GUIDUBALDO I da Montefeltro, duca di Urbino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 61 (2004)

GUIDUBALDO I da Montefeltro, duca di Urbino

Gino Benzoni

Unico figlio maschio di Federico da Montefeltro, conte e signore, - dal 1474 duca - di Urbino e della sua seconda moglie Battista Sforza - che prima di lui diede alla luce almeno sei femmine - nacque il 24 genn. 1472 nel palazzo feltresco di Gubbio.

È del 12 febbraio il breve di Sisto IV di vivissime congratulazioni al padre per il sospirato evento della venuta al mondo dell'erede legittimo, battezzato il 2 febbraio dal vescovo eugubino Antonio Severini. Cresimato G., il 27 aprile, dal cardinale Bessarione allora "legato in Francia, Inghilterra e Borgogna" per Gubbio transitante; orfano, il 7 luglio, della madre che morì anche per gli "strachi" della gravidanza e del parto, il padre l'affidò alle cure d'Ottaviano Ubaldini della Carda, suo vicario e luogotenente generale.

Fidanzato con contratto - che non avrà poi esito - del 10 ag. 1474 a Lucrezia d'Aragona figlia del re di Napoli Ferdinando I, il 17 sett. 1482 G. successe al padre, morto il 10 e, accompagnato dal tutore Ubaldini, visitò il Ducato, ad attestare la continuità di un governo per il quale, nel 1484, il neopontefice Innocenzo VIII gli rinnovò l'investitura a suo tempo concessa a Federico. Al pari di questo l'attendeva la carriera delle armi che iniziò, nel 1483, con la condotta napoletana di 180 uomini e di 30 "armi spezzate".

A G. è dedicata da Vespasiano da Bisticci la sua Vita di Federico. A G. è indirizzato dal suo primo precettore, il francescano dalmata Giorgio Benigno Salviati (Iuraj Dragišić), il dialogo Fridericus, de animae regni principe. A G., appena decenne, sono sottoposte da Cristoforo Landino, nel 1482, le Interpretationes di Orazio, nella fiducia i "volumina" di questi valgano a stimolarne lo "iuvenile ingenium", a ripulire vieppiù il latino da lui padroneggiato. E dedicatario G. è pure del Libellus de quinque corporibus regularibus di Piero Della Francesca. Tra le varie dediche a lui indirizzate, dai Prognostica ad viginti annos (Perugia, J. Wydenast, 1485) di Paolo da Middelburgo all'edizione, per i tipi di Girolamo Soncino, del 1504 della vita di Catone il Vecchio di Cornelio Nepote e del De vita Caesarum lungamente attribuita a Sesto Aurelio curata da Lorenzo Astemio, umanista maceratese nonché nel 1476-83 bibliotecario a Urbino. Ancorché le dediche non innalzino la statura di G., ad accostarlo effettivamente al livello troppo alto di quello di Federico, resta il fatto che almeno un paio sono prestigiose e lo fanno brillare di luce riflessa. Ciò vale per la Summa de arithmetica di Luca Pacioli, stampata a Venezia nel 1494 per i tipi di Paganino de' Paganini, ove l'autore, l'anno prima a Urbino, nella dedicatoria a G. assegna alla matematica una funzione di grande utilità pratica oltre che di illuminante orientamento alla volta della "sacra theologia". E ciò vale pure per la successiva dedica, nel 1499, della manuziana stampa della Hypnerotomachia Poliphili, ove il veronese Leonardo Grassi (fratello del Lazzaro militante per la Serenissima e come tale, agli ordini di G., durante l'assedio di Bibbiena del 1498), che si è assunto l'onere della spesa di quella che è, forse, la più bella edizione del Rinascimento, convoca - visto che esce anonima -, G. a fare da tutore al libro orfano, a sostenerlo con il suo patrocinio. D'altronde, nel dedicare a G. una propria edizione, sempre del 1499, di testi astronomici di Giulio Firmico Materno, Manilio, Arato e Proclo, è lo stesso Aldo Manuzio a sottolineare l'opportunità di una convocazione di "personaggi di gran fama". Sottinteso che, se la fama del dedicatario funge da scudo per l'opera, quest'ultima vale ad ampliarla. Il vantaggio è quindi reciproco.

