Guerra

Universo del Corpo (1999)

Guerra

Gilberto Di Petta e Ottavio Sarlo

La guerra può essere intesa secondo differenti prospettive: come evento concretamente e storicamente vissuto (livello della realtà convenzionale); come metafora dell'urto nelle dimensioni intrapsichica e interpersonale o tra l'io e il mondo (livello simbolico o dell'immaginario); come misura del valore dell'individuo o di un gruppo rispetto a un altro (livello estetico o espressivo); come segno di disumanizzazione (livello distruttivo o negativo); infine come entità di transizione nel passaggio da guerra con le armi a guerra economica, all'interno del nuovo scenario del mercato planetario. Il quadro degli effetti biomedici e psicologici procurati dall'uso dei mezzi bellici è mutato nel tempo, parallelamente allo sviluppo della tecnologia degli armamenti.

L'interpretazione antropologica

di Gilberto Di Petta

Non c'è mai stato, nelle zone antropizzate del pianeta Terra, un periodo in cui tra gli uomini le armi abbiano fatto completamente silenzio: non c'è mai stato, cioè, un periodo senza guerre. A fasi di maggiore stabilità, come per es. quella nel mondo occidentale che ha fatto seguito alla fine della Seconda guerra mondiale, ha corrisposto una moltitudine di microconflitti continui che hanno coinvolto e interessato aree di tutti i continenti. Il luogo dove una guerra si verifica viene detto tradizionalmente 'teatro' (teatro di guerra). Già questa parola allude al potere enorme che ha la guerra di rappresentare, cioè di 'mettere in scena', elementi profondi e consustanziali alla condizione umana, altrimenti difficilmente reperibili nell'ordinario quotidiano, nonché di mobilitare accanto ai comportamenti deteriori risorse umane inimmaginabili, almeno dal punto di vista delle diverse morali convenzionali. Il concetto di teatro rimanda anche alla scelta di un orizzonte spaziale specifico e 'altro' dai luoghi della normale quotidianità, nel quale mettere in campo le energie esuberanti. Il corpo umano è il soggetto reale, al contempo 'mezzo' della guerra concretamente vissuta e bersaglio da abbattere; porta la divisa dello Stato-nazione di appartenenza o i fregi ispirati ai valori per cui si combatte. Il corpo si propone allora come luogo vivo della difesa e dell'offesa, come oggetto di ferimento, di mutilazione, di morte; si dà anche come corpo sopravvissuto, luogo del ricordo, con le sue cicatrici, degli eventi vissuti.

La guerra tra gli esseri umani si configura come una forma particolare di aggressività che i maestri dell'etologia K. Lorenz e N. Tinbergen hanno registrato sotto il nome di aggressività 'intraspecifica', endodiretta, scaricata all'interno della propria specie, fino all'atto apparentemente antinaturale (ma evidentemente non anticulturale) dell'uccisione del proprio simile. Presso le altre specie animali, all'interno dello stesso branco o della stessa famiglia, la lotta sarebbe invece spostata su un piano simbolico, solo come rito di confronto per stabilire la gerarchia del più forte: un tipico esempio è l'affrontamento tra i palchi di corna di due cervi maschi per il dominio del branco e il possesso delle femmine, al termine del quale il maschio sconfitto fugge perdendosi nella macchia. Ancora, secondo Lorenz (1963), nella lotta tra i lupi, proprio nel momento in cui il lupo che ha la peggio nello scontro offre al rivale il collo in segno di resa, l'estrema sottomissione provoca nel vincitore un istante di esitazione, e questo è sufficiente al lupo sconfitto per dileguarsi. Tra gli animali, dunque, più che la guerra vera e propria esiste il moltiplicarsi ritualizzato di un confronto individuale. A ogni modo, questo retroterra etologico consente di cogliere quanto la maniera attuale di fare la guerra (guerra dei materiali; v. oltre), eliminando definitivamente il contatto corporeo, abbia escluso anche quest'ultima forma di pietas, cioè la possibilità da parte del vincitore di risparmiare la vita allo sconfitto.

