RENI, Guido

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 86 (2016)

RENI, Guido

Giovanna Perini Folesani

RENI, Guido. – Nacque a Bologna il 4 novembre 1575 da Daniele, musico al servizio del Governo cittadino (come sanno i biografi secenteschi) e nella cappella di S. Giacomo de’ Carbonesi (non maestro di cappella in S. Petronio, come sostenuto, per aumentarne importanza e prestigio, da David Stephen Pepper, 1988, con qualche seguito: lo smentiscono indirettamente Osvaldo Gambassi, 1987, e direttamente Luisa Ciammitti, 1988, p. 137). La madre era Ginevra Pozzi (figlia di un maestro di musica, di cui il suo bambino riprendeva il nome di battesimo, e con ampie frequentazioni nel circuito dei musicisti coevi).

Il volto anziano e severo della madre è noto, stando alla tradizione, attraverso uno straordinario ritratto dipinto da Guido, già di proprietà di Carlo Cesare Malvasia, poi in collezione Malvezzi, ora nella Pinacoteca nazionale di Bologna.

Reni dimostrò un precoce talento pittorico, e dovette resistere alle ambizioni paterne, che volevano indirizzarlo sulle sue stesse orme.

La combinazione di studi musicali e artistici affermata da Malvasia per la prima formazione di Guido non è solo frutto di un evidente compromesso familiare e/o escamotage narrativo, ma sembra coincidere anche con una consapevolezza teorica nuova nascente, a Bologna, in ambito carraccesco (grazie a Ludovico, Agostino, Annibale e soprattutto al loro zio Carlo) sotto il segno dell’ut musica pictura. Non a caso è stato osservato che Reni applica modi diversi nei suoi quadri (Emiliani, in Guido Reni 1575-1642, 1988, pp. LVI-LX) in relazione allo studio delle espressioni. Se talora accompagnava il lavoro con il canto, o suonava con poca grazia il clavicembalo, anche il concerto da camera che gli venne offerto dagli amici per gli ultimi giorni della sua malattia mortale dimostra l’importanza che la musica ebbe sempre per lui, ben più della letteratura, come notò con acutezza Malvasia, parzialmente smentito da moderne congetture. Anche il romano Giovanni Battista Passeri ne ricorda la passione per il canto.

Entrato dapprima nella bottega affermata del pittore fiammingo Denys Calvaert, esponente a Bologna di un manierismo elegante, ricco di echi nordici e protetto dalla stessa famiglia (i Bolognini) che sponsorizzava Daniele Reni, Guido ne mostrò evidenti tracce stilistiche nelle sue prime opere, in particolare la documentata lunetta ad affresco nella villa del pittore Cesare Aretusi con la Sacra Famiglia e s. Giovannino (ora in coll. privata bolognese), nonché in taluni dettagli della pala con l’Incoronazione della Vergine e quattro santi dipinta per gli olivetani di S. Bernardo a Bologna all’epoca del passaggio del giovane pittore nell’Accademia dei Carracci (Pinacoteca nazionale di Bologna), poco dopo la morte del padre (1594). Tali eleganze grafiche tendono a permanere anche in dipinti più maturi. Sempre per gli olivetani (di S. Michele in Bosco) dipinse il S. Eustachio ora a Genova (Galleria Durazzo Pallavicini). La contiguità tra la scuola del Calvaert e quella dei Carracci è comprovata non solo dal frequente passaggio di allievi del fiammingo presso i tre giovani innovatori, ma anche dai buoni rapporti personali intrattenuti da lui con Ludovico e dalla sua adesione personale all’Accademia carraccesca. In essa Guido Reni approfondì gli studi dal modello, apprese la tecnica dell’incisione e, soprattutto, imparò a modellare la terracotta: la Testa di Seneca, realizzata più tardi a Roma, è ricordata per primo da Malvasia, così come la giovanile statua di S. Pietro (il biografo non cita invece quella di S. Paolo, anch’essa a lui ascrivibile; Riccomini, 1972) nella chiesa di S. Cristina, celebre per il suo coro di monache, uno dei maggiori centri musicali e artistici della città, posto lungo la strada (la Fondazza) in cui, prima di Giorgio Morandi, abitò Reni ragazzo. Inoltre Guido cominciò a produrre opere autonome: talora come parte della squadra di Ludovico (ad esempio, per i Misteri del Rosario in S. Domenico e poi, verso il 1600, per le scene ad affresco nell’oratorio di S. Colombano), spesso anche in proprio, lavorando per privati ed ecclesiastici (ad esempio, la pala con la Vergine, s. Domenico e i Misteri del Rosario, in S. Luca; quella con l’Assunzione a Pieve di Cento; l’Assunzione in rame già Sampieri), ma anche per committenti pubblici: si pensi alle famose figurine dipinte nel 1598 come parte dell’apparato sulla facciata del Palazzo comunale per la visita in città di papa Clemente VIII Aldobrandini di ritorno da Ferrara, in occasione della Devoluzione.

