GREGORIO I papa, detto Magno, santo

Enciclopedia Italiana (1933)

GREGORIO I papa, detto Magno, santo

Ottorino BERTOLINI
Giampiero PUCCI

Nacque intorno al 535 in Roma. La madre Silvia era di nobile stirpe, discendente dall'illustre gens Anicia; il padre, Gordiano, anch'egli originario di famiglia imparentata con gli Anici, apparteneva all'ordo senatorius. Anche G., compiuti gli studî di grammatica e di diritto, entrò nella vita pubblica e copri il cospicuo ufficio di praefectus urbi (573?). Ma al suo, come a tanti altri spiriti superiori di quei tempi travagliati - esempio insigne Cassiodoro - l'angoscioso spettacolo delle miserie d'Italia e di Roma, in confronto con la passata gloriosa potenza, era motivo di dolorose meditazioni sulla caducità delle fortune terrene. La conquista longobarda e la lotta impegnata dai Bizantini per salvare dai Longobardi il loro recente dominio, si erano abbattute sull'Italia quando cominciava appena a risollevarsi dal terribile flagello della guerra greco-gotica, che per quasi vent'anni (535-553) l'aveva desolata. Roma stessa, dove tanti monumenti testimoniavano ancora l'antica potenza, vedeva stringersi attorno il cerchio minaccioso delle armi barbariche. Era l'età in cui la vita monastica, intesa, nello spirito e secondo le regole di S. Benedetto, come la manifestazione più alta e più pura di fede, appariva l'unica via degna di essere presa da chi voleva trovare in Dio il più saldo rifugio nella bufera travolgente. G., abbandonata ogni pompa mondana, fondò sei monasteri nei suoi possessi di Sicilia, largì ai poveri le sue ricchezze, e ridotto a monastero, che intitolò a S. Andrea, lo stesso sontuoso palazzo della famiglia sul Celio, vi si raccolse nella contemplazione delle eterne verità. Ma non vi rimase a lungo. Quando papa Pelagio II ebbe bisogno di persona capace di tutelare degnamente ed efficacemente gl'interessi materiali e spirituali della sede apostolica presso l'imperatore d'Oriente in così difficili momenti, fece cadere la sua scelta su G., che mandò da Tiberio come suo apocrisario, ossia legato (579). A Costantinopoli rimase G. fino al 586. Ebbe così modo di raccogliere preziose esperienze di uomini e di cose in quello che, oltre ad essere il centro politicamente più sensibile e importante dell'antico mondo romano, era anche tenebroso nido di torbide passioni e di raffinati intrighi. Colà strinse legami d'amicizia con illustri personaggi; l'imperatore Maurizio, successore di Tiberio, volle che egli tenesse a battesimo il suo primogenito Teodosio. D'altra parte la missione di fiducia aveva posto in rilievo le qualità di G., che tornato a Roma (586?) fu apprezzato consigliere del papa. Questo fatto, e la fama di pietà che circondava il suo nome, per il devoto raccoglimento in cui era sempre vissuto, lo designarono ai voti unanimi del clero e del popolo di Roma come il successore più degno di Pelagio II quando questi morì il 7 febbraio 590. G. nella sua umiltà fu assai riluttante ad accettare l'altissimo onore. La pia tradizione racconta di una lettera da lui scritta all'imperatore Maurizio, perché non acconsentisse all'avvenuta elezione, e che fu intercettata dal praefectus urbi Germano; di un suo tentativo di fuga; dice che solo a forza s'indusse a lasciarsi consacrare il 3 settembre 590. Saliva sulla cattedra di S. Pietro uno dei più grandi papi che abbiano illustrato, con l'altezza della mente e col fervore delle opere, la storia della Chiesa. Appena eletto, assolse con rapida energia il compito di combattere la peste e la fame, che infuriavano a Roma, triste strascico della rovinosa inondazione del Tevere nel gennaio di quell'anno. Oltre alla solenne processione espiatoria, che rimase famosa nella pia tradizione perché sarebbe allora apparso ai devoti, sugli estremi fastigi del mausoleo di Adriano, l'angelo rinfoderante la spada, a significare placata l'ira divina, G. usò, a risollevare il popolo dalle sue miserie, delle molteplici risorse materiali di cui disponeva la Chiesa, con le diaconie, che provvedevano a mensili distribuzioni di frumento, olio, vino e legumi; con le giornaliere distribuzioni di alimento al domicilio dei più bisognosi; con l'invio periodico di viveri a monasteri e ospedali. Né invocò invano il concorso delle sue influenti amicizie. L'attività di G. in aiuto della popolazione romana non si limitò alle strette della carestia e del morbo. Roma e il territorio intorno erano minacciati dai Longobardi