GUIDO d'Arezzo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 61 (2004)

GUIDO d'Arezzo (Guido Aretinus)

Cesarino Ruini

Monaco benedettino e teorico della musica attivo nella prima metà dell'XI secolo, il suo nome è legato a un gruppo di scritti di teoria musicale trasmessi da una tradizione folta e compatta a partire dalla fine dell'XI secolo: Micrologus, Prologus in antiphonarium, Regulae rhythmicae, Epistola ad Michaelem.

L'originalità e l'efficacia delle sue geniali intuizioni pedagogiche, che hanno segnato profondamente la civiltà musicale occidentale, gli procurarono una vasta fama nonché un'autorità indiscussa e ininterrotta fin dentro l'Età moderna. La frequente ricopiatura, i commentari e le innumerevoli citazioni delle sue opere, o l'attribuzione a lui di opere non sue o di suoi omonimi, ne fanno il teorico più diffuso e studiato nel Medioevo dopo Boezio.

È comprensibile che diverse località in Italia rivendichino l'onore di avere dato i natali a G.; d'altro canto, qualche malinteso occorso nella copiatura dei suoi scritti o un'affrettata lettura delle fonti hanno alimentato fin dall'epoca rinascimentale la tradizione di una sua lunga permanenza in Francia (J. Trithemius, De scriptoribus ecclesiasticis, Coloniae 1546, p. 135) o, in epoca moderna, l'opinione (poi ritrattata) di una sua formazione nel monastero di Saint-Maur-des-Fossés presso Parigi (Morin, 1895, pp. 395 s.), come non è mancato chi lo ha voluto di patria inglese oppure greco o lo ha fatto emigrare in Catalogna. Nella totale mancanza di fonti documentarie, che ricerche d'archivio quasi centenarie non sono riuscite a portare in luce, le uniche notizie relative alla sua vita sono ricavabili dagli scarsi spunti autobiografici presenti nelle sue opere, compreso il nome che, nella forma autentica, compare senza il toponimico Aretinus, tanto nell'acrostico in esametri e nella lettera dedicatoria premessi al Micrologus, quanto nell'Epistola ad Michaelem.

Nel dedicare la propria opera principale, il Micrologus, a Tedaldo dei Canossa, vescovo di Arezzo (1023-36), G. afferma di averla scritta su mandato del vescovo stesso, istituendo un nesso tra il suo lavoro e l'attività pastorale del prelato, che egli esplicitamente encomia a proposito del felice completamento della cattedrale aretina di S. Donato (1026-32). Il trattato è presentato come sintesi dell'insegnamento impartito dal monaco ai fanciulli cantori di Arezzo (impegno probabilmente collaterale a quello, che sembrerebbe prevalente, di studio e predicazione della Sacra Scrittura svolto presso la sede vescovile), la cui bravura li ha resi noti anche fuori dai confini della diocesi. La fama di tale scuola, che riduceva a un anno o due il tirocinio decennale necessario fino allora per formare un perfetto cantore ecclesiastico, indusse il papa Giovanni XIX a chiamare presso di sé il musico perché gli illustrasse il suo metodo, basato sul nuovo sistema di notazione su rigo che consentiva l'esecuzione dei canti a prima vista. G., recatosi a Roma in compagnia di Pietro, preposto dei canonici della cattedrale di Arezzo (documentato nelle carte aretine tra il 1025 e il 1033: cfr. Samaritani, 2000, p. 112), e dell'abate Grunvaldo (forse un ignoto Grünwald di origine germanica), ottenne dal pontefice un riconoscimento prestigioso delle proprie innovazioni pedagogiche e l'invito a ritornare per istruire il clero romano. Il resoconto di questa visita, riportato nella Epistola di G. al confratello Michele dell'abbazia di Pomposa, è arricchito di interessanti particolari e riferimenti a personaggi e avvenimenti che, oltre a comprovare la provenienza pomposiana dell'autore, ne fanno un documento rivelatore del suo temperamento e di alcune sue vicende personali.