Meno gratificante, però, di quanto risulta dalle dediche è l'effettiva situazione di G. che, decantato da Poliziano, di fatto doveva sottostare alle ingiunzioni romane sicché, nel 1486, mise i suoi uomini a disposizione del commissario papale Pietro Albergati, che giunse a Urbino autorizzato a valersene contro i villici del contado di Città di Castello. E, nel contrasto con Ugolino e Federico Bandi, confermati da Innocenzo VIII nel feudo di Petroia, G. fu impossibilitato a procedere. Per tre giorni, il 10-13 settembre, "segretamente in corte" estense, come riporta il diarista ferrarese Bernardino Zambotti, fu in incognito al corso del palio per poi partecipare, il 15, a un convegno a Lugo con il duca di Calabria Alfonso d'Aragona, con il marchese di Mantova Francesco Gonzaga e Giovanni Bentivoglio. Era quasi un tentativo - voluto da Ottaviano Ubaldini - per ritagliarsi un po' di spazio, che necessitava pur sempre di un assenso della S. Sede, che ora allentava le briglia, ora le stringeva. Tant'è che, all'inizio del 1487, la partecipazione di G. agli spassi carnevaleschi è guastata da un intimidatorio breve papale con il quale, nelle controversie tra Urbino e Fano, si diede ragione alla seconda. Promesso, ancora con contratto del 29 ag. 1486 ove la dote era fissata a 28.000 ducati, a Elisabetta Gonzaga - e a detta dell'Anonimo Veronese in un primo tempo si erano ventilate le nozze con Maddalena, sua sorella; ma "refutata" costei da G. "per non esser bella"; e, allora, destinata a sposare Giovanni Sforza -, con questa G. si sposò, l'11 febbr. 1488, nella chiesa urbinate di S. Francesco, ma differita fu la consumazione delle nozze.

Indicibili - così Ginevra de' Fanti in una lettera del 20 marzo di fatto stesa da Benedetto Capilupi - sono l'amore di G. per la sposa, e i suoi doni quotidiani. È "opinione", dichiarò in seguito Capilupi, di Ubaldini o "de li hastrologi", che la coppia debba avere il primo rapporto il 2 maggio. Solo che G. non è disposto ad attendere ulteriormente. E accondiscendenti "li hastrologi" - convinti da Silvestro Calandra fattosi portavoce dell'impazienza di G. - gli concedono di anticipare la scadenza al 19 aprile.

È "tuta vergognosa" al mattino del 20 Elisabetta, quasi non ardisca "guardare homo alcuno in volto". È "la più pudica madonna del mondo", commenta Capilupi. Ma non di pudore si tratta: G. non potrà "cum foemina coire umquam in tota vita", non sarà mai "ad rem uxoriam" idoneo. Così si esprime P. Bembo, nel tracciare il profilo di G., dopo la sua morte.

Un difetto fisico quello di G.; quanto alle dicerie che l'abbia provocato ad arte il tutore di magia "experientissimus", è piuttosto da supporre che, con il ricorso agli astrologi, si sia adoperato a procrastinare la data della consumazione nella speranza - risultata poi vana - che il trasporto affettivo dimostrato, nel frattempo, da G. per Elisabetta in certo qual modo servisse a predisporlo fisicamente. Certo è che la disfunzione organica dello sposo giovinetto crudamente manifestata nel giorno stabilito per l'unione fisica, dapprima cruccio segreto della coppia, poi oggetto di bisbigli e sussurri e nella corte urbinate e nelle altri corti via via diventa notizia di comune dominio finché è lo stesso G. ad ammetterlo francamente all'inizio del '500. Segnato, sin dall'adolescenza, da un'ombra di malinconia e di tristezza G., il principe che - una volta uscito di minorità e svincolato dalla tutela di Ubaldini, i cui consigli continuano a valere, lui assente, a orientare il governo della consorte -, sollecito, è solito dopo la messa dar udienza ogni giorno ai sudditi, quindi gironzolare un po' per il centro porgendo orecchio alle suppliche, per poi discuterne e, anche, risolverle consultandosi con i più fidi consiglieri. È con siffatto impegno quotidiano che si stempera quella sua pena sempre meno segreta agli occhi dei suoi interlocutori. È sopportabile, ad ogni modo, la pena se G. si intrattiene con altro e con altro si diverte. Le rappresentazioni, le recite, i carri trionfali, le giostre, la caccia, la conversazione con i letterati, le letture di autori greci e latini, specie di Senofonte e di Plinio.