Un tempo si credeva che esse fossero affatto perdute e che un’acquaforte dello stesso Reni riproducente l’apparato ne fosse l’unica testimonianza visiva: in realtà qualche frammento staccato dell’affresco con le Virtù, fatto eseguire subito dopo allo stesso Reni dentro al Palazzo per eternare l’apparato temporaneo, è stato riconosciuto una ventina d’anni fa nei depositi della Pinacoteca nazionale di Bologna (Bentini et. al., 2008, pp. 46-48, n. 29a-b).

Poco dopo, forte di questa prima esperienza nella tecnica dell’affresco, dipinse le volte di due sale di palazzo Zani con una Caduta di Fetonte (ancora in situ) e un’allegoria della Luce separata dalle Tenebre: staccata nell’Ottocento e venduta, si trova da allora in Inghilterra (Kingston Lacy). Al contempo continuò lo studio sui migliori testi figurativi dei contemporanei (a partire dai Carracci stessi) e del passato, tra cui ovviamente Raffaello: perciò quando, al volgere del secolo, gli venne commissionata dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati per tramite del bolognese Placido Fava, olivetano (Ordine sotto la protezione del presule), una copia dell’Estasi di s. Cecilia di Raffaello per la chiesa della santa a Roma (Trastevere), gli fu facile e rapido prepararla: non era la prima. Benché a lungo sia stata identificata con la pala, molto rimaneggiata e di qualità imbarazzante, oggi in S. Luigi dei Francesi, altre copie del dipinto attribuibili a Reni possono costituire un’identificazione più verosimile (Economopoulos, 2013).

Di fatto questo dipinto fu il biglietto di presentazione dell’artista a Roma, dove si recò, presumibilmente alla fine del Giubileo del 1600, assieme a Francesco Albani, fors’anche a causa di alcuni dissapori con Ludovico Carracci, frutto di sottaciute rivalità: ivi produsse, con la stessa committenza, altri due quadri per S. Cecilia in Trastevere (il tondo con l’Incoronazione dei ss. Cecilia e Valeriano, che dimostra chiara memoria delle eleganze calvaertiane tradotte in un fare più naturale e con uno scorcio prospettico di impronta ludovichiana; il Martirio della santa, in cui la citazione raffaellesca per la figura femminile si accompagna a un oscuramento dello sfondo, quasi caravaggesco). Questo primo, breve soggiorno romano venne interrotto dal rientro in patria determinato dalla morte di Agostino Carracci e dall’allestimento della macchina per i suoi funerali pubblici, solennemente celebrati dall’Accademia degli Incamminati (1602-03): anche Reni vi partecipò. Ciò lo indusse a collaborare anche, con una storia relativa a s. Benedetto (nella quale si sarebbe ritratto en travesti), alla decorazione del chiostro di S. Michele in Bosco affidata a Ludovico Carracci e ai suoi più stretti collaboratori: la tecnica prescelta per il ciclo (olio su muro) ne ha impedito la corretta conservazione, tanto che Reni stesso, trent’anni dopo, dovette reintervenire per restaurare il proprio dipinto, senza che ciò gli abbia però consentito di giungere leggibile ai nostri giorni. Risale probabilmente a questo periodo anche qualche quadro di incerta destinazione, come la Disputa dei ss. Pietro e Paolo già Sampieri (ora a Milano, Pinacoteca di Brera).

L’occasione di una perizia che gli venne richiesta a Loreto per un lavoro di Lionello Spada (e forse la speranza di ottenervi una commissione, oppure di andare a finire, in una chiave già paracaravaggesca, il Cristo alla colonna, ora a Francoforte, per lo Sfondrati, protettore anche del monastero romano di S. Prassede, nella cui chiesa si conserva la reliquia della detta colonna) lo riportò sulla strada per Roma: ivi, dopo un approccio infelice con Annibale, si mise (stando a Malvasia) sotto la protezione artistica del Cavalier d’Arpino (certamente sensibile alla grazia del tondo di Trastevere) e «mutò maniera», cercando di battere Caravaggio imitandolo (Crocifissione di s. Pietro, ora nella Pinacoteca Vaticana, commissionatagli dal cardinale Pietro Aldobrandini nel 1604; David con la testa di Golia, ora al Museo del Louvre).