Si tratta di una pagina in cui, accanto alla contenuta soddisfazione per il successo conseguito dalle sue innovazioni, emerge tutta l'amarezza per l'avversione con cui queste erano state accolte all'origine nell'ambiente di Pomposa. L'ottusa invidia dei colleghi, gelosi custodi della tradizione (tema ricorrente nel pensiero di G.), aveva vanificato la caritas animatrice del suo impegno per il bene comune: abbreviando il lungo periodo necessario per l'apprendimento mnemonico dei canti liturgici, si sarebbe potuto dedicare più tempo alla preghiera e allo studio dei testi sacri. Ma la novità poteva essere sentita come una minaccia contro "le posizioni di casta di un'intera categoria di addetti" (Ropa, pp. 24-28).

Può darsi che in queste incomprensioni, di cui fu responsabile anche l'abate Guido di Pomposa (998-1046), stia la causa del suo forse volontario allontanamento dal monastero. Ad Arezzo sembra, invece, che egli abbia trovato un ambiente congeniale ai propri ideali, incontrando in Tedaldo, deciso oppositore della diffusa pratica della simonia e impegnato nel rinnovamento spirituale e temporale della diocesi, un convinto sostenitore del suo programma. Nella lettera a Michele, G. riferisce anche di avere incontrato, dopo l'udienza papale, l'abate Guido che, pentitosi di avere parteggiato un tempo per i suoi oppositori, lo aveva convinto a rientrare nel monastero. Ma il ritorno, dapprima procrastinato, non si sa se sia mai realmente avvenuto. G. è documentato per l'ultima volta ad Arezzo, il 20 maggio 1033, in un atto, quasi certamente da lui stesso dettato e sottoscritto su mandato di Pietro, priore di Camaldoli, in cui il vescovo Tedaldo devolveva a favore dell'eremo le decime sui commerci degli aretini.

Se ciò è prova di un particolare legame tra G. e l'ordine di Camaldoli negli anni di Arezzo, una conferma della sua formazione monastica a Pomposa si può scorgere nel rapido schizzo che Donizone gli dedica in Vita Mathildis, poema celebrativo della contessa Matilde di Canossa (ed. con trad. italiana a fronte in Matilde e Canossa, a cura di U. Bellocchi - G. Marzi, Modena 1970, p. 120, v. 497): le parole "musicus, et monachus, nec non heremita beandus" sembrano richiamare in modo esplicito il particolare tipo di monachesimo pomposiano, che contemperava il cenobitismo con l'eremitismo romualdino. Nessuna convalida, invece, esiste sul piano storico della tradizione (ininterrotta, a partire dal Cinquecento, tra i camaldolesi, i quali, tra l'altro, lo venerano come beato) secondo la quale, dopo Arezzo, G. sia stato priore dell'eremo di Fonte Avellana, terminandovi i suoi giorni intorno al 1050.

È questione aperta anche la determinazione del luogo di nascita: il territorio di Pomposa rappresenterebbe l'origine più naturale per un novizio che ha ricevuto la sua formazione in quel monastero, come sembrerebbe confermare l'affermazione "me vides prolixis finibus exulatum" di G. nella lettera al confratello Michele. Ad Arezzo, come città natale, ha invece fatto pensare l'espressione "aestivo fervore in locis maritimis alpestribus nobis minante excidium", con cui, sempre nella stessa lettera, egli giustifica il suo forzato ritorno in tutta fretta dalla visita al papa, non riuscendo a sopportare la calura estiva di Roma. Ma l'assuefazione al clima della città appenninica, cui allude "alpestribus", può benissimo spiegarsi in relazione alla dimora abituale di G. in quel periodo, senza nulla implicare sulle sue origini.

I quattro scritti di teoria musicale sono trasmessi concordemente (anche se con notevoli varianti interne), come corpus compatto sotto il suo nome, da quasi una settantina di codici copiati tra la fine dell'XI e il XVI secolo e riflettono i diversi momenti di elaborazione di una dottrina unitaria e coerente. Quanto alla loro stesura, non esistono riferimenti certi per datazioni precise, se non nel caso dell'Epistola ad Michaelem che, contenendo un rinvio alle altre tre opere, dev'essere stata scritta per ultima. In base a considerazioni contenutistiche, per lo più gli studiosi tendono a collocare la redazione del Prologus in antiphonarium e delle Regulae rhythmicae dopo quella del Micrologus. Se si tiene conto del riferimento alla nuova cattedrale inserito nella dedica del Micrologus, tutta la produzione di G. avrebbe quindi visto la luce ad Arezzo tra il 1026 (la stesura del trattato potrebbe verosimilmente essere iniziata durante gli anni di edificazione della chiesa, anche se la dedica allude al suo compimento) e il 1032, ultima data possibile per l'incontro con Giovanni XIX, narrato nell'Epistola, essendo il papa morto in quell'anno. Per Oesch (p. 113), invece, il Prologus in antiphonarium, inteso come introduzione ai libri di musica che G. avrebbe cominciato a scrivere secondo il suo nuovo sistema di notazione, sarebbe stato composto a Pomposa intorno al 1020, provocando i contrasti che condussero all'allontanamento dal monastero.