Nel 1488 G. fu allertato dal papa nei confronti di Forlì sollevatasi per l'uccisione di Girolamo Riario e di Cesena inquietata da discordie intestine. E sempre nel 1488 difese Gubbio dall'insolenza di Sassoferrato di cui devastò il territorio, cacciando - come pretese Innocenzo VIII - dalle sue terre i fuorusciti perugini, presidiò la costa dalla paventata minaccia turca e - come il papa desiderava - soccorse Foligno contro Spello. A Ferrara e a Mantova nel febbraio del 1490 per festeggiare le nozze di Isabella d'Este con Francesco Gonzaga, suo cognato, a Roma il 2 aprile a ossequiare Innocenzo VIII, fu per volontà di questo che G. appoggiò il sanguinoso rientro, del 6 giugno, a Perugia degli esuli Oddi. E, essendo pontefice Alessandro VI, G. è attivo con genti sue e del Fracassa, ossia di Gaspare Sanseverino, e con milizie papali nel sostenere, nell'agosto del 1493, la mossa di Foligno contro Guelfo de' Cattani. All'inizio del 1494, annota l'annalista veneziano Domenico Malipiero, condotto G. dalla Serenissima "con 450 cavalli e 20 balestrieri", ma il 29 marzo si sovrappose la condotta al soldo di Alfonso II d'Aragona, re di Napoli, in virtù della quale - così il 3 settembre, a Piero de' Medici Bernardo Dovizi - G. assoldò 500 balestrieri a cavallo pagandoli per soli 15 giorni nell'errata persuasione di una rapida vittoria sui Francesi.

Non reggeva, invece, il fronte romagnolo costituito anche da Guidubaldo. Vano il tentativo suo, di Giangiacomo Trivulzio e Alfonso d'Ávalos di sbarrare il passo al nemico a Sant'Agata Feltria. A questo punto non restava a G. che riparare nel proprio Ducato per poi, nel novembre, essere a Cesena a riportarvi l'ordine pontificio e quindi ad Assisi a mo' di pacificatore tra le locali fazioni e "dissensioni". Anche G. è arruolato nel costituirsi della lega antifrancese e - in coincidenza con la battaglia di Fornovo del 6 luglio 1495 - per volontà di Firenze, accorre al Poggio Imperiale con quasi 2000 uomini a intercettare la convergenza delle forze senesi con gli effettivi capeggiati da Virginio Orsini. E, sempre per conto di Firenze, G. - in concerto operativo con altri capitani del pari assoldati - è destinato al recupero di Pisa. Le operazioni però sono malamente coordinate e sterili. Sicché G. - tacciato per questo di slealtà da F. Guicciardini - preferì rientrare a Urbino per poi - dal novembre a metà febbraio dell'anno successivo - svagarsi a Mantova. Al servizio, dietro pressione di Alessandro VI, dei confederati, di fatto si barcamenava tra il pontefice smanioso di attivarlo contro gli Orsini e Venezia, che premeva perché fosse soccorso Ferdinando II d'Aragona, re di Napoli. Fu questi a chiedere, il 15 marzo 1496, che G. militasse per lui. E d'accordo la Serenissima, come risulta dalla ricevuta del 24 aprile rilasciata da Lodovico Odasi, in veste di procuratore di G., di 2000 ducati a saldo di quanto ancora dovuto per la sua condotta.

Intanto sempre più tormentosa per G. la gotta che, quasi ereditata dal padre, era da prima dei 20 anni ormai una costante dolorosa e debilitante, ne comprometteva gli impegni militari e lo costringeva a periodi di immobilità.