A differenza dello Spada, però, Reni concepì il caravaggismo solo come una fase transitoria, sperimentale, applicata con felicità per lo più a opere profane o allegoriche di destinazione privata (ad esempio, Amor sacro e amor profano, a Pisa e a Genova; Carità, a Firenze) e che parzialmente riaffiora, addomesticata, in opere più tarde, dell’inizio del secondo decennio, anche di ambito sacro, sempre a destinazione privata come il S. Sebastiano di Parigi e quello di Madrid, o in pale di destinazione provinciale (Martirio di s. Caterina d’Alessandria, il cui committente, il banchiere ligure Ottavio Costa, era protettore anche di Caravaggio; ora il quadro è nel Museo diocesano di Albenga). Il S. Sebastiano di Genova (con le sue varie copie e repliche) riporta invece a un notturno vibrante, naturalisticamente inteso, come quello del Sansone, commissionato a Reni dal conte bolognese Francesco Maria Zambeccari, denso di suggestioni per le successive, raffinatissime interpretazioni barocchette di Donato Creti.

A Roma la committenza del papa Borghese lo impegnò soprattutto in lavori ad affresco in sedi di notevole prestigio, come i soffitti di due sale in Vaticano, rispettivamente con le Storie di Sansone e con le scene della Trasfigurazione, Ascensione e Pentecoste (datati 1608). Vi prevalgono toni chiari e cieli azzurri, come nel S. Andrea trascinato al martirio in S. Gregorio al Celio, affrescato su commissione del cardinal nipote, Scipione Borghese, a gara con il Domenichino, che di fronte era incaricato di dipingere la Flagellazione del santo.

Come noto, sull’esito della gara gli storici secenteschi si divisero: il verdetto di Annibale Carracci a favore del suo prediletto Domenichino, riportato con approvazione da Giovanni Pietro Bellori (1672, 1976, pp. 318 s.), si era basato sulle reazioni di «una vecchiarella», cioè di una persona devota, semplice, poco istruita, del tutto digiuna dei principi della valutazione critica di un’opera d’arte e però sensibile al contenuto drammatico delle scene. Ebbe facile gioco, l’avvocato Malvasia, a contestare il valore limitato di tale parere, fondato sull’empatia più che sulla capacità comunicativa, dato che le emozioni suscitate dalle due scene, profondamente diverse per contenuti e situazioni, non potevano essere comunque uguali (Malvasia, 1678, p. 17).

In ogni caso la piena soddisfazione della committenza Borghese è provata dal successivo, prestigioso incarico affidato a Reni (non al rivale) di affrescare tutta la cappella dell’Annunciata nel palazzo pontificio del Quirinale: ivi Reni si avvalse in più parti dell’aiuto di vari emiliani di scuola carraccesca, ma dipinse da solo la pala d’altare con la scena titolare. Poco dopo, nel 1610, gli fu affidata anche la decorazione, sempre ad affresco e sotto la direzione artistica del Cavalier d’Arpino, di parti della cappella Paolina in S. Maria Maggiore, di proprietà Borghese: i lavori furono brevemente interrotti per dissapori del pittore con il tesoriere, a causa dei quali Reni rientrò in tutta fretta a Bologna.

Nella narrazione malvasiana (pp. 20-25) l’episodio pare esemplarsi sul comportamento del Michelangelo vasariano all’epoca degli affreschi della volta della Sistina.