Il Micrologus non è, in senso stretto, un manuale per l'addestramento del musicista principiante: più adatti a questo scopo sono gli altri scritti, che espongono le metodologie didattiche e le soluzioni pratiche messe in atto nella sua scuola perché l'allievo familiarizzi con i suoni e il nuovo sistema di notazione musicale e impari a cantare senza maestro. Intento principale del libro è di fornire un fondamento teorico alle innovazioni tecniche e di presentare lo studio della musica come un processo di conoscenza capace di stimolare nel cantore ecclesiastico, insieme con l'autonomia e la perizia esecutiva, una coscienza più autentica della propria missione. Per la prima volta nella storia della teoria musicale un trattato affronta una messe così ampia di tematiche, selezionate in base alla loro attinenza con gli aspetti pratici dell'arte ed esposte con rigore, ma anche con una palese aspirazione alla massima brevità e chiarezza. Il modo stesso di affrontare la materia è esemplare: si procede dal semplice al complesso, vengono allegate esemplificazioni dimostrative che fanno riferimento all'esperienza e all'udito come fattori indispensabili per la comprensione, si presta sempre una particolare attenzione alla precisione terminologica.

Dopo un primo capitolo propedeutico, viene l'illustrazione dei gradi della scala, rappresentati secondo la notazione alfabetica (capitolo 2) e riportati sul monocordo (capitolo 3), uno strumento sperimentale, di centrale importanza didattica, costituito da una corda tesa su di una cassa armonica: l'allievo doveva esercitarsi nell'intonare e nel riconoscere i suoni utilizzando porzioni di corda di diversa lunghezza, corrispondenti alle partizioni segnate sulla cassa (G. riporta due sistemi di divisione). Segue l'esposizione degli intervalli musicali (capitoli 4-6), dal semitono alla quinta (diapente); particolare enfasi viene posta sull'ottava (diapason), l'unico intervallo costituito da suoni perfettamente simili ("perfectissima similitudo"), alla base del particolare sistema di notazione alfabetica adottato. I successivi capitoli (7-9) sono dedicati alla ricognizione dell'affinità tra i suoni ("affinitas vocum"), dovuta alle analogie che si verificano tra le posizioni di alcune note nella scala rispetto alla dislocazione di toni e semitoni: si tratta di una singolare categoria, che rende possibile la trasposizione tonale (consigliata, in particolare, per evitare il Si bemolle, sentito come suono non naturale) e apre la strada alla teoria degli otto modi esposta nei capitoli seguenti (10-14). Esemplare per chiarezza, la sistemazione della modalità elaborata da G. (formule d'intonazione, ambito melodico, note predominanti e finali, metodo per riconoscere se una melodia è modalmente corretta, capacità dei modi di muovere determinati affetti) resterà normativa per tutto il Medioevo. Entrando nel vivo del discorso musicale, viene abbozzata una specie di estetica in nuce del canto gregoriano, finalizzata a un armonioso sviluppo della sensibilità del cantore (capitoli 15-16): improntate al lessico tecnico della grammatica e della metrica, le forme compositive e le regole per la conduzione melodica, che mai avevano ricevuto un'attenzione così approfondita, prospettano il modello dell'equilibrio nella varietà nei movimenti e del proporzionato rapporto tra i suoni che compongono le diverse parti di un canto. Totalmente nuovo e originale è poi il metodo per avviare l'allievo alla composizione (capitolo 17), realizzato partendo dalle vocali del testo da mettere in musica, a cui vengono fatte corrispondere determinate note in forma via via sempre più libera.

