anteguerra (4,7 milioni) e le ha migliorate poi: nel 1958 ha superato i 6 milioni di capi. Particolarmente fiorente è divenuto poi negli ultimi quindici anni l'allevamento dei volatili, con l'aggiunta produzione delle uova, che insieme formano oggi il 12,5% del totale del reddito agricolo nazionale. Più oscillante invece il numero dei lanuti che da 27 milioni di anteguerra era declinato a 20 milioni verso la fine della guerra e a 17 nel 1948 per i rigori invernali dei primi anni postbellici: poi, per le migliorate cure di allevamento (praticate specialmente nel Galles) è risalito via via a 20 milioni nel 1950 e a 24,8 nel 1958.

È da notare inoltre l'incremento manifestato dopo il 1946 da alcune coltivazioni industriali, come per es. la bietola da zucchero nell'Inghilterra sud-orientale, che dà annualmente intorno a 600-630 mila t, da cui si ricava un quarto dello zucchero richiesto dal mercato interno; e il lino specialmente nell'Irlanda settentrionale, ove copre 10-12 mila ha e anima un distretto industriale di importanza notevole (100.000 persone occupate e 170 opifici, per 3/5 raccolti a Belfast). E soprattutto bisogna ricordare lo sviluppo della coltura dei generi orticoli, la cui produzione forma il 6% del totale del reddito nazionale.

Importazione di generi alimentari. - Malgrado un così interessante impulso agricolo, la G.B. rimane un paese fortemente importatore, specialmente di grani e di carni: i primi formano oggi il 6,2% e le seconde il 7,8% del valore medio, in moneta, delle importazioni (1953-57): e ciò, nonostante la diminuzione del consumo pro capite sia delle farine (da 240 once a persona al mese, come media del periodo 1934-38, a 224 once fra il 1955 e il 1957) sia delle carni (da 112,4 a 99,6 once al mese a persona) e del bacon (da 33,3 a 30,5 once al mese a persona). Pure i consumi di pesce sono discretamente calati (da 31,2 a 25,7 once al mese a persona), ma la produzione della pesca ha conservato più o meno i valori di anteguerra (1.100.000 t di pesce nel 1956).

Di contro alle importazioni di generi alimentari, che restano così notevoli (il 31% in valore delle importazioni totali) per quanto si sian già un po' contratte riguardo agli ultimi trenta anni (nel 1921-25 erano il 44% delle importazioni; nel 1930 il 42%; nel 1938 il 40%; nel 1946-48 il 43%), figura negli ultimi quindici anni il peso via via più forte tenuto dalle esportazioni dei manufatti che da una media di 82% sul totale in valore delle esportazioni britanniche nel primo dopoguerra, hanno raggiunto ora (media 1953-57) il 90%.

Produzione carbonifera. - La vendita del carbone formò nel primo dopoguerra il 10% dell'esportazione britannica, mentre ai nostri giorni non è più che il 3%. In sostanza la produzione carbonifera ha risalito faticosamente dopo la guerra - e solo verso il 1948 - la quota di 200 milioni di t per anno e non ha superato negli ultimi anni i 225 milioni: rimane così alla medesima quota della produzione di anteguerra. E questo per diversi motivi, fra cui risaltano in modo particolare il fatto che i giacimenti di carbone britannici sono fra i più razionalmente attrezzati d'Europa (ai nostri giorni più di 4/5 del carbone britannico è estratto e portato in superficie con macchine elettriche) e hanno quindi raggiunto un ritmo di produzione che - nei principali bacini lavorati - non è facile sormontare; e il fatto che nel dopoguerra si è avuta una grossa crisi di mano d'opera, calata da 700 mila minatori (quanti cioè erano occupati negli anni di guerra) a meno di 630 mila fra il 1946 e il 1948.

E fu precisamente questa crisi che ha dovuto fronteggiare per prima cosa il National Coal Board istituito nel 1946 in occasione della nazionalizzazione dei giacimenti di carbone. La più fondata soluzione sperimentata dal National Coal Board fu la riduzione delle giornate di lavoro a cinque giorni per stimolare sia il grado produttivo degli operai, sia il reclutamento delle nuove leve di minatori; più in là (verso il 1950) fu aperta anche l'immigrazione di mano operaia forestiera (in particolare polacchi rifugiati politici e italiani). Ma finora il maggior risultato conseguito è stato quello di rialzare il rendimento di lavoro a persona, che oggi è stimato a una media di 1,25 t di materiale estratto giornalmente da ciascun operaio.

Industria tessile. - Come non lo è più il carbone, non sono più neanche, tra i manufatti, quelli di cotone a sostenere l'efficienza economica britannica, in quanto la crisi del mercato del cotone ha colpito fortemente anche il paese che è stato per lungo tempo al primo posto in tale industria. E oggi la G.B. si è lasciata distanziare alquanto, in questa partita, dagli Stati Uniti, specialmente in fatto di razionalizzazione degli impianti. L'esportazione delle cotonate britanniche in ogni modo si è via via ristretta dal 20% del totale, in valore, nel primo dopoguerra a 15% verso il 1935, a 10% nell'ultimo dopoguerra e a 5% fra il 1953 e il 1957.