di Spoleto e Benevento. Tarda e inefficace risultava l'azione dell'esarca. Dalla sua sede di Ravenna era già molto se riusciva a mantenere le comunicazioni con Roma attraverso l'Appennino centrale, continuamente esposto agli attacchi dei Longobardi di Spoleto. Nell'incalzare del pericolo, G. non esitò a prendere cgli stesso le disposizioni militari e politiche che sarebbero spettate alle autorità imperiali. Per suo ordine il capitano Leonzio e il maestro delle milizie Veloce mossero a minacciare da Nepi e da Perugia sul rovescio il duca di Spoleto, Ariulfo, che nel settembre del 591 si era spinto sino a Narni; e quando apparve che non vi era altro mezzo per salvare Roma, G. trattò con Ariulfo, che acconsentì ad allontanarsi dopo aver ottenuto un tributo di denaro (luglio 592). G. provvide anche alla difesa di Napoli, minacciata dal duca di Benevento Arechi, che si era impadronito di Capua, facendovi prontamente accorrere il tribuno Costanzio. Solo per breve tempo e con effimeri risultati la direzione delle operazioni militari nel territorio di Roma fu assunta dall'esarca Romano, che, risalendo la valle del Tevere, sgombrò dai barbari parte della Sabina, da Orte a Todi. Ma nel 593 lo stesso re dei Longobardi, Agilulfo, piombava su Roma col suo esercito. Non l'esarca, di nuovo lontano, o i suoi ufficiali salvarono la città dagli orrori di un assedio, ma il papa. G. incontrò animosamente Agilulfo, in un colloquio fuori delle mura, sui gradini della chiesa di S. Pietro, e lo indusse a ritirarsi; la città s'impegnava però a un tributo annuo di 500 libbre d'oro. Aspro rimprovero gliene venne da Costantinopoli; ma G., lungi dal cercare di sottrarsi alla responsabilità di quanto aveva fatto, se lo attribui giustameme ad onore in una fiera lettera all'imperatore Maurizio, tutta penetrata di caldo amor patrio per la sua Italia e per la sua Roma, e di profonda commozione per le miserie che ne piagavano le popolazioni. A dare finalmente ad esse un po' di pace G. si adoperò con tutte le sue energie. Col duca di Benevento riusci a stabilire rapporti cordiali, tanto che Arechi gli fece dono di travi per S. Pietro; il suo legato a Ravenna, il monaco Probo, abate di S. Andrea al Celio, poté ottenere che fra Agilulfo e i Bizantini fosse stipulata (599) una tregua biennale, che fu purtroppo solo una breve sosta nella lotta incessante per il dominio della penisola. Con sollecita cura G. assecondava la pia regina Teodolinda nei suoi sforzi per strappare i connazionali dall'eresia ariana, e salutò con gran gioia il battesimo che, quasi ad annunciare una nuova era, Agilulfo aveva fatto impartire nel 603 al figlio Adaloaldo. Né G. pensò solo a convertire i Longobardi, ma anche gli Angli e i Sassoni. Sotto l'impulso della sua volontà, una missione guidata dal monaco Agostino affrontò i disagi del lungo viaggio; superò il primo smarrimento, che, mentre si trovava con i compagni tuttavia in Provenza, aveva indotto Agostino a ritornarsene a Roma per impetrare dal papa in nome dei compagni l'abbandono dell'impresa; ottenne che nel Natale del 597 il re sassone Etelberto e il suo popolo si convertissero solennemente in Dorovernum (Canterbury). Inizio bene auspicante di un apostolato, che segnò una delle più belle vittorie dell'opera universale della Chiesa di Roma. In Gallia, G. difese con vigile cura la purità della fede, attraverso il suo legato in Austrasia, Vigilio, agendo personalmente presso Childeberto, Brunechilde, Cotario II, imponendo a Desiderio, vescovo di Vienne, d'informare l'insegnamento della grammatica nella sua scuola a uno spirito rigidamente religioso. Nella penisola iberica, nella parte in cui dominavano i Visigoti, sostenne con parola animatrice il re Reccaredo, convertitosi al cattolicesimo dopo la reazione ariana infierita con Leovigildo, il quale non aveva esitato a far perire lo stesso suo figlio Ermenegildo, tetragono nella fede cattolica sino al martirio, chc G. esaltò come magnifico esempio di testimonianza della verità; nella parte sud-orientale, riconquistata da Giustiniano all'Impero, intervenne direttamente nei conflitti tra quei vescovi e il governatore bizantino. Nell'Africa mediterranea, ritolta dai Bizantini ai Vandali, e in Italia, G. con mano sicura e insieme con finissimo tatto fu guida, consigliere, autorevole amico dei preposti alle varie diocesi. Così egli validamente affermava l'autorità del vescovo di Roma su tutto l'occidente romano-barbarico.