La sezione sulla polifonia (capitoli 18-19), anche se eccezionalmente ricca di esempi musicali, è poco più che un'appendice della trattazione sul canto monodico. In genere, tutte le opere scritte agli albori della trattatistica musicale medievale prestano scarsa attenzione a questa modalità di canto, limitandosi a registrare, sporadicamente, alcuni aspetti di tecniche improvvisative, a quanto pare molto diffuse, consistenti nell'aggiunta di una seconda voce a una melodia data. G. menziona un tipo di organum per quarte e quinte parallele, leggermente evoluto rispetto a quello codificato nella Musica enchiriadis (in Musica et scolica enchiriadis una cum aliquibus tractatulis adiunctis, a cura di H. Schmid, München 1981, pp. 1-59) poco più di un secolo prima, ma a questo, definito "modus durus", contrappone un "modus […] noster vero mollis", descrivendo una forma di diaphonia più duttile (è ammesso anche il moto obliquo delle parti per terze e seconde), in cui si può riconoscere l'unica precoce testimonianza di contrappunto alla mente, documentato in modo indiretto da fonti duecentesche dell'Italia settentrionale e, in particolare, toscane (Cattin, pp. 77-86).

Nell'ultimo capitolo, il conciso racconto della mitica scoperta delle consonanze da parte di Pitagora e il laconico accenno all'approfondimento teorico delle proporzioni musicali di Boezio se da un lato mettono in rilievo la concezione agostiniana di un costante sviluppo storico della disciplina ("ars paulatim crescendo convaluit"), di cui il suo trattato segna il punto d'arrivo, dall'altro, nella loro brevità, sembrano voler sottolineare la distanza di G. dalla remotissima ma durevole tradizione di pensiero puramente matematico-speculativo sulla musica. Nessun riferimento, quindi, ai classici della cultura musicale tardoantica (Censorino, Macrobio, Marziano Capella, Cassiodoro, Isidoro di Siviglia); il suo retroterra è la trattatistica musicale sviluppatasi nei monasteri francesi e tedeschi in epoca carolingia, di cui la Musica enchiriadis, anche se con qualche riserva, è esplicitamente citata come modello. Come per l'anonimo Dialogus de musica (Scriptores ecclesiastici, a cura di M. Gerbert, I, S. Blasii 1784, pp. 252-264), un trattato attribuibile a un monaco probabilmente attivo in area padana nel sec. XI (Huglo, 1969, pp. 138, 169-171) che presenta straordinari punti di contatto col Micrologus, secondo G., al musicista di professione, per risalire dall'infimo grado della scala intellettuale cui l'ha relegato un usus meccanico e ripetitivo, non serve tanto conoscere l'armonia delle sfere o l'astrusa teoria delle proporzioni, bensì sapere utilizzare in maniera razionale le regole fondamentali dell'arte e i metodi di notazione più efficaci e aggiornati.

Nelle altre tre opere, di mole più contenuta, prevale l'intento pratico e trovano luogo le innovazioni tecniche che hanno reso G. celebre. Il Prologus in antiphonarium, riferito in alcuni manoscritti col titolo Aliae regulae, è un opuscolo propedeutico ai libri di canto liturgico scritti con il nuovo sistema di notazione da lui propugnato, di cui spiega i principî di funzionamento.

Questo consiste nel riportare i segni della notazione musicale (neumi), già in uso da più di un secolo secondo una tipologia definita "adiastematica" o "in campo aperto" che non specificava l'altezza dei singoli suoni (i canti erano imparati a memoria, i neumi registravano sulla pergamena solo sfumature esecutive), su di un rigo composto da più linee contrassegnate da lettere-chiave, in modo da indicare con esattezza l'intonazione di ogni punto dell'andamento melodico (per maggiore chiarezza la linea del Fa è colorata di rosso, quella del Do di giallo). In effetti, le potenzialità di spazializzazione verticale insite nella notazione neumatica erano già state avvertite da qualche notatore di libri liturgici: nei manoscritti di area beneventana della fine del sec. X si trova talvolta applicato il principio di rappresentare la distanza tra i suoni collocandoli con cura ad altezze diverse. Il merito di G. sta nell'avere razionalizzato e reso coerente il sistema, che dopo di lui si impose fino a soppiantare gradualmente la vecchia notazione (una mappa della primitiva propagazione della notazione guidoniana è offerto dalle testimonianze raccolte da Smits van Waesberghe, 1953, pp. 52-61, e G. Baroffio). Tra i vantaggi da mettere in conto alla notazione su rigo, oltre al risparmio di tempo nella fase di apprendimento, G. evidenzia la possibilità di eliminare le inevitabili divergenze che sorgono tra scuola e scuola, addirittura tra un cantore e l'altro, quando la trasmissione delle melodie è affidata unicamente alla voce e alla memoria. Non si può disconoscere in ciò un riflesso dell'aspirazione all'uniformità, presente come istanza di fondo nella riorganizzazione della vita liturgica promossa dagli imperatori carolingi e rinvigorita dai movimenti di riforma che si diffondono dopo il Mille.