Sul Tronto con le sue genti il 21 giugno 1496 G. era pronto a espugnare Teramo. Vittorioso, con Annibale da Varano, a Sermoneta, si unì a Consalvo Cordova con lui spingendosi sin in Calabria e da questa risalendo all'assedio di Atella. Reclamato, il 23 ottobre, dal papa, si spostò ottemperante a Roma subito adoperato nella guerra personale del pontefice contro gli Orsini. Prese Trevignano e Anguillara, guidò l'assedio di Bracciano, roccaforte orsiniana validamente difesa da Bartolomeo d'Alviano, cognato di Virginio Orsini. Ferito, all'inizio di novembre, da un'archibugiata, assunse completamente il comando il duca di Gandía, l'inetto e vanitoso Giovanni Borgia, figlio del papa. Non solo furono vane le operazioni da questo guidate, ma anche costrette al ripiegamento dalla vigorosa replica orsiniana che costrinse gli assedianti a desistere per portarsi da Bracciano a Sutri. Un trasferimento lungo il quale, il 25 genn. 1497, a Soriano i Pontifici erano incalzati e sospinti in un'angusta valle e sopraffatti con l'apporto di Vitellozzo Vitelli che, tempestivo, sopraggiunse con altre forze. Leggermente ferito, nella sconfitta pontificia, il duca di Gandía fuggì ignominiosamente, mentre G. - che, rimessosi in forze aveva ripreso a battersi - stramazzato con il cavallo, fu catturato da Battista Tosi, un cavaliere romano militante per gli Orsini.

Prigioniero - ancorché riguardosamente trattato - nella rocca di Soriano, Alessandro VI, addivenuto, dopo l'esito fallimentare dell'assedio di Bracciano, alla pace del 5 febbraio con gli Orsini, non si diede gran pena per la sua liberazione. Solo la Serenissima pareva prendere a cuore la sua sorte. Ma per arrivare, in aprile, alla liberazione occorse che il marchese di Mantova, cognato di G., liberasse a sua volta, il 12, Paolo Vitelli suo prigioniero. A G. fu resa la libertà per scambio dunque (trasferito il 1° da Soriano a Poggio Mirteto e qui consegnato al cardinale Federico Sanseverino il 19) e, comunque, non gratuitamente. Il riscatto fu onerosissimo, di 40.000 ducati circa, e tale da costringerlo - per riassestare le salassate finanze ducali - all'alienazione di terre e boschi della fattoria di Landi, di selve della Massa Trabaria, a cedere immobili, a vendere gioie, non senza aggiungere, una volta libero, il ricavato della vendita di una tenuta e della villa di Rusciano. Fu trucidato, intanto, a colpi di pugnale, il 15 giugno il duca di Gandía: ignoto l'assassino. E tra i sospetti mandanti, oltre al fratello Cesare Borgia, vi era pure Guidubaldo. Così, almeno, corre qualche voce, ipotizzando da parte sua una smania di vendetta per esser stato abbandonato in mano nemica. Era una diceria, comunque, cui il papa non dovette prestare orecchio se, nel porre fine al conflitto tra gli Oddi e i Baglioni - e G. era sceso in campo per i primi con un'incursione nel Perugino - impose, il 12 luglio 1498, ai Perugini la restituzione agli Oddi e ai loro sodali di quanto a loro danno occupato nonché il pagamento di 5000 scudi a Guidubaldo.

Avesse nutrito il benché minimo sospetto su eventuali sue responsabilità nell'assassinio del figlio, Alessandro VI di certo non si sarebbe preoccupato di risarcirlo così, a carico di Perugia, di un po' della somma sborsata da G. per riacquistare una libertà perduta nel conflitto con gli Orsini contro i quali fu lo stesso papa a mobilitarlo. Certo che 5000 scudi erano una cifra modesta e G. abbisognava di ben di più per rimettersi in sesto. E puntò su di una condotta remunerativa.