Sulla scorta dei dati etologici si potrebbe dire che la scena della lotta tra due esseri viventi è il prototipo, la 'cellula' della guerra, perché, almeno fino a un certo punto della storia, essa è consistita sostanzialmente in combattimenti individuali. Celebri sono gli scontri a due di Ettore, Achille, Agamennone, Aiace fuori le mura di Troia, mentre sono rimaste pallide e opache le masse degli assedianti e degli assediati. Eraclito, Platone, Th. Hobbes, G.W.F. Hegel, S. Freud sono solo alcuni dei pensatori che hanno centrato sulla figura retorica dello 'scontro' la base del confronto tra le irriducibili polarità antinomiche dell'esperienza umana, interna ed esterna. Del resto, già nella teologia ebraico-cristiana c'è l'idea della guerra tra Dio come sommo bene e Satana come sommo male, condottieri, rispettivamente, di squadroni di angeli e di demoni che combattono sulla scena celeste e su quella terrena. Anche gli dei pagani erano in guerra tra di loro e con gli uomini. In un frammento eracliteo, Πόλεμος, "la guerra" o "il conflitto", è addirittura 'padre di tutte le cose', e la dialettica hegeliana di tesi e antitesi che 'si affrontano' sembra portare questo concetto al suo limite estremo. In Platone compare per la prima volta nella storia il conflitto tra le anime e la carne; Hobbes vede la società umana dominata dal principio bellum omnium contra omnes; Freud interpreta la guerra come una proiezione all'esterno della pulsione di morte: l'uomo e tutto il campo dell'esperienza umana sono sede di dinamiche irriducibilmente conflittuali che determinano il destino dei singoli e dei gruppi. H.G. Gadamer parla di 'urto' tra il soggetto interpretante e il testo da interpretare, e M. Klein ha estremizzato questa linea di pensiero, erigendo la posizione 'schizoparanoide' (dissociazione tra parti buone e cattive e proiezione sull'altro di quelle cattive) a stadio preformativo essenziale della personalità, oggettivando questa simbologia nella dicotomia tra seno buono e seno cattivo. Infine, O. Kernberg individua nella rappresentazione di oggetto una scissione tra rappresentazioni parziali buone e cattive, concependola come elemento centrale nell'organizzazione borderline di personalità (Callieri 1988).

2.

La figura del guerriero

Il prototipo dell'accezione 'nobile' della guerra è il guerriero delle società tribali o tradizionali. Gli eroi omerici sono figure che traggono la propria regalità o autorità dal valore guerriero; su questa scia si pongono gli indiani nordamericani e sudamericani (le civiltà precolombiane), i samurai della cultura giapponese, nonché i cavalieri erranti del mondo occidentale, francogermanico, dell'Alto Medioevo. La guerra diventa, presso quelle società, pratica di vita e di ideali, affermazione della presenza individuale, sacrificale ed eroica; è luogo del 'giudizio di Dio', esaltazione dei valori tradizionali, 'estetica' della morte coraggiosa e culto del guerriero caduto (tematiche riprese in gran parte dal nazismo e dal fascismo, in toni esasperati, in un clima wagneriano e nietzschiano). In questa visione la guerra è attributo specificamente maschile, stereotipo del virile inestensibile alla donna, 'arte' che richiede una lunga preparazione corporea e spirituale con codici di valori ben precisi. Laddove modernamente o mitologicamente (le Amazzoni) la donna ha fatto la sua comparsa sui fronti di guerra, ella si è adeguata pressoché in toto a quest'etica maschile. In un quadro siffatto anche l'esercizio della caccia, unitamente e più delle altre pratiche ginnico-sportive, si pone come propedeutica alla guerra, alla disciplina della privazione e competizione, quale palestra di liberazione degli istinti primitivi a contatto con gli animali selvatici, e opportunità di apprendimento dai medesimi di una serie di strategie di attacco-difesa. Soprattutto, tale esercizio si pone come mimesi del rito della morte, evento cui l'etica eroica conferisce un significato profondo. Nella vocazione guerriera la morte è un appuntamento intensamente temuto e, al contempo, desiderato come via certa alla gloria. Forse gli epigoni di quest'etica millenaria sono stati i piloti nipponici (kamikaze), ultimi 'guerrieri del Tenno', i quali durante la Seconda guerra mondiale andavano a schiantarsi con aerei da caccia carichi di bombe sulle portaerei americane: un comportamento che si può capire solo mettendosi su questa linea di attribuzione di senso alla morte in battaglia. L'idea della morte in armi rientra, del resto, in una rappresentazione estetica: morte giovane, morte coraggiosa, morte in azione. In questa prospettiva il rapporto tra l'uomo, il suo corpo e l'arma assume un carattere sacrale: la regola è tornare con le armi o morire con esse, mai sopravvivere alle armi o lasciarle al nemico. Il guerriero greco, l'oplite celebrato da Tirteo, Alceo e Pindaro, punto di convergenza tra l'ἀλκή fisica (il "vigore") e l'ἀρετή spirituale (la "prodezza"), doveva tornare o vincitore o con il corpo 'steso sullo scudo'. Non a caso, le armi da millenni vengono sepolte con il corpo del guerriero, quasi a prolungare in eterno la sua declinazione di eroe. Il discorso della guerra, oltre che alla fisionomia delle armi, è legato anche alla tradizione militare.