Nonostante questa diminuzione di valore sul mercato internazionale, l'industria del cotone conserva però la sua vecchia importanza nella vita economica del paese, e vi anima anche oggi 1/4 del totale dei fusi in funzione sul globo (cioè 24 milioni nel 1958) e metà delle macchine da tessere (240 mila, di cui 46 mila automatiche). In decisa ripresa risulta poi l'industria della lana - la cui materia prima è importata per l'82%: in larga parte dall'Australia e un po' meno dalla Nuova Zelanda e ancor meno dal Sud Africa - specialmente nella manifattura di prodotti di elevata qualità (i fusi sono 4,8 milioni e le macchine da tessere 55 mila di cui 13 mila automatiche). Ma il numero degli addetti a queste lavorazioni non si è più rialzato dopo la crisi del 1930, e anzi è alquanto scemato negli anni del dopoguerra: per il cotone la mano operaia è calata da 325 mila unità nel 1950 a 258 mila nel 1956 e per la lana da 216 mila a 210 mila nei medesimi anni. Tali perdite sono però colmate interiormente al campo dell'industria tessile, con gli aumenti di occupazione in nuovi tipi di lavorazione - come quella del nylon - o in manifatture potenziate dai bisogni del mercato negli ultimi venti anni - come le sete artificiali -: e così per es. il numero degli addetti alle industrie della seta, del rayon del nylon insieme si è duplicato dal 1932 a oggi (nel 1958 era di 101 mila persone).

Industria metallurgica siderurgica e chimica. - Gli oggetti di esportazione sui quali fonda ai nostri giorni la sua ricchezza la G.B., sono i manufatti dell'industria metallurgica. Nel primo dopoguerra essi fornivano sì e no il 22% del totale delle esportazioni, in valore. Ma dopo la crisi del 1930 fu verso di loro che si è rivolta l'iniziativa degli ambienti economici più forti e responsabili del paese: l'iniziativa ha avuto fortuna, e quindi il loro peso sul totale delle esportazioni è salito via via al 42% negli ultimi anni. Non si può di conseguenza comprendere la recente evoluzione dell'indirizzo industriale britannico se non ci si riporta alle soluzioni scelte per fronteggiare la crisi del 1930. La constatazione che la crisi colpiva specialmente le regioni a struttura industriale orientata sulla specializzazione, ad apparecchiature industriali non adeguatamente aggiornate e ad eccessiva congestione industriale, aprì la via a soluzioni di pianificazione regionale, che furono prese da enti locali nel 1934 e dal governo nel 1937 con la istituzione di trading estates, cioè di terreni sui quali delle società industriali potevano impiantarsi, a condizione che ciascuna delle nuove industrie fosse, per destinazione, diversa dalla specializzazione industriale della regione, e diversa da altre industrie locali su cui gravava la crisi. In questo modo, specialmente nella regione di Londra (Eton) con industrie automobilistiche e di elettrodomestici e nel Galles meridionale con numerose acciaierie (la cui importanza si rivelò poi negli anni di guerra) e nella zona di Newcastle con impianti di stoviglierie e di maglifici (stabiliti da israeliti tedeschi che sfuggivano il nazismo) fu iniziata l'opera di pianificazione, che dopo la guerra il governo laburista potenziò fortemente nel 1946 con la organizzazione delle industrie per tipi e branche verticali, e mediante il già ricordato Town and Country Planning act e gli altri provvedimenti per la pianificazione urbanistica (v. sopra).

La conversione economica della G.B. punta perciò sulle manifatture metallurgiche, la cui produzione infatti nel dopoguerra ha segnato i più forti incrementi: la produzione dell'acciaio è salita da 11,7 milioni di t nel 1938 a 14,5 milioni nel 1950 e a 20,6 milioni nel 1956; quella dello zinco da 56 mila t nel 1938 a 71 mila nel 1950 e a 82,2 mila nel 1956; quella degli alluminî da 23,4 mila t nel 1938 a 101 mila t nel 1950 e a 210 mila t nel 1956. Ma sono specialmente aumentate le fabbricazioni di macchine e veicoli: cioè di automobili (860 mila, più 300 mila veicoli commerciali, nel 1958) di biciclette (3,5 milioni, di cui 2/3 esportati) di macchine agricole - con una decina di grossi centri industriali specialmente nel Midland - di costruzioni navali, in misura di 18% sul totale delle costruzioni in ogni parte della Terra (e cioè 420.000 t di naviglio varate nel 1958), di aeroplani (250 mila addetti nel 1958 in circa 200 stabilimenti e una delle più rinomate produzioni internazionali, con esportazioni per un totale di 72 milioni di sterline nel 1956), di macchine e materiale elettrico di ogni genere (530 mila addetti e una esportazione di valore intorno a 120 milioni di sterline nel 1956), di motori di veicoli (520 mila addetti e una esportazione che supera il valore di 250 milioni di sterline).