La Repubblica veneta era disponibile ad assoldarlo, specie dopo che "el segnor de Piombin", ossia Jacopo Appiani, "recusa la conduta de la Signoria", annota Malipiero, perplesso ci sia "opinion de condur", al suo posto G.; "l'è zovene", osserva l'annalista, pretende 50.000 ducati, è cognato del marchese di Mantova, nonché "signor de stado". Comprensibile, aggiunge lo stesso, che "mal volentiera se tuol homeni de sta sorte, perché i atende al fato suo e no al nostro". Ma evidentemente accantonata siffatta obiezione se, il 20 luglio, a Venezia, essendo G. rappresentato dal suo oratore nella città nonché, in tal caso, suo procuratore Macario Camerta, fu stipulata una condotta che, a decorrere dal 7 agosto, contemplava il compenso di 12.000 ducati annui per lui e, da parte sua, la tenuta di 100 armigeri a disposizione della Repubblica. Se chiamato a servire di persona, dovrà farlo con 250 uomini; elevato, in tal caso, il compenso annuo a 27.000 ducati. Naturalmente erano a carico di G. i 250 armati; e di questi almeno 100 i balestrieri a cavallo e 50 gli uomini della personale scorta di Guidubaldo. G. ormai è rimasto solo nel governo del Ducato dopo la morte, il 27 luglio, di Ubaldini. Nel darne notizia al marchese di Mantova piange il trapasso "da questa presente vita" di chi, per lui orfano, è stato "bono et honorevole padre"; un sincero dolore che esclude, da parte di G., il benché minimo sospetto di ambizioni a suo danno del tutore e di sue magie a renderlo impotente. G. è inquadrato nella campagna sollecitata da Venezia - per conto della quale il provveditor Pietro Marcello si recò a Urbino ad assoldarvi mille fanti - mirante a staccare Firenze dall'alleanza con la Francia e al ristabilimento del potere mediceo. Sicché G. - che non riuscì a prendere Camaldoli - in dicembre, con Giuliano de' Medici, Astorre Baglioni, Bartolomeo d'Alviano è assediato a Bibbiena sempre più febbricitante, sempre più torturato dal rincrudirsi della gotta. Amichevolmente comprensivo con le sue pene fisiche, il comandante delle truppe nemiche, Paolo Vitelli, gli permise con il rilascio di un salvacondotto il rientro a Urbino. Qui un po' si riprese dagli strapazzi bellici per poi - nella primavera del 1499 - andare alle ristoranti terme di Abano. E rinnovata il 20 luglio la condotta veneziana alle stesse condizioni con la clausola aggiuntiva che, in caso di impedimento a militare personalmente, il comando sia assunto da una persona di sua fiducia, da G. stesso indicata.

Serena, nel primissimo '500 la corte urbinate, quasi fuori tiro rispetto alle "turbolentie" d'Italia: sicché G., nel 1501, poté chiedere alla marchesa di Mantova il favore di trasferire a Urbino Iacopo di Sansecondo, un musico che da tempo aveva grandissimo desiderio di sentire. Peraltro è sdrammatizzata l'assenza di un figlio dall'adottabilità di Francesco Maria Della Rovere, suo nipote. Che questi, il 24 apr. 1502, fosse nominato prefetto di Roma suonava anche come un favore di Alessandro VI a G. che, a sua volta, per e pur di compiacere il pontefice, ancora in gennaio si profuse per accogliere con tutti gli onori sua figlia Lucrezia diretta a Ferrara sposa ad Alfonso d'Este; G. la scortò sino a Rimini, mentre Elisabetta l'accompagnò a Ferrara.

Nell'Italia della civiltà delle corti G. fu maestro di cortesia e di buone maniere: un risalto illusorio e fragile impari a fronteggiare le proditorie trame di Cesare Borgia, facilmente calpestabile con un procedere spregiudicato e protervo. Lupo in veste d'agnello il figlio del papa l'irretiva con profferte d'affetto, proclamando d'amarlo come "carnale fratello". Ingenuo, G. gli concesse il transito per le sue terre, sin gli fornì artiglieria e vettovagliamento. E subito tradito a questo punto G., poiché Borgia, appena entrato - anziché procedere contro Camerino come gli fece credere - occupò Cagli, puntò su Urbino dove, mentre G. scappava nottetempo il 21, si insediò il 22 giugno 1502. Fortunosa la fuga del duca spodestato: dapprima fu a Ravenna, quindi, passando il 25 per Ferrara, a Mantova, "in giupone con quattro cavalli solamente". Vana la successiva andata, assieme al cognato marchese di Mantova, di G. a Milano a far presente al re di Francia l'infamia subita. Luigi XII si mostrò freddo nei suoi confronti, insensibile alle sue ragioni e piuttosto propenso a favorire il Valentino il quale, precipitatosi a Milano il 6 agosto, smontava le precedenti lamentele di G., tirando dalla sua il sovrano. Né contro Cesare Borgia era disposto a rischiare lo stesso cognato di G., Francesco Gonzaga, ricattato dal papa. Per G. risultò opportuno riparare, all'inizio di settembre, a Venezia dove si sentiva più sicuro e dove lo si metteva in condizioni di vivere non indecorosamente.

