COMANINI, Gregorio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 27 (1982)

COMANINI, Gregorio

Marina Coccia

Nacque a Mantova verso la metà del sec. XVI. Sulla sua vita si hanno poche notizie; mentre è ampiamente menzionata dai critici del sec. XVII e del successivo la sua attività letteraria. Fu canonico lateranense e personaggio di vivace e ampia cultura quale era quella settentrionale a cui apparteneva (anche un fratello è ricordato come letterato e poeta: Faccioli, 1962). Annoverava tra i suoi amici il Lomazzo, Torquato Tasso e Giacomo Mazzoni, dai quali derivò gli elementi più avanzati del suo pensiero. Classificato tra gli imitatori del Marino, la sua formazione manierista lo portò a comporre liriche che si articolano intorno al piacere del "gioco" descrittivo-simbolico. Che fosse in rapporto con la corte dei Gonzaga è provato dal Trionfo del Mincio, scritto per le "nozze de' Serenissimi Signori, il Sig. Principe di Mantova e Monferrato e la Signora Principessa di Parma e Piacenza", ed edito a Mantova nel 1581; e dall'Orazione in morte di Guglielmo, duca di Mantova, edita anch'essa a Mantova nel 1587. Le altre sue opere conosciute sono: De gli affetti della mistica teologia tratti dalla Cantica, Venezia 1590; Orazione a papa Gregorio XIV nella di lui assunzione al pontificato, Milano 1591; Canzoniere spirituale, morale e d'onore, Mantova 1609.

Il suo lavoro di maggior interesse è però il trattato Il Figino, overo del Fine della pittura, pubblicato a Mantova nel 1591 (riedito ora in P. Barocchi, Trattati d'arte del 500tra manierismo e controriforma, III, Bari 1962, pp. 237-379), che si pone come un tentativo di rivalutazione della pittura rispetto alla poesia, la quale, meno esposta alle regole dei dettami controriformisti, aveva potuto mantenere una maggiore autonomia espressiva.

Il C. tenta anche attraverso quest'opera una mediazione tra le varie correnti di pensiero della cultura dell'epoca, trasformate in rigide regole nei trattati contemporanei; quest'intenzione è annunciata già dalla struttura dell'opera composta in forma di dialogo, sostenuto da tre personaggi rappresentanti "categorie" e posizioni culturali differenti: un poeta, Stefano Guazzo, portavoce della cultura laica; un ecclesiastico, don Ascanio Martinengo, sostenitore delle tesi controriformiste; un pittore, Ambrogio Figino, rappresentante della corrente moderata sostenuta dal C., nella quale trovano composizione le posizioni opposte degli altri due interlocutori.

Il primo argomento preso in esame è quello del fine della pittura, che il poeta Guazzo identifica col diletto e il teologo don Martinengo con l'utile. Il primo espone la propria tesi dividendo le arti, secondo la classificazione platonica, in "usanti" (quelle cioè che si valgono soltanto degli strumenti), "operanti" (che apprestano gli strumenti delle altre arti) e "imitanti" (che imitano ciò che è costruito dalle arti operanti). Prosegue quindi riaffermando che la pittura è imitazione; e l'imitazione, secondo il concetto aristotelico, procura il piacere di ammirare immagini a tal modo ben dipinte da sembrare vere. All'imitazione è legato anche il gioco che il Guazzo considera come imitazione metaforica di eventi naturali e artificiali, come ad esempio la guerra, i segni dello zodiaco, ecc., e il cui scopo è quello di recare un diletto. E se la pittura è imitazione e gioco, ed entrambi hanno come fine il diletto, il poeta conclude che il diletto è anche il fine della pittura.

A queste conclusioni il C. contrappone le argomentazioni del Martinengo tese a dimostrare che il fine dell'arte è l'utile, in quanto essa assolve ad una funzione sociale, che è quella dell'ammaestramento degli incolti attraverso le storie dipinte. Ma questo fine utilitaristico non viene da lui interpretato nel senso delle rigide limitazioni controriformiste alla libertà dell'artista dettate dal Paleotti, dal Gilio o dal Molano, bensì è sottoposto ad un prudente moralismo, che consente larghe concessioni nei confronti di quelle limitazioni.

Anche per il Martinengo l'arte è imitazione, ma è imitazione guidata dalla "morale filosofia" attraverso la quale si raggiunge l'utile della pittura; identificata con la morale cristiana, essa consente infatti la produzione di immagini a fini edificanti.

In accordo con il Paleotti si invocano perciò immagini sottoposte al solito "decoro", che siano aderenti alla fedeltà storica delle scritture. La tesi esclusiva dell'utile come fine viene però parzialmente modificata anche dal Martinengo, che ammette che esso possa essere raggiunto anche attraverso il diletto, come nel caso di immagini ben imitate e comprensibili poiché, secondo un concetto aristotelico (Averroè, Metafisica, l. XII), più una cosa si comprende e maggiore è il diletto che se ne riceve.

Ma la grande importanza del trattato del C. consiste soprattutto nell'affermazione della autonomia inventiva dell'artista, che può raggiungere una dichiarata libertà compositiva attraverso la sua "virtù fantastica" esplicata ricorrendo al "meraviglioso", come nel caso del pittore G. Arcimboldi che componeva fantastici ritratti o rappresentazioni allegoriche con elementi naturali perfettamente imitanti la realtà, quali fiori, frutti, animali.