E' come si vede, in corso una fase di modernizzazione della siderurgia, e insieme un fenomeno di maggior concentrazione industriale nelle regioni meridionali, favorito dalle ricostruzioni del dopoguerra e dalla prossimità di grandi porti a cui giunge il minerale di ferro importato (per un totale, nel 1956, di 10 milioni di t, contro i 6 milioni di t importati in media fra il 1934 e il 1938). Tale incremento e tale adeguazione alle esigenze del mercato odierno della siderurgia e della connessa industria delle costruzioni nel sud, è un motivo per giustificare il maggior dinamismo e il più forte richiamo di mano d'opera (e perciò l'íncremento di popolazione più rilevante) della regione di Londra - ove trovano lavoro nelle industrie 1.200.000 persone e ove dopo la guerra furono impiantati i 415 delle nuove industrie britanniche. Praticamente della grande siderurgia solo quella delle costruzioni navali rimane largamente aggruppata nel nord (la regione del Clyde dà ancor oggi 1/3 e la regione del Tyne 1/6 del tonnellaggio totale, formato specialmente da petroliere, carboniere, tramps, navi-frigoriferi e grandi transatlantici). Ma oltre che sugli estuari settentrionali i grandi cantieri di riparazione navale sono pure su quelli della Mersey (una trentina) e dello Humber (una ventina) e soprattutto nel sud, a Cardiff e intorno (più di 30), fra Southampton, Portsmouth e l'isola di Wight (oiù di 40) e lungo il Tamigi da Londra al mare (più di 20). Del pari scaglionati lungo gli estuarî, i grandi impianti di raffinazione del petrolio, la cui produzione nei quindici anni del dopoguerra è aumentata in misura imponente (da 1,5 milioni di t nel 1946 a per lo meno 25 milioni di t nel 1956) con una decina di grossi impianti che lavorano più di un milione di t annualmente ciascuno (per es. a Grangemouth in Scozia, a Heysham e Stanlow nel Lancashire, a Llandarcy nel Galles meridionale, a Fawley sulla Manica, a Shellhaven e a Isle of Grain nella regione di Londra).

Ma il campo ove la Gran Bretagna ha sopravanzato già ogni nazione della vecchia Europa, è quello dell'industria atomica: in esso il paese figura oggi in prima linea nell'attrezzatura internazionanale insieme con gli S.U.A. e l'URSS. Diversamente dagli S.U.A., ove le fonti di energia abbondano e non v'è premura di giungere allo stadio industriale dello sfruttamento atomico, in Gran Bretagna invece (come del resto nell'URSS) la necessità di aumentare le fonti di energia per animare le industrie crea più impegnativi problemi di rifornimento e si ha urgenza di soluzioni che consentano benefici alla struttura economica nazionale. Di qui (v. la cartina in questa pag.) la formulazione di un vasto piano diretto da una particolare istituzione (l'Atomic Energy Authority) e orientato specialmente verso la produzione di energia elettrica con destinazione industriale. Questo piano ha già visto negli ultimi cinque anni l'inaugurazione di 5 reattori elettronucleari (cioè reattori di potenza: su un totale di 21 nel mondo), l'iniziata costruzione di altri 3 e il previsto impianto di altri 5 (con ubicazione di regola vicina al mare, perché il raffreddamento dei reattori esige grandi quantità di acqua).

Il maggior centro di produzione nucleare è quello di Calder Hall, nel Cumberland, inaugurato nel 1956 (il primo impianto nel mondo a fornire energia elettrica di origine nucleare al pubblico) con 3 reattori della potenza di 48.000 kW ciascuno; un altro centro si trova a Chapel Cross, ai confini meridionali della Scozia (185.000 kW di potenza). La Gran Bretagna ha inoltre varî impianti per la produzione dell'uranio (Solvich, Risley), due grandi impianti per la produzione del plutonio (Aldermaston e Windscale) e il grosso centro di studî nucleari di Harwell con 12 reattori per la produzione di isotopi. Questi materiali radioattivi sono già fortemente usati nell'industria chimica, in modo speciale per produzioni medicali e agricole.

In ogni modo, nei quindici ultimi anni del dopoguerra-e anche da prima della guerra - le industrie chimiche si erano già aperte vasti orizzonti con la scoperta delle sostanze sintetiche: in questo campo i migliori risultati sono stati conseguiti dalle fibre sintetiche (il terilene degli stabilimenti di Guessens, di Welwyn, di Wilton e l'ardil di Dumfries) e dai materiali plastici. Anche queste nuove industrie chimiche si sono stabilite per lo più nell'Inghilterra meridionale, cioè indipendentemente dai bacini carboniferi: e questo svincolamento del vecchio rapporto coi giacimenti di carbone è il maggior motivo della stabilità demografica che negli ultimi trenta anni si è manifestata nelle conurbazioni del centro e del nord.