G. e la moglie furono alloggiati a Cannaregio nella casa dei nobili Malombra. L'affitto era a carico della Signoria che a G. assegnò in più 100 ducati al mese. La permanenza lagunare fu in parte rasserenante, nella misura in cui poteva distrarsi con dotti conversari e ha l'opportunità di conoscere Pietro Bembo, Trifone Gabriele, Giovanni Aurelio, Niccolò Tiepolo, Giovanfrancesco Valier, Andrea Navagero, Giovambattista Ramusio. Naturalmente a recuperare il suo G. non aveva rinunciato. Non appena informato del ribellarsi del Ducato - la ribellione parte, il 6 ott. 1502, da San Leo - contro l'usurpatore, G. si portò a Senigallia e di qui, il 17 ottobre, a San Leo per entrare l'indomani a Urbino a capo di uno sparuto drappello di cavalieri. Fu una comparsa che, per quanto salutata con favore dalla popolazione, non si dimostrò a tal punto efficace da animarla in modo da resistere all'energica rimonta del Borgia.

Rioccupata Urbino il 30 novembre da Antonio Ciocchi, G. fu costretto a battersi non tanto per riprendere possesso del Ducato quanto per salvarsi la testa. Donde il momentaneo accordo del 7 dicembre in virtù del quale il Ducato tornava all'usurpatore ed egli poteva - ma, come annota Sanuto, "bocon duro a padire", per Valentino, l'impegno a non molestarlo - uscirne indenne. Ma prima dispose la demolizione - eccezion fatta per le fortezze di Maiolo e, ovviamente, di San Leo - delle fortificazioni di cui suo padre, valendosi di Francesco Giorgio Martini, aveva riempito il territorio. Un dispetto, viene da dire, al Borgia vincente quest'ordine di disfarle.

Sarà il successivo elogio di Niccolò Machiavelli - che, sinché i fatti erano in corso di svolgimento, aveva avuto modo di seguirli direttamente: San Leo resta nelle mani di G., scrive il segretario fiorentino il 23 dicembre da Cesena ai Dieci, mentre le altre fortezze sono "per terra" - sia nel Principe che nei Discorsi a caricarlo di esemplarità, a enfatizzarlo a momento di consapevolezza di portata generale e nella riflessione sulla guerra e in quella sullo Stato. Le fortezze sono inutili alla lunga - pensa Machiavelli non senza supporre che così abbia pensato G. -, perché i centri restano per sempre prendibili "per fraude", per violenza, per fame. Al più servono non già a difendere dal nemico, ma al principe odiato dai sudditi che si arrocca e che si rinserra a esercitare un potere dispotico. Se, però, il principe è accetto ai sudditi, se il suo governo si radica nella loro affezione le fortezze sono superflue.

L'8 dicembre, quando G. dovette andarsene da Urbino, era l'angoscia a opprimerlo, non certo il compiacimento per una disposizione che ai posteri apparirà illuminante. E forse si pentì di non aver perseguita la soluzione - che peraltro di nuovo gli venne prospettata - fatta balenare dal Valentino di una sua rinuncia al Ducato compensata con la porpora cardinalizia, mentre Elisabetta, sua moglie, annullato il matrimonio, sarebbe potuta convolare a nuove nozze. Così Valentino si sarebbe insediato nel Ducato non già in veste di usurpatore violento, ma di signore legittimato da un accordo tra le parti e benedetto dal papa suo padre. Un'ipotesi, questa del cappello previa rinuncia al titolo ducale, che un po' per G. - logorato dalle vicissitudini e sempre malandato di salute - era parsa sin tentante; ma decisa l'opposizione di Elisabetta per una proclamata dedizione a G. che le fa respingere con orrore l'eventualità di un nuovo marito, laddove ferrea è la sua determinazione a non abbandonare G., anche "se dovessino morire a uno hospitale", come aveva scritto Capilupi in una lettera del 9 settembre a Isabella d'Este.

Riparato G. a Città di Castello lo torturava la gotta e l'ossessionava la persistente minaccia alla sua vita. A ridosso del truce tranello di Senigallia - palese dimostrazione di quel che Valentino era capace di fare -, il 5 genn. 1503 G. si portò a Pitigliano, alla quale, deciso a sbarazzarsi di lui, Valentino mosse l'assedio. G. fuggì nottetempo, guadagnò Mantova e di qui, a fine mese, Venezia, dove sua moglie era rimasta, sempre decisa a stare al suo fianco.