In patria, dopo un breve periodo di sbandamento in cui, gettati i pennelli, avrebbe tentato la professione del mercante d’arte, convinto da amici e colleghi (compreso Calvaert) ricominciò a dipingere, dapprima operette veloci e poco impegnative, quindi un’affollata ma ben composta pittura di storia (la Strage degli Innocenti per la cappella Berò, poi Ghisilieri, in S. Domenico) e il già ricordato Sansone vittorioso come sopracamino di palazzo Zambeccari (entrambi nella Pinacoteca nazionale di Bologna), un sopracamino ad affresco in palazzo Marescalchi (oggi Orlandini) e qualche piccolo affresco nel convento dei serviti. Tornato a Roma nel 1612, oltre a completare la cappella Paolina, affrescò l’Aurora nella volta del casino allora di proprietà di Scipione Borghese (oggi Rospigliosi Pallavicini), mentre per la loggia del palazzo contiguo, prospiciente il giardino, dipinse alcune coppie di putti, in un pergolato affrescato da Paolo Brill. Fatta una breve puntata a Napoli, documentata ma di incerto scopo, rientrò a Bologna, dove (a parte qualche commissione privata come Lot e le figlie in fuga, ora nella National Gallery di Londra) ebbe prestigiose occasioni di lavoro nelle chiese cittadine: in primis l’affresco con la Gloria di s. Domenico nella volta della cappella con l’arca del santo in S. Domenico (terminato nel 1615), a sostituire un infelice tentativo, abortito, del modesto Giovanni Luigi Valesio.

La lettura apologetica di Malvasia, volta a smontare le critiche degli altri pittori che non avevano potuto accaparrarsi la commissione (1678, p. 26), rappresenta un bell’esempio di traduzione in termini letterari dello stile magniloquente ivi scelto dal pittore («sterminati pavoneggiamenti de’ panni»).

Dipinse parimenti pale importanti, anche per dimensioni, come la Pietà dei Mendicanti e il Crocifisso dei Cappuccini (entrambi ora nella Pinacoteca nazionale di Bologna), l’Assunzione della Vergine per il Gesù di Genova, e il S. Rocco in carcere per Carpi (ora a Modena, nella Galleria Estense).

Da Roma, da Pietro Aldobrandini, gli era arrivata verso il 1614 la commissione per la decorazione della cappella del Ss. Sacramento nel Duomo di Ravenna, terminata nel 1616, con ampio aiuto della bottega (Francesco Gessi, Giovan Giacomo Sementi e Bartolomeo Marescotti). Nello stesso torno di tempo, prima del 1620, dipinse per la committenza privata tele solitamente di grandi dimensioni con scene mitologiche: Atalanta e Ippomene (Napoli e Madrid), la Toeletta di Venere (Londra, National Gallery), le Fatiche di Ercole per Federico Gonzaga (Parigi, Museo del Louvre), Apollo e Marsia (Tolosa e Monaco di Baviera), i due Bacchi fanciulli di Firenze e di Dresda.

Intanto allacciò rapporti di amicizia e stima con letterati bolognesi (come Cesare Rinaldi, Gaspare Bombaci e Andrea Barbazza), che molto contribuirono con i loro scritti (lettere a stampa, poesie) al consolidamento della sua fama presso i contemporanei: del resto lo stesso Giovan Battista Marino ne aveva immortalato le opere nella Galleria e uno dei quadri più famosi di Reni (il Ratto d’Elena, al Louvre) fu fatto oggetto di moltissime celebrazioni poetiche, raccolte poi in volume da Giovan Battista Manzini. Contrasta con questa evidente, quasi berniniana attenzione alla celebrazione dei propri meriti (solo apparentemente subita) la ritrosia a comunicare proprie notizie autobiografiche a Baglione per le Vite: forse le motivazioni sono legate più a diversità in termini artistici e di stima che a vera modestia.

Nel 1619, a distanza di sette anni dal viaggio precedente, Guido Reni si recò nuovamente a Napoli per discutere con i responsabili la possibile decorazione della cappella del Tesoro di S. Gennaro in Duomo, chiara prova della sua diffusa fama di frescante: il contratto, firmato due anni più tardi, venne però rotto dal pittore, che forse si sentì minacciato per l’aggressione a un suo servitore e, nonostante le insistenze dei committenti, non volle tornare, stanti anche differenze sul compenso (come noto, fu Domenichino in fuga dalla Roma barberina, dieci anni più tardi, ad accaparrarsi la commissione e a condurla a termine a modo suo). Può risalire a questo periodo l’esecuzione dei quadri (Fuga in Egitto, S. Francesco in estasi, Incontro di Gesù col Battista) nella locale quadreria dei Girolamini, originariamente destinati alla chiesa di S. Filippo Neri. Frattanto, aveva dipinto per il cardinal Odoardo Farnese a Caprarola (chiesa di S. Teresa) una pala con la Madonna col Bambino in cielo, e i ss. Giuseppe e Teresa d’Avila che la contemplano in vista della canonizzazione della santa spagnola nel 1622.