Conclusioni. - Nella considerazione della struttura economica britannica, bisogna per altro tenere presente in ogni caso che la potenza economica di questo paese non posa solamente sopra le produzioni delle sue industrie e la rete dei suoi traffici, ma anche su una grande e solida armatura finanziaria: alcune grandi società finanziarie inglesi governano molti campi del mercato internaziomle: ad es. il campo del petrolio mediante la British Petrol (diramazione dell'Anglo Iranian) e la Royal Dutch Shell specialmente; il campo dei grassi con la Unilever; il campo delle produzioni chimiche per mezzo della Imperial Chemical Industries (che ha ramificazioni in Canada, Brasile, India, Nuova Zelanda, Africa meridionale). Vale a dire che il Commonwealth è oggi, meno che trenta anni fa, un sistema politico, ma è molto di più un sistema economico, rinforzato da preferenze e favori nei rapporti doganali. Questa particolare condizione spiega il debole rilievo tenuto fino ai nostri giorni da alcune industrie in Gran Bretagna (ad es. quella degli alluminî). E infatti le esportazioni britanniche verso i paesi del Commonwealth sono state negli ultimi anni in media il 52% del totale delle esportazioni nazionali, e le importazioni il 48%. In questo complesso economico del Commonwealth, la funzione della Gran Bretagna non è quindi più - come agli inizî del nostro secolo - quella di potenza carbonifera e di rielaboratrice industriale o anche solo ridistributrice di merci ammassate dalle colonie nei suoi porti. Resta sì l'imponente traffico di Londra (55 milioni di t di merci in media, di cui 42 in arrivo e 12 in partenza negli anni fra il 1954 e il 1958) che però è ora superato in Europa da quello di Rotterdam; e così pure conservano la tradizionale funzione mercantile Liverpool (con un traffico di 15 milioni di t), Southampton, Swansea, ecc. Rimane in piena efficienza la flotta mercantile che sfiora i 20 milioni di t di stazza e disputa il primato internazionale a quella nord-americana, colmando con gli introiti dei suoi servizî il deficit della bilancia commerciale britannica.

Ma la società inglese è oggi in fase di notevole trasformazione: il reclutamento dei minatori e dei pescatori è divenuto via via meno facile e la classe che una volta deteneva le grandi fortune si è a poco a poco ridotta a un più ristretto numero di capitani d'industrie. L'inglese medio oggi mira a un genere di vita elevato si ma fondato su quella più tranquilla e più ragionevole ricchezza che gli affitti di aziende agricole o le medie industrie di lavorazioni metallurgiche gli consentono.

Finanze. - Il problema principale del Regno Unito, durante il periodo 1948-58, è consistito nel promuovere un ritmo più rapido di aumento della produzione e del reddito, frenando allo stesso tempo persistenti pressioni inflazionistiche e salvaguardando l'equilibrio della bilancia dei pagamenti. Infatti, fra il 1948 e il 1959, il prodotto nazionale lordo in termini monetarî si è quasi raddoppiato (da 11,9 a 23,6 miliardi di sterline), mentre in termini reali, ossia tenuto conto delle variazioni dei prezzi, l'incremento è stato soltanto del 31% (ai prezzi del 1954, da 15,i a 19,8 miliardi di sterline). In altri termini, il tasso annuo di incremento del prodotto nazionale lordo è stato in media del 2,5% circa: un tasso poco elevato rispetto a quello di altri paesi industrializzati europei ed extra europei, il quale inoltre è il risultato di due periodi espansionistici (1948-50 e 1953-56) alternatisi a due periodi di ristagno (1951-52 e 1957-58). Tenuto conto del fatto che le forze di lavoro sono cresciute durante il periodo in misura modesta (6% circa) e che la disoccupazione si è mantenuta a un livello molto basso (in media 2% delle forze di lavoro, contro il 14% nel periodo fra le due guerre mondiali), si può concludere che l'incremento del prodotto nazionale lordo è il risultato in massima parte dell'aumento della produttività e che il volume degli investimenti, dal quale soprattutto quest'ultima dipende, ha costituito il principale elemento condizionatore dell'espansione produttiva.

In termini reali, la formazione lorda di capitale fisso è cresciuta in misura cospicua (68%) e più che proporzionalmente rispetto al prodotto nazionale lordo del quale nel 1959 rappresentava il 18% (contro il 14% nel 1948). Ma, come risulta anche da uno studio effettuato per conto dell'O.E.C.E. dall'economista Milton Gilbert (Comparative national products and price levels, Parigi 1958) tale percentuale è notevolmente più bassa di quella della maggior parte degli altri paesi industriali d'Europa. Tale circostanza nel Regno Unito sembra potersi ascrivere all'insufficienza della quota di reddito risparmiata, nonché a taluni provvedimenti ufficiali, che in più riprese è stato necessario adottare, allo scopo di contenere le pressioni inflazionistiche derivanti: a) dal finanziamento di un volume di investimenti superiore a quello consentito dall'offerta corrente di risparmio volontario; b) in via più generale, dall'eccesso della domanda globale sull'offerta di beni e servizî.