Le Regulae rhythmicae - un poemetto di 237 tetrametri trocaici catalettici, a base accentuativa, raggruppati in strofe tristiche rimate - riespongono, in forma concisa e con qualche semplificazione, tutta la materia del Micrologus (scala, notazione alfabetica, monocordo e consonanze, affinità tra suoni, modalità) e del Prologus in antiphonarium (notazione su rigo). Il testo è chiaramente concepito per gli allievi alle prime armi: come avveniva in altri settori del sapere medievale, esso doveva facilitare l'apprendimento a memoria dei fondamenti della disciplina per mezzo della versificazione e con l'ausilio, pare, di una melodia ripetuta identica su ogni verso, che è stata conservata in qualche codice.

Scritto di carattere personale, l'Epistola ad Michaelem (conosciuta anche come Epistola de ignoto cantu) contiene, insieme con i capisaldi generali della sua teoria, la scoperta didattica più originale di G.: il metodo della solmisazione.

L'allievo doveva imparare ad associare i suoni di una scala ascendente di sei note (esacordo naturale) alle sillabe iniziali dei primi sei emistichi di un noto inno a s. Giovanni Battista ("UT queant laxis - REsonare fibris | MIra gestorum - FAmuli tuorum | SOLve polluti - LAbii reatum"), le cui frasi melodiche (forse composte ad hoc dallo stesso G.) iniziano ciascuna su di un grado più acuto della precedente. In tal modo, l'intonazione dei singoli suoni associata alle sillabe (Ut, Re, Mi, Fa, Sol, La) resta più stabilmente impressa nella memoria e può essere richiamata alla bisogna. Con un minimo di esercizio, che comportava lo studio degli intervalli e l'acquisizione di dimestichezza con l'ambiente intervallare dei singoli suoni, chiunque avrebbe potuto eseguire a prima vista una melodia scritta mai udita prima o trascrivere in note una melodia ascoltata.

È ormai pacificamente ritenuta opera di G. anche una Epistola ad archiepiscopum Mediolanensem (Ariberto, arcivescovo di Milano dal 1018 al 1045), attribuita da qualche antico manoscritto a un papa Pasquale. L'argomento - una dura requisitoria contro la simonia, di tono apocalittico e intrisa di citazioni bibliche - è compatibile con il clima antisimoniaco della curia di Arezzo retta da Tedaldo, che, come conferma l'Epistola ad Michaelem, G. condivideva.

L'importanza di G. nella storia della musica sta, da un lato, nell'avere creato, con il Micrologus, una pedagogia musicale fondata sull'esperienza razionale ed essenzialmente orientata alla formazione pratica del cantore (il libro divenne un modello per la trattatistica musicale successiva); dall'altro, nell'avere sottratto, con l'invenzione della solmisazione e il perfezionamento della notazione su rigo, la trasmissione della musica dal dominio esclusivo dell'oralità. La portata rivoluzionaria di tali innovazioni si misura soprattutto negli effetti connessi con la diffusione della musica scritta: stabilità nella trasmissione di generi, forme e opere; possibilità di una loro conservazione dopo che sono caduti in disuso; affrancamento dell'esecutore dalla precarietà della memoria e, soprattutto, dalla necessità di un insegnante per l'apprendimento di ogni nuova composizione.