Del resto la sua produzione pittorica era continuata incessante con la realizzazione di molte altre pale d’altare per varie chiese dell’Emilia Romagna, dell’Italia centrale e dello Stato sabaudo: alcune consegnate, mentre, alla sua morte, molte altre furono trovate incompiute, in vari stadi di lavorazione (sovente solo sbozzate), nel suo studio (l’accurato inventario dei suoi beni conferma puntualmente le sintetiche notizie date da Malvasia). Tra i quadri finiti si possono ricordare: la Madonna con il Bambino e santi, ora a Dresda nella Gemäldegalerie (originariamente a Reggio Emilia); la Consegna delle chiavi a s. Pietro e l’Annunciazione per la chiesa di S. Pietro in Valle a Fano (la prima, requisita in età napoleonica, è rimasta a Perpignan); l’Apparizione di Cristo alla Madonna per Modena (ora a Dresda, nella Gemäldegalerie); il Cristo flagellato con angeli nel castello di Schleissheim (la cui destinazione originaria è ignota); il S. Maurizio di Avigliana per Carlo Emanuele I e, infine, il Battesimo di Cristo a Vienna (Kunsthistorisches Museum), commissionatogli dall’argentiere fiammingo Jan Jacobs, residente a Bologna, nonché amico e committente anche di Calvaert. L’opera più importante è probabilmente, nel 1625, la gigantesca pala della Trinità dipinta per la chiesa romana di S. Trinità dei Pellegrini, commissionata dal cardinal nipote Ludovico Ludovisi. Ci si potrebbe attendere, in corrispondenza del pur breve papato bolognese Ludovisi, un fiorire di commissioni romane, pontificie, pari a quella di età Borghese: invece proprio in questi anni si nota un cambiamento nella tipologia produttiva dell’artista, e poi man mano nello stile, che trova parziale spiegazione nella biografia reniana a partire dall’età (ormai aveva raggiunto la cinquantina) per continuare con il vizio del gioco, cui la maggior disponibilità di danaro legata alla sua consolidata fama di artista sontuosamente rimunerato dava più agio, che è stata reputata (dai biografi secenteschi, compreso Sandrart, e dagli storici moderni) causa della sua rovina.

Dapprima si può notare la totale sparizione di opere ad affresco (dopo l’ultimo contratto, inevaso, di Napoli), probabilmente per il pericolo e la fatica di lavorare sui ponteggi, anche a grande altezza, e con l’umidità dell’intonaco, il che ne fa un lavoro da ‘giovani’.

Dipinse invece molte pale d’altare originariamente destinate a sedi più o meno prestigiose (Immacolate di Forlì e di Siviglia, ora al Metropolitan Museum di New York; Assunta nella chiesa omonima di Castelfranco Emilia; Annunciazione per Maria de’ Medici, in deposito al Museo del Louvre; Pala del Voto o della peste a Bologna, Pinacoteca nazionale; Annunciazione di Ascoli Piceno, Pinacoteca comunale; Madonna coi ss. Tommaso e Girolamo per Pesaro, ora nei Musei Vaticani; Disputa dei Padri della Chiesa sull’Immacolata, all’Ermitage di San Pietroburgo; S. Michele arcangelo per la chiesa dei Cappuccini a Roma, su commissione Barberini; Trionfo di Giobbe e Purificazione della Vergine ora a Parigi, rispettivamente a Nôtre Dame e al Museo del Louvre; Circoncisione di Siena, chiesa di San Martino; Assunte di Monaco e di Lione; Adorazioni dei pastori di Napoli e di Londra) e vari quadri privati con scene mitologiche (Fortuna, nei Musei Vaticani e all’Accademia di S. Luca; Andromeda Pallavicini; Ratto d’Europa di Londra e di S. Pietroburgo; Bacco e Arianna commissionato dai Barberini per il re d’Inghilterra Carlo I Stuart, di fatto distrutto e noto tramite copie anche grafiche, disegni preparatori e un unico frammento superstite nella Pinacoteca nazionale di Bologna), storiche (Nino e Semiramide, già Tanari, distrutto – si dice – durante la seconda guerra mondiale a Dresda, ma in realtà il dipinto, noto tramite foto in bianco e nero, sarebbe solo una ricostruzione in stile dei restauratori settecenteschi di Dresda, dove il quadro sarebbe arrivato rovinato fino all’illeggibilità nel 1752), bibliche (Giuditta con la testa di Oloferne della Galleria Spada di Roma; Giuseppe e la moglie di Putifarre, ora nel Museo Puškin delle belle arti di Mosca; Salomè, nella Galleria di palazzo Corsini a Roma), o sacre (Maddalena, a Roma, nella Galleria di palazzo Barberini; S. Andrea Corsini di Firenze e di Bologna; S. Girolamo penitente di Vienna e di Detroit). Accanto a esse, e a qualche ritratto in vario formato (Cardinal Ubaldini, in coll. privata inglese, a figura intera seduta, come quello di Bernardino Spada nella Galleria di famiglia, a Roma; Cardinal Berlinghiero Gessi, solo busto, a Roma, in S. Maria della Vittoria, come quello del Cardinal Antonio Facchinetti, già a Bologna, e ora sul mercato antiquario), compaiono quadri e quadretti di uso sicuramente privato, di dimensioni medie, di formato ridotto (teste, busti, mezze figure), di qualità non uniforme né eccelsa, di contenuto ripetitivo, sia che si tratti di temi devozionali, o mitologici o di genere. Sono evidentemente opere ‘seriali’, la cui principale giustificazione era il profitto immediato, non solo per l’artista, ma anche (o soprattutto) per l’intermediario che ne curava la vendita.