Per quanto riguarda il risparmio delle persone negli anni dal 1948 al 1951, solo il 2% del reddito personale disponibile in media fu risparmiato. Tale percentuale è costantemente aumentata (1959: 9%), onde il risparmio personale è venuto a rappresentare una percentuale crescente nel totale del finanziamento degli investimenti e ha favorito uno sviluppo meno lento di questi ultimi a partire dal 1953. Sono stati pertanto il risparmio delle società e quello del settore pubblico (dello stato, degli enti locali e delle imprese di stato) che hanno assicurato in massima parte, specialmente nei primi anni del periodo in rassegna, il finanziamento degli investimenti. Per quanto riguarda in particolare il settore pubblico, che ha realizzato un volume di investimenti relativamente molto elevato (1948: 46% del totale; 1953: 55%; 1959: 43%), risulta che, mentre fino al 1950 le risorse interne del settore (principalmente, avanzo del bilancio statale ordinario e ammortamenti delle industrie nazionalizzate) sono state più che sufficienti a finanziare gli investimenti realizzati dal medesimo, a partire dall'anno successivo la situazione si è rovesciata, il risparmio effettuato all'interno di tale settore avendo registrato un saldo netto negativo in ciascuno degli anni 1952-58.

Il basso livello del risparmio complessivo ha rappresentato la contropartita del forte incremento della spesa di consumo: a) sia da parte dei privati, una volta che furono abrogati i controlli amministrativi introdotti durante la guerra e mantenuti ancora per parecchi anni dopo la sua cessazione; b) sia da parte del settore pubblico, dato l'imponente sviluppo dell'assistenza e dei servizî sociali in questo dopoguerra, nonché delle spese militari per il riarmo a partire dal 1950. Quindi, si è creato un circolo vizioso in cui l'insufficiente volume di investimenti, conseguente alla scarsezza di risparmio, ha impedito un pronto adeguamento della offerta all'espansione della domanda globale dovuta all'alto livello dei consumi privati e pubblici; mentre la necessità di comprimere il più possibile l'eccesso della domanda sull'offerta ha, più volte, indotto a frenare l'incremento anche degli investimenti.

Lo sbilancio fra l'offerta e la domanda globale è stato la causa di gran lunga più importante dell'aumento registrato nell'indice del costo della vita. Tale aumento si è concentrato fra il 1950 e il 1952 (+ 20%), ma la tendenza ascendente è continuata ininterrottamente fino al 1959. A tale rialzo hanno contribuito anche altri fattori, fra cui l'aumento dei prezzi all'importazione. Ma, in questo dopoguerra, i prezzi all'importazione sono saliti fortemente solo nel 1946-48 e nel 1950-51; dal 1952 è prevalsa invece la tendenza opposta, la quale ha contribuito a contenere l'aumento dell'indice generale dei prezzi entro limiti più modesti. Infine la graduale riduzione dei sussidî e dei controlli amministrativi, riguardanti soprattutto i generi alimentari, ha esercitato successivamente un'influenza similare a quella dell'aumento dei prezzi all'importazione. Ma, nel complesso, l'effetto di tali fattori essendo stato di secondaria importanza, è al menzionato eccesso della domanda che deve attribuirsi in massima parte il rialzo dei prezzi, ossia l'aumento dei redditi monetarî in misura proporzionalmente assai maggiore dell'incremento del reddito reale. L'aumento dei redditi monetari si è diviso in misura diversa fra maggiori salarî e stipendî, maggiori profitti d'impresa, maggiori imposte indirette e, per la parte loro spettante, maggiori pagamenti per le merci e i servizî importati. In particolare, i redditi da lavoro dipendente (civile e militare) si sono quasi raddoppiati, assorbendo la quota maggiore dell'incremento complessivo. Ciò si spiega tenendo presente la circostanza che già in partenza i salarî occupavano una posizione preponderante nella formazione del prodotto nazionale lordo e che la prevalente situazione di piena occupazione (nel 1951 e nel 1955 il numero dei posti di lavoro vacanti ammontava al doppio dei disoccupati registrati presso gli Uffici del lavoro) ha permesso ai redditi da lavoro dipendente di migliorare la propria posizione relativamente alle altre componenti del prodotto nazionale lordo.

L'espansione eccessiva della domanda globale e la conseguente attivazione della spirale prezzi-salarî (fino al 1953 l'indice del costo della vita e quello dei salarî hanno registrato aumenti della medesima ampiezza; successivamente il tasso di aumento di quest'ultimo è stato maggiore) è stata assecondata dalla forte liquidità in cui si è trovata l'economia del Regno Unito all'indomani del secondo conflitto mondiale. Nel 1948 i mezzi di pagamento (moneta in circolazione e conti correnti bancarî) ammontavano a ben il 43% del prodotto nazionale lordo; successivamente, tale percentuale è scesa in misura notevole (1959: 25% circa) per effetto dell'aumento del prodotto nazionale lordo in termini monetarî e, in parte minore, del suo aumento in termini reali. Infatti, l'ammontare assoluto dei mezzi di pagamento ha continuato ad aumentare, malgrado i provvedimenti restrittivi ripetutamente presi dalle autorità.