Nell'oriente bizantino aveva cercato di scuoterla il patriarca di Costantinopoli, Giovanni, arrogandosi il titolo di universale, favorito dall'imperatore Maurizio nell'interesse dei suoi disegni politici di fronte al persistere della non mai spenta tradizione imperiale occidentale, che faceva di Roma il suo centro. Ma con fermo contegno G., in difesa dell'unità della Chiesa con a capo il vicario di Cristo sulla cattedra di S. Pietro, si oppose alla pretesa del patriarca.

Larghi mezzi per la sua opera multiforme G. poté trarre dalle estese proprietà fondiarie che la Chiesa di Roma possedeva in tutta l'Italia, e che costituivano il cosiddetto Patrimonium S. Petri. Queste proprietà avevano un mirabile ordinamento amministrativo ed economico, che sotto G. fu particolarmente curato.

Erano raggruppate in complessi o patrimonia, che venivano distinti col nome della provincia o del centro urbano del territorio in cui si trovavano, e che al tempo di G. erano i seguenti: patrimonium Ravennae et Histriae, p. in Dalmatia, p. Tusciae, p. in Corsica, p. in Sardinia, p. Sabinense et Carseolanum, p. Appiae, p. Campaniae, p. Apuliae et Calabriae. p. Bruttiorum, p. Siciliae, poi diviso in p. Panormitanum, nella parte orientale dell'isola, e Syracusanum, nell'occidentale. In terre non italiane erano i patrimonî Galliarum e Africae. Ciascun patrimonio era amministrato da un rector, che aveva alle sue dipendenze come funzionarî subordinati notai, chartularii e agenti detti actionarii. Con G. ai rettori appaiono assegnate attribuzioni assai estese, che al di là della sfera economica entravano in quella giurisdizionale e spirituale, come l'assistenza ai poveri e alle vedove, la sorveglianza sul clero e sulle comunità monastiche, sui vescovi stessi. Talora i rettori acquistarono vera e propria veste di legati e vicarî pontifici, come in Sicilia, e di apocrisarî o inviati della S. Sede presso i metropoliti delle diocesi in cui i patrimonî da loro amministrati si trovavano; il rettore del patrimonio in Gallia ebbe addirittura funzioni di ambasciatore papale a quella corte. Quando si pensi che i rettori erano nominati dal papa, e che G., invece di sceglierli, come era uso, specie nei patrimonî più lontani da Roma o fuori d'Italia, fra i signori o i vescovi locali, li cercò di norma tra i membri del clero romano, e di solito tra i suddiaconi, i defensores, qualche volta anche tra i notai e chartularii della Chiesa di Roma, si comprende quale efficacissimo strumento nell'amministrazione del Patrimonium S. Petri, così intesa, egli abbia dato al potere papale per farsi sentire vivo e presente dovunque, come rigido tutore dell'ordine e della giustizia in un tempo in cui tutto era violenza, e le autorità civili apparivano incapaci di assolvere il loro ufficio, o lo esercitavano taglieggiando con tanta durezza le popolazioni, da render quasi preferibile, come ebbe a dire G., la spada longobarda. G. infatti, che seguiva personalmente l'amministrazione delle proprietà della Chiesa in tutti i suoi aspetti, e impartiva ai rettori istruzioni illuminate di ardente carità e mirabili di chiarezza e di spirito pratico, non solo difendeva con tutte le sue forze i coloni e i servi, che in esse vivevano, dalle sopraffazioni degli appaltatori o conductores e li proteggeva dalle prepotenze dei funzionarî imperiali, ma cercava di frenare la rapacità di questi ultimi anche in confronto di chi non era nella condizione privilegiata di trovarsi in un patrimonio della Chiesa di Roma.