Secondo il C. questa virtù fantastica si applica all'imitazione, che egli, riprendendo una divisione affermata nel Sofista da Platone, distingue in "icastica" (forma reale, in rapporto alle cose che sono in natura) e "fantastica" (forma immaginaria, invenzione dell'intelletto del pittore).

Di queste due forme d'imitazione, che erano già state esaminate dal Lomazzo e dal Tasso, il C. sembra da prima ritenere più idonea per il pittore quella icastica, specie nella pittura sacra, dove deve essere rispettata la verità storica, il decoro, la misura. L'imitazione icastica è poi ritenuta più ardua della fantastica essendo più difficile imitare una cosa vera piuttosto che "dipingere una cosa senza l'obbligo del Naturale" (pp. 285 s.). Questa apparente supremazia dell'icasticità viene però continuamente ridimensionata dal C. con tutta una serie di deroghe ai suoi postulati, come nel caso della fedeltà storica, che però non esclude l'aggiunta di fatti inventati dal pittore, purché appaiano probabili, proprio per il completamento della storia stessa; c'è poi la valutazione, lasciata all'artista, tra le parti essenziali e quelle non essenziali di una storia; la possibilità dell'abbellimento di un'opera mediante "capricci", consentiti dall'uso del meraviglioso; è consentito il ricorso all'allegoria, necessaria per comprendere cose inverosimili. Con tutte queste "libertà", la differenza tra imitazione icastica e fantastica si riduce notevolmente, consentendo, secondo quanto scritto dalla Spina Barelli (1966, p. 12) "tutta una sorta di possibilità teoricamente indefinibili", in cui "il giudizio dell'artista, la sua "virtù fantastica", ha un ruolo decisivo; l'immagine icastica subisce una riduzione in quanto non pretende più di essere totale".

Il "meraviglioso" svolge un ruolo decisivo anche nella rivendicazione operata dal C. dell'uguaglianza tra pittura e poesia in quanto è considerato come componente principale della favola, protagonista delle storie sia poetiche sia pittoriche, il cui elemento essenziale è riconosciuto nel "credibile meraviglioso" di chiara derivazione tassesca.

L'identità tra pittura e poesia viene sostenuta con una continua trasposizione delle regole dell'una e dell'altra. Così al "verso" della poesia corrisponde la "proporzione" in pittura; ed elementi comuni appaiono la "sentenza", il "temperamento", l'"apparato", i "costumi", la "melodia", la quale ultima fornisce al C. l'occasione per un ulteriore elogio dell'Arcimboldi, creatore di una scala armonica di graduazione dei colori, paragonata all'invenzione dell'armonia musicale di Pitagora.

Il C. morì a Gubbio nel 1608 (Faccioli, 1962).

Fonti e Bibl.: G. P. Lomazzo, Idea del tempio della pittura [1590], Roma 1947, pp. 221 s.; T. Tasso, Discorsi del poema eroico [1594], in Le prose diverse di T. Tasso, a cura di C. Guasti, Firenze 1875, p. 102; I. Donesmondi, Dell'istoria eccles. di Mantova, Mantova 1615, p. 432; G. Ghilini, Teatro d'huomini letter., Venezia 1647, I, p. 139; F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d'ogni poesia, II, Milano 1741, p. 371; F. Tonelli, Ricerche stor. di Mantova, Mantova 1798, III, p. 193; V. Golzio, Raffaello nei docum. nelle testimonianze dei contemporanei e nella letter. del suo secolo, Città del Vaticano 1936, pp. 328 s.; E. Panofsky, Idea, contributo alla storia dell'estetica [1924], Firenze 1952, pp. 61 s., 131 s. n. 51, 138 n. 6, 157 n. 69; B. Geiger, I dipinti ghiribizzosi di G. Arcimboldi, Firenze 1954, pp. 7 s., 40 s., 46 ss., 70 ss.. 90 ss.; J. Schlosser Magnino, La letter. artist. [1924], Firenze 1956, p. 397; A. Blunt, Artistic theory in Italy [1940], . Oxford 1956, pp. 126-131 s.; E. Battisti, Il concetto di imitaz. nel 500 dai Veneziani a Caravaggio, in Commentari, VII (1956), pp. 20 ss.; C. Vasoli, L'estetica dell'Umanesimo e del Rinascimento, in Momenti e probl. di storia dell'estetica, I, Milano 1959, pp. 406 s.; P. Barocchi, Trattati d'arte del 500 tra manierismo e controriforma, Bari 1962, III, pp. 516-599) (commento critico al Figino); P.Prodi, Ricerche sulla teorica delle arti figurative nella riforma cattolica, in Archivio italiano per la storia della pietà, IV (1962), p. 132; E. Faccioli, in Mantova. Le Lettere, II, Mantova 1962, pp. 446 ss.; E. Spina Barelli, Il C. ovvero il fine della pittura, in Teorici e scrittori d'arte fra manierismo e barocco, Milano 1966, pp. 12-33; L. Grassi, Teorici e storia della critica d'arte, I, Roma 1970, ad Indicem; R. W. Lee, Ut pictura poesis, Firenze 1974, p. 56 n., 101 n.; A. Pupillo Ferrari Bravo, "Il Figino" del C. Teoria della pittura di fine 500, Roma 1975 (già edito, in parte in Storia dell'arte, IV[1972], 13, pp. 57-66); Ch. Tellini Perina-T. Ghisi, in La scienza a corte... (catal.), Roma 1979, pp. 263 s.

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