La disciplina delle legioni e dei condottieri romani fu il fattore che consentì, per lungo tempo, la resistenza alle invasioni barbariche: i legionari facevano quadrato e attendevano in formazioni ordinate l'assalto dei barbari; questi erano per lo più armati in modo rudimentale, laddove la cultura militare romana opponeva gli arcieri, i frombolieri delle Baleari, i reparti armati di alti scudi e lance, e quelli leggeri a cavallo, dotati di spade corte (i gladii), lance e pugnali, oppure opponeva figure compatte di uomini, coesi in un corpo solo, come la testudo. In quest'accezione eroica il corpo, materia prima della guerra, doveva essere formato alle intemperie, al digiuno e anche alla sofferenza. Al giorno d'oggi le armi hanno perso di valenza estetica: dai fini ceselli d'un tempo, ageminature, niellature, decorazioni in materiali anche preziosi, si è passati a oggetti di produzione industriale, di alta tecnologia, realizzati in leghe e resine destinate esclusivamente al potenziale distruttivo. In tal senso l'ultima guerra che ha visto la rappresentazione del corpo a corpo è stata quella del 1914-18, e di questi aspetti le armi hanno dato fedele e corrispondente testimonianza: la baionetta montata sui fucili, per es. quella del Mauser, era lunghissima e prevedeva il confronto faccia a faccia all'arma bianca. Le baionette dei moderni fucili mitragliatori, come il Kalashnikov, sono lunghe un terzo di quella del Mauser, e conformate piuttosto come utensili che come spade. Un fucile Mauser o un Enfield scarichi e con la baionetta inastata, ma anche un fucile Garand di fabbricazione successiva, erano vere e proprie lance, armi bianche da utilizzare nel sempre previsto contatto corporeo; invece un Kalashnikov senza caricatore, seppure con la baionetta inastata, non ha alcuna funzione. Il passaggio storico dal guerriero al soldato stipendiato, al mercenario, unitamente al passaggio della guerra da 'arte' a 'tecnica', hanno modificato radicalmente l'antropologia della guerra e la stessa etica eroica. I capitani di ventura del Cinquecento sono stati forse le ultime figure di cerniera tra il vecchio e il nuovo. Il politico e lo scienziato, la forza dei gruppi economici egemoni che finanziano la guerra stessa, hanno finito con il prevalere sulla figura tradizionale del guerriero. I soldati (stipendiati al 'soldo') di oggi, a differenza dell'immagine individualizzata del passato, sono del tutto anonimi; la distruzione e dispersione dovute agli effetti micidiali degli armamenti non consentono, a volte, neppure l'identificazione dei corpi: nasce così il concetto di 'milite ignoto'. In opposizione a ciò, l'aristocrazia militare ha tentato di conservare il proprio prestigio con la creazione di unità speciali, come i 'topi del deserto' inglesi, i ranger americani, la legione straniera francese: corpi d'élite, nei quali ogni uomo torna ad avere il suo nome, la sua particolarità e il suo valore di guerriero. Rispetto alla massificazione della guerra moderna, alla costituzione di eserciti regolari sempre più burocratizzati, gli ultimi due secoli hanno visto anche il sorgere e l'affermarsi di un fenomeno nuovo, quello della guerriglia. Dai briganti dell'Italia meridionale pre- e postunitaria, alle formazioni partigiane, alle figure di condottieri come E. Guevara oppure il subcomandante Marcos, attivo nel Chiapas, in Messico, la guerriglia ha al giorno d'oggi una sua storia, una sua epopea, che generalmente si connota come un guerra mossa dalle classi oppresse contro il potere dominante. Sotto questo profilo il ricorso alla guerra si manifesta, a volte, come ultima possibilità di esprimere le proprie ragioni, nel silenzio e nell'inutilità di tutti gli altri linguaggi.