Il compito di contenere le persistenti pressioni inflazionistiche è spettato soprattutto agli strumenti monetarî, almeno a partire dalla fine del 1951, epoca alla quale si fa generalmente risalire il cosiddetto "risveglio" della politica monetaria. Infatti, nei precedenti tre-quattro anni, data la forzata inazione degli strumenti monetarî (il saggio di sconto ufficiale fu mantenuto immutato allo stesso livello del 2 per cento al quale si trovava dal giugno 1932, mentre il saggio di sconto sui Treasury bills fu fissato allo 0,50%), la politica antinflazionistica fu perseguita mantenendo in vita i controlli amministrativi che erano stati introdotti durante il periodo bellico e, talvolta, rafforzandoli; nonché manovrando la leva fiscale (nei bilanci dello stato per il 1948-49, 1949-50 e 1950-51, l'avanzo delle entrate sulle spese ordinarie superò il disavanzo registrato in conto capitale).

Successivamente, mentre i controlli diretti sono stati gradualmente smantellati e la politica fiscale ha assunto un ruolo meno impegnativo dal punto di vista della lotta all'inflazione, la politica monetaria ha occupato il ruolo principale. Nel novembre 1951, in coincidenza con il ritorno al potere del partito conservatore, fu posto fine alla politica di denaro a buon mercato, elevando il saggio di sconto dal 2 al 2,5% e quindi (marzo 1952) al 4%. L'importanza di queste prime variazioni del saggio ufficiale non va valutata in base agli effetti concreti che vi si possono attribuire; ché, più efficaci dal punto di vista della politica disinflazionistica furono il rinnovato ricorso ai controlli diretti del credito e le operazioni di consolidamento del debito pubblico. Invero, le menzionate variazioni non potevano avere più di una generica efficacia psicologica, a causa fra l'altro delle imperfezioni accumulatesi durante il ventennio 1932-51 nella formazione e nel livello relativo dei varî saggi. D'altra parte, esse ebbero un ìmportante significato simbolico in quanto, oltre ad avviare il processo dì eliminazione progressivo delle dette imperfezioni, in funzione del ripristino della flessibilità nell'uso degli strumenti monetarî ortodossi (principalmente, saggio di sconto ufficiale), inaugurarono una nuova fase della politica monetaria, durante la quale il denaro è in media costato più caro e, talvolta, è stato anche scarso. A parte la parentesi 1953-54 allorché in coincidenza con un sensibile rallentamento della congiuntura il saggio ufficiale di sconto fu ridotto in due riprese al 3% (e la pressione fiscale fu alleggerita), tale saggio è stato gradualmente aumentato, finché ha raggiunto nell'autunno 1957 il livello più elevato degli ultimi 40 anni. Infatti, nel settembre 1957, per fronteggiare la crisi valutaria determinata da una forte speculazione internazionale contro la sterlina, che era alimentata dal riapparire di tensioni notevoli nel settore dei prezzi e della occupazione, nonché da voci di un nuovo allineamento dei tassi di cambio in Europa, il saggio di sconto ufficiale fu aumentato drasticamente, dal 5 al 7%. Inoltre, fu emanata la "richiesta" ufficiale di contenere i prestiti bancarî entro il livello toccato nei precedenti 12 mesi; furono ridotti i programmi di investimenti pubblici e furono introdotte nuove restrizioni sui crediti a operatori esteri. Quale che sia stata l'influenza effettiva di tali provvedimenti sugli sviluppi successivi della situazione, è un fatto che tra fine settembre 1957 e fine marzo 1958, le riserve valutarie registrarono un incremento di oltre 900 milioni di dollari. All'interno, il mutamento della tendenza si rifletté in una diminuzione del 5% dei prestiti bancarî durante l'ultimo trimestre del 1957 e nella manifestazione dei primi sintomi di recessione: contrazione della produzione industriale, più basso livello dell'occupazione, ecc. In considerazione di tale mutamento e del divario che nel frattempo si era creato fra i saggi del mercato monetario inglese e quelli prevalenti negli Stati Uniti e in altri importanti centri finanziarî, il saggio di sconto ufficiale fu ridotto ripetutamente, finché toccò il 4% nel novembre 1958.

Ai fini di una valutazione complessiva dell'esperienza monetaria inglese nel decennio trascorso, occorre tener presente che, sebbene l'espansione dei mezzi di pagamento sia stata contenuta entro limiti modesti, un forte aumento della velocità di circolazione della moneta bancaria e una liquidità rimasta comunque alta, in termini assoluti, hanno costituito una remora al raggiungimento dell'obiettivo assegnato alla politica monetaria. La fonte della liquidità è stata costituita dall'eccessivo ammontare di Treasury bills e di titoli di stato a medio termine in circolazione, dato che in questo dopoguerra le finanze pubbliche per la prima volta in tempo di pace sono state mutuatarie nette di fondi (una novità nella storia finanziaria del Regno Unito) e la politica di consolidamento del debito non è stata perseguita a fondo per il timore di un accentuato aumento dei saggi. I Treasury bills essendo inclusi nel computo del rapporto di liquidità del 30%, che le banche commerciali osservano per una convenzione ormai generalmente accettata, hanno fornito la base dell'alto livello dei depositi bancarî; mentre i titoli a medio termine nel portafoglio delle banche hanno permesso a queste ultime, allorché si era riuscito ad abbassare al livello critico il rapporto di liquidità, di vendere investimenti senza perdite apprezzabili, onde continuare a soddisfare la domanda di prestiti.