Malvasia, che fa risalire i primi esempi di tale produzione già all’inizio della seconda decade del Seicento, dopo il precipitoso rientro da Roma, nel superamento della crisi che lo aveva indotto a fare il mercante e come prologo alla ripresa di una seria attività pittorica, chiosa: «che però si trova […] aver operato mezze figure a quindici scudi l’una ad un mercante, a duoi orafi, e per pochi denari al marchese Angelelli una Madonna col Signorino al quale fugge di mano una rondinella ad un filo appesa: lavorandole di botte e di tratti, con certa sprezzatura da gran maestro, creduta nuova perché non usata nella scuola di Roma e nella lombarda, ma qualche volta praticata dal Tentoretto» (1678, p. 22).

Molte furono anche le esibizioni di prestezza e maestria fatte di fronte a visitatori stranieri di riguardo (membri di case regnanti italiane ed europee, ambasciatori), dipingendo ogni volta in poche ore un quadro di modeste dimensioni, sempre in questa forma sprezzata e veloce (Malvasia, 1678, p. 83). Sulla scorta delle informazioni fornite da Malvasia, abbondanti e di prima mano, e che trovano sovente riscontro in altre serie documentarie (a partire dal ‘Libro dei conti’ reso noto da Pepper), Richard Spear (1997) seguito da altri, ha affrontato la questione della distinzione tra repliche autografe (su richiesta, come il celebratissimo Ratto d’Elena, ora al Louvre, originariamente commissionato per il re di Spagna e di cui esiste una copia semiautografa nella galleria Spada, per accontentare il cardinale Bernardino che aveva funto da intermediario nelle trattative con la Francia, dissoltasi la commissione spagnola), copie di bottega ritoccate dal maestro (quelle che Malvasia chiama «ritocchi»), copie pirata, repliche variate di mano del maestro (talora su commissione), derivazioni autografe (sovente copie o rielaborazioni di singole figure di grandi pale), derivazioni di bottega, e ha giustamente osservato come la nozione di autografia che emerge dall’attività della bottega reniana (per molti versi simile a quella di tante altre botteghe coeve o anteriori, a partire da quella giottesca) testimoni un concetto nettamente diverso da quello attuale, postromantico. Indubbiamente la confusione (allora come ora) doveva favorire i mercanti (professionisti o amatoriali) più spregiudicati, ma è coerente con le convinzioni di Reni, che «solea dire, stimare egli que’ quadri solo che si poteano fare in pezzi, alludendo alla finezza delle parti, ch’era suo principale intento» (p. 74).

Nella biografia di Reni (conosciuto personalmente in gioventù), Malvasia fornisce una quantità straordinariamente ricca e dettagliata (oltre che attendibile) di informazioni sul continuo incremento di valore delle opere dell’artista a ogni passaggio di proprietà e nel giro di pochi anni, al punto da dare uno spaccato altamente informativo e volutamente esemplare (oltre che eccezionale) dei meccanismi del mercato artistico secentesco a Bologna e a Roma, partendo proprio dal caso dell’artista forse da lui più apprezzato.