3.

Gli aspetti distruttivi e il cambiamento di statuto

L'invenzione della polvere da sparo ha segnato il punto di frattura tra quella che era stata fino allora la 'guerra degli uomini' e quella che sarebbe diventata la 'guerra dei materiali' (Jünger 1920). Con l'introduzione delle armi da fuoco e, successivamente, di quelle batteriologiche, chimiche e nucleari, la guerra ha cambiato il suo statuto, perdendo progressivamente la sua 'umana poetica': quello che è mutato è il concetto stesso di valore guerriero. Nell'ultimo conflitto mondiale, per es., furono arruolati vecchi, adolescenti (Hitlerjugend) e donne: per azionare il grilletto di un'arma moderna anche micidiale come il tubo lanciagranate Bazooka non occorre alcuna particolare forza fisica. Anticamente, l'arma dell'oplite era a misura della forza del suo braccio; la spada del guerriero medievale, come si legge nei cicli bretone e carolingio, doveva essere brandita a due mani da un uomo prestante; per uccidere in guerra si doveva avere l'impatto fisico con il corpo dell'altro, attraverso la lancia o il pugnale. Di contro, la guerra di Spagna (1936-39) vide per la prima volta il coinvolgimento massiccio dell'arma aerea; con la guerra lampo (Blitzkrieg) di occupazione delle truppe tedesche (1939) entrarono in scena le divisioni corazzate con il carro armato (Panzer) protagonista. Così la battaglia di Stalingrado, che segnò il mutamento di sorte della guerra, non sarebbe stata vinta senza l'impiego delle batterie lanciamissili semoventi (Katiuscia); e nel Vietnam, con l'intervento statunitense (1965), ha fatto il suo ingresso l'elicottero, nelle varianti più sofisticate, configurando un nuovo modo di combattere. Questo andamento testimonia la sopraffazione della capacità tecnologica sul corpo del guerriero formato all'arte bellica. Gli sviluppi dell'arma aerea hanno determinato, poi, il coinvolgimento dei corpi delle popolazioni civili nella guerra (concetto di guerra totale), popolazioni che in precedenza erano solo marginalmente interessate. Dalle battaglie dei legionari romani fino alla Grande guerra sono esistiti i concetti di 'fronte' e di 'prima linea'; i nomi delle città di Guernica, Dresda, Beirut, Sarajevo, Pristina stanno invece a ricordare il coinvolgimento di popolazioni civili e di aree urbane.

La nozione di guerra nelle forme sinora esaminate è esposta, alla fine del 20° secolo, a un ulteriore radicale cambiamento di statuto. Il processo di progressiva 'culturalizzazione' della guerra finisce per distaccarla definitivamente dal suo dato corporeo, corpo singolo o corporeità collettiva, e dallo spargimento di sangue, per trasformarla in un gioco di potere a 'tavolino', analogico e digitale. Gli eserciti tradizionali (nazionali), fatta eccezione per alcune unità speciali di intervento, tendono a diventare apparati inutili e costosi, più di rappresentanza che di impiego effettivo, e destinati allo smantellamento. La guerra smette di passare per le armi da fuoco, per correre, silenziosa e imprevedibile, nella rete: i fax e i messaggi di posta elettronica che si susseguono incessantemente da un capo all'altro del mondo, decretando la cessazione di certe attività economiche, causano la rovina di intere collettività strutturate su quel tipo di risorsa. Eserciti di anonimi impiegati e funzionari, finanzieri e faccendieri, politici ed economisti, informatici e rappresentanti legali, lavorano (combattono), sparsi nelle varie filiali del mondo, per la conquista di fette sempre più ampie di mercato, la sola che possa portare un incremento reale di potenza. Le armi di questa nuova guerra sono quelle massmediologiche, telematiche, informatiche, e i guerrieri moderni sono gli 'operatori' dei vari settori del sistema produttivo: oltre gli armamenti e gli arsenali bellici, il nuovo scenario è quello di una competitività totale e continua.

Gli effetti biomedici e psicologici

di Ottavio Sarlo

I.