Per vivere con un tenore non del tutto disdicevole al suo rango - come scriveva il 22 febbraio alla cognata Isabella - impegnò quasi tutte le sue gioie. Con la morte di Alessandro VI (18 ag. 1503) e con la concomitante malattia penalizzante il figlio Cesare - si apre la prospettiva del risarcimento. Fece bene G. a far "ruinare" - osserva Machiavelli nel Modo adoperato da Valentino per eliminare i convenuti a Senigallia - "tucte le forteze di quello stato, perché confidandosi ne' popoli, non voleva che quelle forteze, ch'egli non credeva poter defendere, el nemico occupassi et, mediante quelle, tenessi in freno gli amici sua". Ora dispiegata l'amicizia dei popoli a un G. - amato dai sudditi, insiste Machiavelli nei Discorsi - che, sovvenuto da Venezia con un prestito di 3000 ducati, subito si mosse portandosi a San Leo, donde, il 26, attraversando il Montefeltro esultante, arrivava, finalmente non più ramingo, nei pressi di Urbino. Ma G. non era del tutto sicuro, in cuor suo, dato che papa Pio III restava poco risoluto nel contrastare il Valentino, che anzi confermò gonfaloniere della Chiesa e vicario di Romagna ed era, insieme, di G. quasi diffidente.

Per il momento G. contava su Venezia. E valeva la condotta la quale, come precisa il relativo strumento del 4 settembre - in questo previsto il servizio di G., con 100 armigeri e 150 balestrieri a cavallo a capo di 20.000 fanti; e la provvigione è di 10.000 ducati annui - per tutta la durata della ferma, lo pone sotto la protezione della Repubblica. E tra questa e i Malatesta G. si fece mediatore perché la prima ottenesse Rimini. Espliciti gli appetiti veneziani procedenti all'acquisizione di Sant'Arcangelo, Montefiore, Verucchio, Meldola, Savignano, Cesenatico e altre località romagnole, mentre G., nello sferrare ai primi di ottobre l'offensiva contro Cesena si preoccupava di precisare che stava operando "per la Ghiesia e per s. Marco". Ma sono ormai divaricate la S. Sede e la Serenissima perché G. possa supporsi campione di entrambe. Morto, il 18 ottobre, Pio III e innalzato, il 1° nov. 1503, al soglio Giulio II, fu il nuovo pontefice a dire a Machiavelli - il quale si affrettò, il 6 novembre, a informarne i Dieci - che G. "era per fare a suo modo e non ad modo de' Viniziani". Ma il neopontefice si mostrò troppo baldanzoso nel dare per scontato l'immediato allineamento di G. se, appreso che Ottaviano Fregoso "era venuto in campo con fanti e cavalli mandati" da G., "si alterò e disse: questo duca sarà qui fra dua dì; io lo metterò in Castello". Un proposito che Machiavelli riportò nella sua letterale formulazione scrivendone, il 18, ai Dieci. E, in effetti, G. arrivò a Roma. Il segretario fiorentino registrava "che sarà capitano della Chiesa", aggiungendo - in una successiva lettera ai Dieci del 3 dicembre - che G. reclamava 200.000 ducati a risarcimento dei danni subiti dal Valentino: evidentemente rientrata la precipitosa decisione papale di incarcerarlo. Una più pacata riflessione dovette suggerire al pontefice la convenienza di un utilizzo di Guidubaldo. E mentre Elisabetta assunse in sua assenza la reggenza, si protrasse il soggiorno romano di G. al quale, creato da Giulio II gonfaloniere della Chiesa, il 2 dicembre Cesare Borgia rivelava le parole d'ordine schiudenti l'accesso alle fortezze romagnole. Ricomparso, il 1° giugno 1504, a Urbino, stava a lui recuperare, il 26, Forlì, dove si trattenne, arresasi pure la fortezza, sino al 6 settembre stabilendovi forme e contenuti del governo locale. Saldata l'intesa con il pontefice dalla solenne celebrazione, il 18 settembre, dell'adozione con diritto di successione di Francesco Maria Della Rovere nipote di G. e di Giulio II, G. era ormai uomo dello Stato pontificio e del pontefice. Ma se questi, il 4 dicembre, pronunciò in concistoro, brandendo le censure ecclesiastiche, una violenta requisitoria contro Venezia, si dovette alla negoziazione di G. se, il 10 febbr. 1505, la Repubblica - pur restituendo Sant'Arcangelo, Savignano, Montefiore, Tossignano, Cesenatico - trattenne Rimini e Faenza. Era di G. la lettera da Roma, del 13 febbraio, di ringraziamento, a nome del papa, per la soluzione del contenzioso.