Così il grande papa appariva a tutti il comune padre amorevole, e nuovi copiosi frutti si aggiungevano a quelli che G. raccoglieva nella sua inesausta opera, volta a purificare e rinvigorire il sentimento religioso, guidata da quello spirito di profonda fede che pervade i suoi scritti e ne fa uno dei maggiori padri della chiesa.

La figura morale e i doveri del vescovo come rector animarunt traccii, G. nel Liber regulae pastoralis, in quattro parti, composto nel 591 e dedicato a Giovanni vescovo di Ravenna. L'altissimo concetto in cui egli dimostra di avere il delicato ufficio, e il rigore con cui ne intendeva l'esercizio, sono la migliore spiegazione del suo esitare di fronte alle gravi responsabilità del pontificato al momento dell'elevazione. Le virtù cristiane come norma di vita e unica fonte dell'eterna salvezza propose G. ai fedeli nelle Homiliae quadraginta in Evangelia, pubblicate in due libri nel 593, e delle quali più della metà aveva dette egli stesso, con commossa parola, e le altre, perché malato, aveva fatte leggere al popolo raccolto nelle basiliche di Roma. Lo sgomento provocato dalla minaccia longobarda sospesa su Roma dall'esercito di Agilulfo comparso sotto le sue mura echeggia nella rievocazione della profezia della rovina di Gerusalemme, che G. fece argomento delle Viginti duae homiliae in Ezechielem, dedicate nel 593 a Mariniano vescovo di Ravenna. In quegli anni egli andava anche completando e rielaborando in forma di trattato il commento al libro di Giobbe, che mentre si trovava a Costantinopoli aveva costituito l'oggetto di amichevoli conversazioni con i giovani monaci che lo avevano colà accompagnato. Ne uscì l'ampia esegesi dei 35 Libri moralium o Expositio in librum Iob, compiuta nel 595, che egli dedicò a Leandro vescovo di Siviglia.

Intanto dalle tradizioni vive del popolo G. attingeva la materia, che tra il luglio 593 e il novembre 594 compose nei quattro libri dei Dialogi. Concepiti come esaltazione dei fatti portentosi, che si dicevano avvenuti qua e là per l'Italia specie sotto il regno di Totila e durante l'invasione longobarda; dei miracoli operati dai santi, specie da S. Benedetto, di cui è raccontata la vita nel secondo libro; della vita ultraterrena premio degli eletti, i Dialogi riuscirono un quadro parlante delle condizioni in cui vivevano le classi umili italiane nel sec. VI. Dal diretto contatto tra l'anima del grande papa e quella del popolo derivano la lingua stessa e lo stile, che risentono l'influsso del volgare ben più che non gli altri scritti di G., onde anche per questo i Dialogi hanno un carattere proprio in confronto con essi.

Imperituro monumento della sua azione come capo della Chiesa, della sua dottrina religiosa, della sua sapienza politica e amministrativa, G. ha lasciato nel suo epistolario. Non è giunto sino a noi completo; ma è pur sempre così copioso nei suoi quattordici libri - tanti quanti gli anni del pontificato - da costituire una fonte storica di primissimo ordine per lumeggiare non la sola figura del grande pontefice, ma tutta l'epoca in cui egli visse.

Da G. trae il nome di gregoriano il canto liturgico romano, al cui duraturo ordinamento il grande papa diede opera illuminata e tenace. In grazia di tale assestamento, già iniziato, del resto, fin dai tempi di Damaso I, la scuola di rito romano poté, nei tempi, diffondersi vittoriosa in tutta la chiesa latina (v. canto: Canto liturgico). G. morì il 12 marzo 604. Fino all'ultimo egli diede, con la sua opera, mirabile prova di ciò che vale la forza dello spirito illuminato dalla fede, anche se il fisico, come era quello del grande papa, sia debole e malaticcio.