Evoluzione storica

La configurazione degli effetti biomedici della guerra, intesi come danni sul corpo umano prodotti dall'uso dei mezzi bellici, si è andata modificando nel tempo di pari passo con lo sviluppo della tecnologia degli armamenti. Di essi, un primo gruppo riguarda le lesioni da arma bianca tipiche dell'era preistorica e della storia antica (oggetti appuntiti e taglienti di pietra, poi di legno, successivamente di metallo); un secondo attiene alle armi da fuoco più o meno sofisticate che hanno segnato la storia dal Medioevo ai nostri giorni, fino ad arrivare alle armi di distruzione di massa, biologiche, chimiche e nucleari. Gli effetti biomedici provocati dalle armi del primo gruppo, che hanno caratterizzato la fase più lunga della vita dell'uomo sulla Terra, erano proporzionali all'entità, alla tipologia e localizzazione delle lesioni riportate: l'individuo moriva per emorragia esterna o contemporaneamente esterna e interna, oppure per infezione secondaria sovrapposta; soltanto una bassa percentuale (meno del 10%) riportava lesioni permanenti di carattere più o meno invalidante.

Diverse, e più rilevanti, sono le conseguenze mortali o menomanti prodotte sul corpo umano dalle armi da fuoco o da quelle di distruzione di massa impiegate nel corso del 2° millennio, e in modo massiccio nel 20° secolo. Mentre le lesioni da arma bianca avevano come esito diretto e immediato la morte dell'individuo, quelle del secondo gruppo comportano, oltre al danno mortale, una serie di conseguenze letali o invalidanti anche a distanza di tempo dall'evento bellico. È sufficiente pensare agli effetti nocivi dell'arma chimica e batteriologica sull'organismo umano e sull'ecosistema, e ai danni causati sulla normale evoluzione della specie umana, animale e vegetale, dalle alterazioni genetiche indotte dall'ordigno nucleare. Non vanno trascurati peraltro i disturbi della psiche correlati con l'emergenza bellica (i cosiddetti stress postbellici), i quali hanno assunto un ruolo preminente nell'attuale momento storico in cui alla guerra classica, mondiale o totale, si è sostituita quella a impronta etnico-religiosa, settoriale, a partecipazione popolare.

Esiste infine una distinzione tra le patologie riportate dai combattenti e quelle della popolazione civile, che subisce in maniera preponderante e diretta le conseguenze dell'azione bellica in ogni sua forma. Essa è esposta a malattie infettive (come nel caso dei conflitti in Sudan, Somalia, Zaire) o a traumi psichici 'massivi', consumati contro l'intero gruppo per motivi religiosi, politici, ideologici (come nel caso della 'pulizia etnica' attuata negli Stati della ex Iugoslavia), o, ancora, alle privazioni conseguenti all'embargo: situazioni di disagio intenso, prolungato, e di destabilizzazione di entità tale da annientare l'individuo, il tessuto familiare, la società.

2.

Effetti patologici della guerra biologica e chimica

L'impiego delle armi non convenzionali, di 'aggressivi chimico-biologici' come mezzi di offesa e di difesa, è noto sin da tempi remoti e attestato dagli storici antichi. Esempi di offesa biologica sono forniti da 'sospette' epidemie che insorgevano tra gli eserciti in lotta, non sempre riferibili a carenze igienico-nutrizionali o a condizioni ambientali, ma al preciso intento di danneggiare il nemico. Composti tossici, mescolati a pece, bitume e petrolio, furono usati, secondo alcune fonti, da assiri e cinesi nel 1° millennio a.C.; un'epidemia di peste fu intenzionalmente provocata dai tartari, a metà del 14° secolo, a danno dei genovesi assediati a Caffa, in Crimea; episodi di guerra biologica condotta con agenti virali furono i contagi diffusi, tramite l'uso di indumenti contaminati da virus del vaiolo, dagli spagnoli di Pizarro tra le popolazioni inca in America Meridionale; e, ancora, un caso di guerra biologica subirono, durante la Seconda guerra mondiale, le popolazioni della Manciuria, ammalatesi di peste bubbonica in seguito a contaminazione messa in atto dai giapponesi con spandimento di pulci infettate con Yersinia pestis.