Altri due temi in qualche modo collegati emergono dalla narrazione malvasiana: quello dell’evoluzione (o involuzione) stilistica di Guido Reni e quello dell’occasionale produzione a contratto, secondo schemi forse più simili a quelli diffusi in Olanda che in Italia (il pagamento di una diaria prestabilita, a fronte di quanto venisse prodotto in un certo numero predefinito di ore giornaliere: paradossalmente non fu l’argentiere Jacobs, ma tal Camillo Cursore a proporre questa formula, cui si devono le infinite teste di carattere e mezze figure di vecchi, santi, sante, Christi patientes, eroine classiche ecc., che rientrano a pieno titolo nella produzione seriale già ricordata). Quanto al primo, la ‘prestezza’ fu una delle caratteristiche di Reni, parte per forza («per la quantità di commissioni che troppo soprabbondavangli»), parte per naturale facilità di esecuzione, frutto di un’inventività coltivata e di anni di esercizio («a forza di studio incessabile e con la continuata prattica dell’operare», per dirla con Francesco Scannelli, 1657, 1989, p. 112, sontuosamente rielaborato dalla retorica di Malvasia, 1678, p. 29), parte, infine, per necessità economica (quando si trattava di guadagnare il più possibile per ripianare debiti di gioco). Se, dopo l’esperimento caravaggesco, la sua maniera carraccesca raffinata tese negli anni Trenta a schiarirsi nei toni (onde si può cominciare a parlare di un Reni ‘biondo’ o, più propriamente, ‘argentino’) e il suo stile diventò sempre meno disegnato e finito, al punto che egli (partendo da un abbozzo accantonato) poteva all’occorrenza terminare un quadro in poche ore (Malvasia, 1678; p. 38) aiutandosi con una maniera deliberatamente ‘pittoresca’, ciò fu frutto di scelta artistica non meno che di necessità pratica, e nulla ha a che vedere con processi di invecchiamento (evocati a parziale scusante da Malvasia), e poco anche con l’adesione a una libertà sperimentale conquistata con l’età e la fama (che fu invece in larga misura il caso di Tiziano).

Come noto, il giudizio di Malvasia su questa seconda maniera è un po’ ondivago, privo di vera adesione estetica (e lo si può comprendere se, a proposito dei dipinti che più gli piacciono, egli arriva a parlare di una ‘terribilità’ che ipso facto equipara Reni a Michelangelo e, tra i veneti, a Tintoretto). Nota egli, infatti, che alcune di queste opere «in chiaro» furono «delle più belle, se non tanto vigorose; perché molte altre si stimarono di più bassa maniera, ancorché si scuoprano poi ogni dì d’un più profondo sapere, di una inarrivabile finitezza» (1678, p. 42), salvo concludere il suo affastellato catalogo di opere con un giudizio di fatto limitativo, se non stroncatorio: «e simili infinite fatte negli ultimi anni, ne’ quali osservasi mancare il primiero valore in ogni gran maestro e dare nella fiacchezza» (p. 43). Non a caso Malvasia preferisce le opere in cui sono «introdotte […] scappate di lumi, opposizioni di sbattimenti e riflessi che col ben istaccare una [figura] dall’altra, favorischino con mosse, ripieghi e contrasti giudiziosi, tanto famigliari alla sempre in ciò inarrivabile scuola veneziana» (p. 50), ma non manca di dare una lettura efficace e intelligente della ‘seconda maniera’, rivelandosi buon profeta: «Affaticavasi anche […] nell’ultime sue pitture, mostrandocele sempre più erudite e con nuovi ricerchi e mille galanterie: con certi lividetti et azurrini mescolati fra le mezze tente e fra le carnaggioni […] quali si osservano nelle carni delicate che rendono un certo diafano […]. E questa è quella che chiamano seconda maniera di Guido che […] non giongerà che col tempo ad addimesticarsi, a farsi ben conoscere e finalmente ad assodarsi nella comune affezione e concetto. Strillino pure a lor voglia i malevoli, che si conosceranno un giorno queste finezze per inimitabili, ed io già ne pronostico sicuro il successo […]. Piacerà però sempre a’ più dotti la seconda maniera, quanto la prima a’ più curiosi. Fermerà quella, ma insegnerà questa, e se di languida troppo e delicata avrà nome presso la commune opinione, dagl’intendenti sarà esaltata per la più scientifica e sovrana. Egli, alla per fine, ha volsuto far così, ed al contrario de’ buoni maestri passati, s’è arrischiato oprar smoderatamente la biacca […] e certo che si osserva ogni di più avverarsi il suo presagio, che dove le pitture degli altri perdono tanto col tempo, le sue acquistariano, ingiallendosi quella biacca e pigliando una certa patena che riduce il colore ad un vero e buon naturale, ove l’altre, annerendosi troppo ed in quella affumicata oscurità uguagliandosi, non lasciano conoscere e distinguere il più e ’l meno, le mezze tente e i lumi principali» (pp. 80 s.). Anche in queste considerazioni sull’effetto calcolato della patina, per cui giustamente Malvasia rimanda a Paolo Veronese, e che sarebbero state riprese poi da Donato Creti, Reni si dimostra un precursore e un artista controcorrente. Se la sua seconda maniera (con particolare riferimento alla Fanciulla con corona della Pinacoteca Capitolina di Roma) poté ispirare l’Ottocento di Ingres (Gnudi - Cavalli, 1958), certe sue bozze possono sembrare una gloriosa anticipazione della pittura di fine Ottocento, degli impressionisti sulla via verso John Singer Sargent e Giovanni Boldini.