Inoltre, la politica monetaria e quella fiscale non sempre sono state manovrate con coerenza. Per esempio, nel 1955 gli effetti restrittivi dei drastici provvedimenti monetarî adottati furono più che compensati dagli alleggerimenti fiscali che erano stati concessi con il bilancio presentato nell'aprile. Poiché le "risorse di una politica monetaria flessibile" non furono in grado di frenare le pressioni inflazionistiche, fu alla fine inevitabile rettificare la manovra fiscale con la presentazione di un "bilancio supplementare di autunno" che aumentava di nuovo la tassazione. D'altra parte, nella misura in cui la politica creditizia - e quella fiscale - restrittiva ha avuto successo, essa ha colpito più severamente i settori più dinamici dell'economia, ossia quelli che essendo in fase di rapida espansione fanno maggiormente ricorso al credito per finanziare gli investimenti. È noto che fino al 1952-53, l'attività di investimento fu mortificata dall'effetto delle misure monetarie adottate, nonché dei varî controlli amministrativi del credito, incluso quello esercitato dal Capital Issues Committee sulle emissioni di capitale da parte delle società. Allo stesso effetto mirarono i bilanci dello stato presentati nel 1951 e nel 1952, il bilancio supplementare del 1955, nonché quello presentato nel 1956.

Infine, la pressione della domanda avendo più di una volta reso necessaria l'adozione di severe misure restrittive, il progresso dell'attività economica è stato alquanto irregolare. Il risultato è stato che durante i periodi di forzato rallentamento, alternatisi a quelli di eccessiva espansione, anche la produttività è diminuita nelle imprese e nei settori industriali che non hanno potuto funzionare alla capacità "ottima", data l'improvvisa flessione della domanda dei loro prodotti. Pertanto, ciò ha costituito, accanto alla carenza dell'attività di investimento, un'altra causa del lento sviluppo del reddito reale.

L'inflazione prevalsa all'interno si è naturalmente riflessa nelle transazioni con l'estero. Il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti ha registrato spesso fluttuazioni amplissime da un anno all'altro, e nel complesso le esportazioni di beni e di servizî non sono state sufficienti a: a) coprire la spesa per l'importazione della metà dei generi alimentari consumati nel Regno Unito e della quasi totalità delle materie prime necessarie all'industria (una notevole eccezione è il carbone); b) finanziare le spese militari all'estero; c) alimentare un notevole flusso di capitale a lungo termine nei paesi del Commonwealth; d) incrementare la consistenza delle riserve valutarie. Infatti, negli anni 1948-52, il saldo netto delle partite correnti fu nel complesso negativo (- 77 milioni di sterline); nello stesso periodo, il Regno Unito ricevette dagli S.U.A. un finanziamento complessivo di 2,7 miliardi di dollari nella forma di aiuti Marshall. Successivamente, il saldo è stato sempre positivo, tranne che nel 1955; gli ulteriori aiuti americani sono ammontati a 1,2 miliardi di dollari e sono stati concessi nell'ambito dell'U.S. Mutual Defense Assitance Program e del Mutual Security Program.

Peraltro, le riserve valutarie, pur essendo aumentate rispetto al livello molto basso toccato nel 1952, alla fine del 1959 non avevano ancora raggiunto un livello soddisfacente. Tenuto conto del fatto che la sterlina funge, insieme con il dollaro, da valuta di riserva (metà del commercio internazionale si svolge in sterline; attività in sterline per circa 3,5 miliardi sono detenute all'estero, in massima parte da paesi dell'area della sterlina), la consistenza delle riserve valutarie durante il periodo esaminato è stata nettamente inadeguata e spesso ha influito negativamente sulla stessa situazione interna. Infatti, ogni volta che le riserve hanno registrato una certa variazione negativa, si è resa necessaria l'applicazione di provvedimenti restrittivi dell'attività economica, anche quando l'andamento di questa ultima avrebbe postulato invece un'azione di stimolo.

Il recente ripristino di un certo grado di stabilità finanziaria all'interno, la parziale ricostituzione delle riserve valutarie e il sensibile miglioramento realizzato nella distribuzione mondiale dei mezzi di pagamento internazionali, conseguente alla scomparsa della "penuria di dollari" strutturale di questo dopoguerra, hanno permesso il ritorno alla convertibilità della sterlina (29 dicembre 1958), seppure limitata ai pagamenti fra non-residenti dell'area (convertibilità esterna). La parità ufficiale con l'oro e con il dollaro U.S.A. è rimasta quella stessa che fu fissata nel settembre 1949 a seguito dell'ultima svalutazione della sterlina, rispettivamente in 2,48828 grammi di fino e $ 2,80. I cambî di mercato possono variare entro i limiti ufficiali di $ 2,82 e $ 2,78; per la maggior parte delle altre valute europee, i limiti di oscillazione sono fissati a 1,5% in più e in meno della parità.