a) Armi biologiche. L'arma biologica tende, con l'utilizzo di microrganismi patogeni e dei loro specifici derivati chimici, a provocare danni all'uomo, agli animali e all'ambiente. Tali microrganismi, meglio definiti come aggressivi biologici, sono essenzialmente rappresentati da batteri, virus, miceti e dai loro prodotti tossici, le tossine. Queste entità microbiologiche, di per sé molto pericolose e comunemente presenti in natura, opportunamente trattate per finalità belliche esaltano le loro caratteristiche di aggressività e nocività. La maggiore aggressività o virulenza di un agente patogeno, allo stato attuale, è resa possibile sottoponendo lo stesso a processi di manipolazione genetica, tramite l'ausilio delle moderne biotecnologie. L'obiettivo fondamentale della guerra biologica è la diffusione di vere e proprie epidemie, affinché il paese che debba subire tale 'offesa' accusi notevoli danni in termini di alta morbilità e mortalità, nonché gravi ripercussioni sul piano psicologico ed economico. È molto difficile prevedere l'evoluzione di un'epidemia sostenuta da agenti biotecnologicamente trattati, ed è quasi impossibile far fronte a una pandemia sostenuta da germi che hanno subito ulteriori mutazioni nel corso dell'evento calamitoso. Gli strumenti in possesso dell'uomo per arginare un attacco biologico sono rappresentati da: profilassi vaccinica di massa; profilassi sierica e antibiotica come prevenzione-terapia; protezione individuale e collettiva, mediante maschere e indumenti anti-NBC (nucleare-biologico-chimico), e di ambienti, materiali, alimenti; circoscrizione e bonifica delle aree contaminate, previa identificazione dell'agente biologico.

b) Armi chimiche. Tra gli strumenti bellici non convenzionali, l'arma chimica è stata quella storicamente usata per prima, e numerosi sono i casi di un suo impiego nei secoli. Tuttavia, un reale interesse nei confronti delle armi chimiche si registra solamente nel 19° secolo, allorché si assiste alla nascita di una vera e propria industria della chimica di guerra con la prima realizzazione di proiettili a caricamento speciale. Già alla conclusione della Prima guerra mondiale ampi spazi erano riservati agli studi e all'approntamento di materiali più avanzati in tema di protezione, rilevazione e bonifica chimica. In seguito si registrarono l'uso indiscriminato degli aggressivi chimici (iprite-fosgene) e la nascita del tabun, potente neurotossico realizzato a metà degli anni Trenta del 20° secolo dagli scienziati tedeschi, i quali successivamente sintetizzarono il sarin e il soman, sostanze tuttora considerate utilizzabili nel quadro di un ipotetico conflitto. Risale alla fine degli anni Cinquanta il VX, neurotossico appartenente alla famiglia degli esteri-fosforici (tabun, sarin, soman, DFP ecc.), ultimo composto conosciuto, probabilmente il più potente, la cui formula chimica risulta a tutt'oggi in parte oscura. Intorno agli anni Sessanta fu resa pubblica l'esistenza di una categoria di aggressivi inabilitanti, che sono capaci di agire sul sistema nervoso centrale causando disturbi psicosomatici pur senza causare la morte. Tra gli aggressivi relativamente più recenti, vanno menzionati gli erbicidi, i defolianti, i lacrimogeni, gli starnutatori e i vomitatori; questi ultimi, meglio definiti inabilitanti-irritanti, vengono utilizzati comunemente come 'sostanze antisommossa'.

Gli aggressivi chimici sono di vario tipo: vescicanti (iprite, lewisite), soffocanti (fosgene), tossici del sangue (acido cianidrico, cloruro di cianogeno), nervini o anticolinesterasici (tabun, sarin, soman, VX), inabilitanti (LSD, BZ). Gli effetti sull'uomo e sugli animali, nel caso dei vescicanti, consistono in ustioni chimiche di difficile guarigione su vari organi e apparati, con esiti invalidanti; in quello dei soffocanti, in problemi respiratori fino all'edema polmonare, per la liberazione di cloro negli alveoli polmonari con formazione di acido cloridrico; per i tossici del sangue, si osserva rapida paralisi della 'respirazione cellulare'; per i nervini, blocco della colinesterasi con insorgenza di sintomatologia mista di tipo muscarinico (ipersecrezione mucosa ecc.) e nicotinica (contrazioni muscolari, spasmi ecc.), fino all'asfissia e all'arresto cardiaco; infine, per gli inabilitanti, si rilevano allucinazioni, fratture spaziotemporali, depressione, alterazioni del tono dell'umore, malessere generale. La ricerca di nuovi aggressivi è in continua evoluzione.