Morì a Bologna il 18 agosto 1642 (Malvasia, 1678, p. 55).

Dopo la morte del pittore, molti dei quadri rimasti sbozzati nel suo studio entrarono sul mercato e introdussero una maniera nuova, non prevista dall’autore e non particolarmente apprezzata da certi collezionisti più conservatori, se è vero che, stando a Marcello Oretti (Bologna, Biblioteca comunale, ms. B.104, 1760/1780, parte I, cc. n.n.), un principe Hercolani, possedendo la Flagellazione e la Madonna con s. Francesco per Reggio Emilia (ora nella Pinacoteca nazionale di Bologna), la Caduta dei giganti (ora a Pesaro, Musei Civici) e un perduto Amore e Psiche, tutti allo stadio di abbozzo, chiese a Domenico Maria Viani (o, secondo altre fonti, al di lui padre Giovanni Maria) di finirne gli abbozzi, ottenendo invece dal pittore le versioni finite dei quadri dipinte su tele a parte, in modo da preservare intatti i dipinti reniani, per far vedere e godere «a’ professori dell’arte e agli intelligenti» (M. Oretti, cc. n.n.) la qualità delle prime idee, dell’invenzione e del fare di Guido. Lo stesso Malvasia (che ricorda come Guido avesse più volte tentato di disfarsi di molte di tali bozze già in vita, per ripianare i debiti) dimostra qualche perplessità nei confronti della qualità di tali lavori, pur difendendoli, e constata che, avendo offerto il suo erede testamentario, a quanti avessero commissionato a Reni un quadro rimasto allo stato di abbozzo e avessero versato una caparra, la possibilità di scegliere tra riavere indietro il denaro o ricevere il quadro sbozzato, «pochi si trovarono che più volentieri non prendessero anzi le bozze che la moneta» (Malvasia, 1678, p. 57).

Al centro di invidie e incomprensioni non solo a Roma, ma anche nella stessa Bologna (sia tra i contemporanei sia tra i posteri, come Zanotti, che non ne comprendeva i comportamenti sociali, giudicandolo un pazzo), Guido – come già Ludovico Carracci – ebbe vivissimo il senso della rivendicazione della propria dignità professionale e sociale, che condusse – lo dimostra l’abbondante e articolata aneddotica in merito – secondo gli schemi dell’etica e dell’etichetta secentesche, del tutto incomprensibili già poco dopo, nel secolo illuminato: Malvasia, viceversa, condividendole, capì perfettamente che Reni sarebbe potuto essere un altro Rubens (per potere, ricchezza, status sociale) se non avesse rovinato la propria fama e la propria arte sacrificandole a causa dell’invincibile ludopatia. Il parallelo impossibile Reni-Rubens, suggerito da Malvasia e recuperato recentemente da Andrea Emiliani (Guido Reni 1575-1642, 1988, pp. LIV s., LXXX s. e passim) era forse presente anche a Roger de Piles che, noto rubenista, nella sua sintesi della vita di Reni, quando non sunteggia Malvasia, apre squarci interpretativi fondamentali sulla sua produzione grafica (disegni), come ulteriore testimonianza di felicità e feracità inventiva.

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