Già a partire dalla seconda metà del sec. XI, G. compare nel canone degli scrittori più autorevoli dell'ars musica, divenendo man mano, nel corso del secolo successivo, il prototipo della teoria musicale incentrata sulla prassi e, dopo il 1200, della musica plana contrapposta alla musica mensurabilis. La precoce diffusione dei suoi scritti, anche al di là delle Alpi, ha comportato che, a partire dalla fine del sec. XI, soprattutto del Micrologus venissero allestite parafrasi e trascrizioni commentate o ampiamente interpolate, fino alla redazione di nuovi trattati, trasmessi poi sotto il suo nome (per un ragguaglio dettagliato cfr. Smits van Waesberghe, 1953, pp. 141-146, 224-226, e Hirschmann, 2002, coll. 226 s.). Per questa via, nella trattatistica musicale medievale e rinascimentale entrarono un paio di elementi dottrinali stabilmente legati al suo nome, che non trovano però riscontro nelle opere a lui sicuramente attribuibili. Il più noto, la cosiddetta "mano guidoniana", è mutuato dalle tecniche di memorizzazione che fin dalla tarda antichità avevano trovato svariate applicazioni, come, per esempio, nel computo delle calende o della data della Pasqua. Poco più che un espediente per facilitare l'apprendimento delle lettere della gamma musicale e delle relative sillabe della solmisazione, associandole una a una, con un movimento a spirale, alle articolazioni e alle estremità delle dita della mano sinistra, essa divenne quasi l'emblema stesso dell'istruzione musicale.

Sorte analoga toccò alla dottrina delle mutazioni, una specie di tabella in cui si faceva corrispondere l'esacordo naturale con le 22 lettere della gamma musicale ogni volta che questa presentava la stessa successione intervallare dell'esacordo stesso, in modo tale che le sillabe Mi-Fa coincidessero sempre con i punti critici occupati da un semitono. Chiaramente derivata dalla nozione dell'affinità tra i suoni (capitoli 7-9 del Micrologus), essa servì allo scopo pratico di cantare melodie estese oltre l'ambito di un esacordo con le sole sei sillabe dell'esacordo naturale, evitando in tal modo, almeno nominalmente, l'uso di alterazioni come il bemolle, connotate sempre con un'accezione negativa nel pensiero medievale perché collocate fuori dell'ordine naturale. Nel sec. XIII questo procedimento convenzionale venne condensato in formulette mnemoniche che furono riportate sulla mano guidoniana: nel nome di G. il musicista poteva così essere persuaso di avere l'essenziale della teoria musicale a portata di mano.

Edizioni e traduzioni: Tutte le opere musicali di G. sono state raccolte per la prima volta da M. Gerbert, Scriptores ecclesiastici de musica sacra, II, S. Blasii 1784, pp. 2-50 (rist. anast. Hildesheim 1964), poi da J.-P. Migne, Patr. Lat., CXLI, coll. 379-432.

Micrologus: a cura di A.M. Amelli, Romae 1904; l'ed. critica di riferimento è a cura di J. Smits van Waesberghe, [Roma] 1955 (nella serie Corpus scriptorum de musica, 4); trad. tedesca a cura di M. Hermesdorff, Trier 1876, e di R. Schlecht, in Monatshefte für Musikgeschichte, V (1873), pp. 135-177; trad. inglese a cura di W. Babb - Cl.V. Palisca, Hucbald, Guido, and John on music. Three medieval treatises, New Haven-London 1978, pp. 47-83; trad. francese a cura di M.-N. Colette - J.-Chr. Jolivet, G. d'A. Micrologus, Paris 1993.

Prologus in antiphonarium: a cura di J. Smits van Waesberghe, Buren 1975 (nella serie Divitiae musicae artis, A.III).

Regulae rhythmicae: a cura di J. Smits van Waesberghe - E. Vetter, Buren 1985 (nella serie Divitiae musicae artis, A.IV).

Epistola ad Michaelem: trad. tedesca a cura di M. Hermesdorff, Trier 1884.

Nuova ed. critica dei tre trattati con trad. inglese a cura di D. Pesce, G. d'A.'s "Regule rithmice", "Prologus in Antiphonarium" and "Epistola ad Michaelem". A critical text and translation, Ottawa 1999.

Epistola ad archiepiscopum Mediolanensem: a cura di Fr. Thaner, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, IX, 1, Hannoverae 1891, pp. 7-9, e a cura di J. Gilchrist, Die Epistola Widonis oder Pseudo-Paschalis. Der erweiterte Text, in Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters, XXXVII (1981), pp. 576-604.

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