3.

Effetti patologici della guerra nucleare

Dopo la realizzazione dei primi ordigni a fissione nucleare (bomba A, sganciata nel 1945 su Hiroshima e Nagasaki), nonostante fossero perfettamente noti gli effetti distruttivi dovuti alla radioattività, se ne continuarono a produrre altri a fusione (bomba H) e a neutroni (bomba N). Alla fine degli anni Sessanta del 20° secolo, USA e URSS, alla luce della mutua consapevolezza dell'enorme proliferazione delle armi nucleari, intavolarono trattative per ridurne la produzione e precludere l'accesso al nucleare agli altri paesi. La possibilità di una estesa contaminazione ambientale, derivante da incidenti nucleari di tipo bellico e non, pone sempre più la necessità di studiare un piano di emergenza nucleare che individui infrastrutture e mezzi igienico-sanitari da attivare nell'ipotetico evento catastrofico.

Gli effetti delle radiazioni sull'uomo possono causare danni subitanei (patologia immediata) e nel tempo (patologia tardiva). I danni immediati sono rappresentati da gravissime alterazioni a carico di organi e apparati conseguenti alla contaminazione radioattiva. In tale quadro patologico, è possibile distinguere tre sindromi, strettamente connesse alla dose di radiazione assorbita (unità di misura Rem). La sindrome ematologica (250400 Rem circa) è caratterizzata da vomito, febbre, artralgie, emorragie, perdita di capelli e peli (mortalità 50% circa dei colpiti); la sindrome addominale (400900 Rem circa) si manifesta con vomito, crampi addominali, febbre, diarrea sanguinolenta, gravi infezioni dell'apparato gastrointestinale (mortalità 100%); la sindrome meningoencefalica (10003000 Rem circa) presenta sintomi quali ansia, cefalea, vomito, stato confusionale, coma irreversibile (mortalità 100%). Il quadro patologico tardivo nel soggetto contaminato è riconducibile agli effetti della radioattività a livello cellulare e quindi genetico-cromosomico, con l'insorgenza di malattie a carico di organi particolarmente sensibili alla radioattività emessa dai vari radionuclidi (tumori, leucemie, sterilità, infertilità ecc.), e anomalie nella prole.

4.

Il disturbo da stress post-traumatico

Con la locuzione 'evento stressante' si indicano episodi dell'esistenza di un individuo, oggettivamente identificabili e delimitabili nel tempo, che modificano in modo sostanziale l'assetto di vita della persona, richiedendole un notevole sforzo di adattamento alla nuova situazione. Nella classificazione della quarta edizione del Diagnostic and statistical manual of mental disorders (DSM-IV) dell'American psychiatric association (APA 1994) i disturbi psicopatologici sono raggruppati, nosograficamente, in due categorie: disturbi d'adattamento e disturbo da stress post-traumatico. Gli elementi che differenziano le due categorie sono la gravità oggettiva dell'evento stressante e il quadro psicopatologico manifestato. Il disturbo da stress post-traumatico è correlato con situazioni di particolare valenza emotiva, come una 'emergenza bellica'.

Alla fine del secolo scorso H. Oppenheim introdusse in psichiatria la definizione nevrosi traumatica per designare quadri di ansia morbosa in risposta a notevoli traumi e shock emotivi. Al termine della Prima guerra mondiale, E. Simmel si occupò di un fenomeno emerso frequentemente negli eserciti al fronte, le 'nevrosi da guerra', e fu tra i primi a proporre una patogenesi psicologica del disturbo, in un quadro di psichiatria che, in mancanza di danni anatomopatologicamente o neurologicamente obiettivabili, tendeva a considerare i soggetti con nevrosi da guerra dei semplici simulatori. A seguito del congresso internazionale tenuto a Budapest nel 1918, in cui uno specifico simposio aveva trattato delle succitate nevrosi, S. Freud (1919), nell'introduzione al volume che conteneva le relazioni di S. Ferenczi, K. Abraham e Simmel, sottolineò come le nevrosi da guerra siano nevrosi traumatiche che si presentano anche in tempo di pace in seguito a esperienze spaventose o a gravi incidenti, senza alcun rapporto con un conflitto dell'Io. Nevrosi traumatica e nevrosi da spavento (quest'ultima descritta da E. Kraepelin) precorrono l'odierno concetto di disturbo da stress post-traumatico. Molte patologie descritte come nevrosi traumatiche, nevrosi da guerra, nevrosi da combattimento, infatti, rispecchiano in gran parte gli attuali criteri diagnostici del disturbo da stress post-traumatico.