Iconografia. - Ha i soliti attributi dei papi, tiara e pastorale con doppia croce, e come dottore della Chiesa tiene nella destra un libro, talvolta chiuso, talvolta aperto, in atto di leggervi o di scrivervi. Ma l'attributo suo caratteristico è una colomba che, posata sulla spalla, o ancora volante, gli si volge all'orecchio come per ispirarlo, secondo ciò che avrebbe visto una volta un suo scriba. Tra le storie della sua vita più raffigurate dall'arte: l'apparizione dell'angelo sopra la Mole Adriana; la leggenda dell'angelo introdottosi con i poveri alla mensa giornaliera imbandita loro dal papa (v., a es., un dipinto di Paolo Veronese in S. Maria del Monte a Vicenza); la salvazione dall'inferno dell'imperatore Traiano per intercessione del santo; la liberazione dal purgatorio del monaco Giusto. Andrea Sacchi dipinse per un altare di S. Pietro a Roma il miracolo del pannolino che aveva toccato le reliquie degli apostoli, dal quale, avendolo il papa squarciato con un coltello, uscì sangue. Grande fortuna ebbe, specie nel nord e nel sec. XV, la rappresentazione della "messa di S. Gregorio": il papa è figurato in atto di celebrare la messa: sull'altare appaiono Cristo piagato e spesso i simboli della Passione.

Fonti: Di G. M. si hanno tre biografie antiche, scritte, la prima da un anonimo monaco di Whitby, nel secondo decennio del sec. VIII (ed. da F. A. Gasquet, Londra 1904); la seconda da Paolo Diacono, tra il 770 e il 780 (edita da H. Grisar, in Zeitschrift für katholische Theologie, XI, 1887, pp. 158-173; la terza (872-882) da Giovanni Diacono, per invito di papa Giovanni VIII (ed. in Acta Sanctorum, marzo, II, pp. 137-211).

Ediz.: Completa in Migne, Patr. Lat., LXXV-LXXIX.V. inoltre: Liber regulae pastoralis, ed. di H. Hurter (Innsbruck 1872) e di A. M. Micheletti (Tournai 1904); Homiliae quadraginta in Evangelia, ed. di H. Hurter (in Sanct. Patrum opuscola selecta, s. 2ª, VI, Innsbruck 1892); Dialogi, ed. di U. Moricca (Roma 1924); Epistolae, ed. di P. Ewald e L. M. Hartmann (in Monum. Germ. Hist., Epist., I-II, Haxnover 18871889); Epistolae selectae, a cura di N. Turchi (Roma 1907).

Bibl.: Biografie moderne di G. M.: H. F. Dudden, Gregory the Great, his place in history and thought, voll. 2, Londra 1905: H. Grisar, S. G. M., traduz. di A. De Santi, Roma 1904: H. H. Howorth, St Gregory the Great, Londra 1912; W. Stuhlfath, Gregor de Grosse, Heidelberg 1913; T. Tarducci, Storia di G. M. e del suo tempo, Roma 1909; F. Ermini, G. M., Roma 1924; P. Batiffol, Saint Grégoire le Grand, 3ª ed., Parigi 1928. - Sulle questioni particolari. Sulle omelie: V. G. Pfeilschrifter, Die authentische Ausgabe der 40 Evangelienhomilien Gregors d. G., Monaco 1900; sull'epistolaio: W. M. Peitz, Das Register Gregors I, Friburgo in B. 1917; M. Tangl, Gregor-Register und Liber Diurnus, in Neues Archiv, XLI (1919), pp. 741-752; E. Posner, Das Register Gregors I, in Neues Archiv, XLIII (1921), pp. 243-315; sulla lingua e sui rapporti conla cultura classica: L. M. Hartmann, Ueber die Ortographie Papst Gregors I, in Neues Archiv, XV (1890), pp. 527-549; A. Sepulcri, G. M. e la sua scienza profana, in Atti della R. Acc. delle sc. di Torino, XXXIX (1904), pp. 962-976; R. Sabbadini, G. M. e la grammatica, in Boll. di filologia classica, VIII (1902), pp. 204-206, 259-60. V. anche: E. Spearing, The patrimony of the Roman Church in the time of G. the Great, Cambridge 1918.