La progressiva abolizione dei controlli sulle transazioni con l'estero ha reso possibile il raggiungimento di altri importanti traguardi, fra cui la riapertura delle borse merci, le quali nel Regno Unito svolgono attività internazionale. A partire dal dicembre 1951, è stato gradualmente riattivato il mercato dei cambî esteri, mentre il mercato londinese dell'oro ha ricominciato a funzionare nel marzo 1954. Quest'ultimo, inizialmente mortificato dai controlli valutarî, è andato progressivamente sviluppandosi e, con l'ulteriore impulso ricevuto dal ripristino della convertibilità, ha riconquistato la posizione di preminenza che aveva nell'anteguerra.

Per quanto riguarda le istituzioni creditizie, l'esercizio del credito commerciale è accentrato presso le undici clearing banks londinesi, le cinque banche scozzesi e le tre banche nord-irlandesi, che sono membri della British Bankers' Association. Nel complesso, esse dispongono di circa 13.000 filiali; le loro attività ammontano a oltre S-116??? 8 miliardi. Il frequente ricorso fatto dalle autorità monetarie durante e dopo la guerra (almeno fino al settembre 1957) alle misure amministrative di controllo del credito bancario è stato una delle cause principali del declino nella posizione delle banche commerciali rispetto ad altre istituzioni creditizie. In particolare, si sono avvantaggiate le società per il finanziamento degli acquisti a rate (Hire-Purchase Finance Houses); d'altra parte, le banche commerciali, allo scopo di partecipare ai benefici della loro forte espansione, hanno recentemente assunto partecipazioni nel capitale delle principali società in questione. Ciò è stato reso possibile, fra l'altro, dalla serie di provvedimenti miranti a liberalizzare il controllo del credito, adottati nel luglio 1958 (un'altra iniziativa presa dalle banche, dopo l'adozione di tali provvedimenti, è stata l'introduzione del nuovo servizio di prestiti personali, senza garanzia reale).

Il ritorno alla proprietà privata, nel 1953, dell'industria siderurgica, che era stata nazionalizzata con lo Iron and Steel act del 1949, è un altro evento saliente occorso nell'ultimo decennio; anche i trasporti di merci su strada a lunga distanza, nazionalizzati nel 1947, sono stati riprivatizzati nel 1953.

Bibl.: Tra i rapporti e le statistiche ufficiali cfr.: Economic Survey, presentato annualmente (dal 1947) al Parlamento dal Cancelliere dello Scacchiere; Financial Statement (annuale); National Debt (annuale); United Kingdom Balance of payments (annuale); Economic implications of full employment, a cura del H.M.S.O., 1956; i rapporti del Council on prices, productivity and incomes (dal febbraio 1958), e quello del Committee on the working of the monetary system, 1959 (Rapporto Radcliffe); Britain: An official handbook, pubblicato annualmente dal Central Office of Information; National income and expenditure of the United Kingdom (Blue Book), pubblicato annualmente dal Central Statistical Office; Annual Abstract of Statistics; Monthly Digest of Statistics; Economic Trends (mensile).

Altre opere: A. M. De Neuman, The economic aspects of nationalization in G.B., Cambridge 1952; B. W. Lewis, British planning and nationalization, New York 1952; G.D.N. Worswick e altri, The British economy 1945-50; Oxford 1952; J.M. Drummond, The finance of local government, Londra 1952; C. F. Carterie A. D. Roy, British economic statistics, Cambridge 1954; U.K. Hicks, British public finances, Oxford 1954; A.J. Brown, The great inflation 1939-51, Oxford 1955; E. Nevin, The mechanism of cheap money, Cardiff 1955; F.W. Paish, Business finance, Londra 1957; R.S. Sayers, Central banking after Bagehot, Oxford 1957; R. F. Harrod, Policy against inflation, Londra 1958; id., The pound sterling, 1951-58, in Essays in international finance, Princeton 1958; J. E. Meade, The control of inflation, Cambridge 1958; W. M. Dacey, The British banking mechanism, Londra 1958; L. Dudley Stamp e S. H. Beaver, The British isles: a geographic and economic survey, 4ª ed., Londra 1958; C. Trent, The changing face of England, Londra 1958; H. R. Schubert, British iron and steel industry, Londra 1958; A. Shonfield, British economic policy since the war, Londra 1958; R. Kelf-Cohen, Nationalization in Britain. The end of a dogma, Londra 1958; H. Britain, The British budgetary system, Londra 1959; T. W. Freeman, The conurbations of Great Britain, Manchester 1959.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

TAG

Indice generale dei prezzi

Commonwealth of nations

Industria metallurgica

Bilancia dei pagamenti

Industria siderurgica