Dal punto di vista epidemiologico, nella popolazione in condizioni normali si registra una bassa percentuale del disturbo (0,5-1%), dovuta in genere a incidenti, violenze e fatti criminali. In popolazioni esposte a disastri naturali o situazioni di guerra e terrorismo, l'incidenza del disturbo da stress post-traumatico è stata rilevata in misura molto variabile, a seconda della gravità dell'esperienza stressante: dall'incidenza del 5% in caso di inondazioni si passa al 67% in quello di ex prigionieri della Seconda guerra mondiale, all'85% in quello dei sopravvissuti a campi di concentramento nazisti. Per quanto riguarda i fattori socioambientali, relazionali e intrapsichici che determinano l'insorgenza del disturbo da stress post-traumatico, devono essere presi in considerazione, da un lato, la gravità degli eventi stressanti (tra questi, prigionia, tortura, deportazione, situazioni di guerra, disastri naturali, rapimenti, attentati), dall'altro, le caratteristiche individuali di reazione. La maggior parte degli studi sembra suggerire che il rischio di insorgenza del disturbo da stress post-traumatico sia legato principalmente alla gravità e alla quantità di esposizione diretta a eventi stressanti, e solo secondariamente alla presenza di preesistenti disturbi psicopatologici e della personalità. La patogenesi del disturbo da stress post-traumatico trova attualmente spiegazione nei modelli di tipo cognitivo, nei quali i sintomi vengono interpretati come una condizione acuta di sovraccarico della possibilità di processamento delle informazioni in arrivo da parte del sistema nervoso centrale, conseguenti all'esposizione a un fatto traumatico esterno che supera le immediate possibilità di processamento del sistema nervoso stesso (v. ansia; stress).

5.

Effetti derivati dall'uso di armi non letali

Si definiscono non letali le armi esplicitamente progettate per prevenire, rilevare, precludere o neutralizzare l'impiego di mezzi letali, senza pericolo di vita né effetti disastrosi nei confronti delle persone, delle cose e dell'ambiente. Nonostante l'uso di armi non letali (tra cui il laser a bassa energia, munizioni antiuomo con effetto stordente e lacrimogeno, schiume, virus informatici, infrasuoni, microonde ad alta potenza) non possa essere considerato una panacea per la risoluzione dei conflitti internazionali o di ordine interno, tuttavia, in uno scenario molto complesso e vario, caratterizzato dalla simultaneità e globalizzazione delle informazioni, si deve tenere presente che l'applicazione della forza militare non può più essere brutale, ma tale da permettere il conseguimento degli obiettivi previsti tanto riducendo al massimo le perdite in termini di vite umane quanto limitando i danni alle cose e al contesto ambientale. L'utilizzo di armi non letali, pur comportando notevoli vantaggi (per es., selettività degli obiettivi, destabilizzazione dell'avversario, deterrenza a costi accettabili, reazione positiva nella pubblica opinione, effetto sinergico alle armi letali), è associato comunque a molteplici problematiche che ne costituiscono gli aspetti negativi (per es., impatto psicologico, reperimento dei materiali, addestramento, moralità e legittimità, comando e controllo). In particolare, da studi effettuati negli USA si evince che l'impatto psicologico sull'avversario è tanto più intenso quanto meno conosciuti sono gli effetti delle armi non letali impegnate e quanto meno prevedibile è il loro impiego; e ciò si manifesta generalmente in una notevole ansia, in un crescente senso di frustrazione e insicurezza. Inoltre, la neutralizzazione e cattura di molti avversari, o la neutralizzazione di altri assetti vitali, può erodere la fiducia della parte avversa nelle proprie capacità operative e minarne la volontà di continuare il conflitto. Alla luce di quanto si è detto sugli effetti biomedici delle armi letali (convenzionali, biologiche, chimiche, nucleari) e non letali, appare evidente come l'orientamento sia verso la prevenzione e la limitazione dei danni sull'uomo e sull'ecosistema, nel rispetto dei principi della proporzionalità dell'uso della forza e della discriminazione fra i combattenti e la popolazione civile coinvolta nel conflitto.

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