Temporaneamente rientrati i furori antiveneziani di Giulio II, il quale apprezzò le capacità di mediazione del duca urbinate; tant'è che di lui si valse per sedare le discordie di Cesena, riportata nell'aprile del 1506 alla quiete. Fu persino ascoltato da Giulio II, se G., il 21 ag. 1506, poté scrivere al cognato Francesco Gonzaga di avere proposto - allorché "si è rasonato di far la impresa di Bologna" - lui, il marchese di Mantova; e il papa ha consentito. Forse G. un po' esagerava per attribuirsi un'influenza adoperata a vantaggio del cognato. Comunque nell'impresa ebbe anch'egli parte. A G. fu affidata la composizione con Giampaolo Baglioni, furono consegnati in ostaggio due figli di questo e, per volontà del papa, a G. si consegnò lo stesso Baglioni. D'altronde fu G. a convincerlo ad andare a Orvieto a piegarsi. Sicché il papa, il 13 settembre, entrò trionfante a Perugia. Seguì, il 22, l'ingresso a Gubbio e il 23 a Cantiano. E, nell'ingresso in tutta pompa, del 25 a Urbino il superbo pontefice fu omaggiato con la consegna delle chiavi delle città, con l'atterramento dei battenti delle porte.

G. era sempre al seguito del papa - che il 26 emanò un decreto per ridare capacità di acquisto alla propria moneta - nel suo procedere a esibizione di un mondano potere esigente piena sottomissione. L'impresa era conclusa con l'11 novembre, passando per Forlimpopoli, Forlì e Imola dopo che, il 2, se ne era andato lo scomunicato Giovanni Bentivoglio, con l'ingresso a Bologna; e qui G. alloggiò in casa di Giulio Malvezzi per rimanervi sino a fine febbraio del 1507. Intanto, ancora il 1° nov. 1506, Castiglione - già suo avveduto consigliere nel rapporto con Giulio II - era giunto a Londra a ricevervi il 6, per conto di G., l'insegna dell'Ordine della Giarrettiera conferito da Enrico VII.

Portatosi quindi a Urbino a organizzare l'accoglienza di Giulio II, che arrivò il 3 marzo, G. lo scortò sino a Cagli, non proseguendo oltre per dolorosi assalti di gotta, sopportando i quali, peraltro riuscì a sedare - come il papa da lui pretendeva - le discordie di Fano. Un'incombenza da cui uscì prostrato. E forse è interpretabile anche come riconoscenza, da parte di Giulio II, per il suo ottemperante prodigarsi la bolla del 13 marzo a conferma del Collegio dei 13 dottori che, istituito nel 1506 da G., per i giudizi in seconda e - eccezion fatta per le cause beneficiali - terza istanza, varrà a conferire a Urbino una parvenza universitaria.

Affacciatosi alla vita - ricorderà Castiglione - erede di tutte le virtù paterne con un'indole meravigliosa a promessa di tutti i frutti possibili, crudele l'avventarsi infierente della malattia su G., "deformato e guasto nella sua verde età" uno dei più "belli e disposti corpi del mondo", soffocata la capacità di chi, di per sé, poteva stagliarsi quale grandissimo condottiere e principe, dagli "atrocissimi dolori" delle "podagri" via via compromettenti i suoi movimenti, via via impedenti lo "stare in piedi": così nell'esordio del Cortegiano ove si dà forma e sostanza con "parole" alla "grazia", incarnata, appunto, dal cortigiano nell'imprescindibile cornice del principe buono. Ma questo - nella misura in cui coincide con G. - di "cortegiania" è promotore e giudice; giustamente sede naturale per il cortigiano castiglioneo è quella corte già attestata da una lettera di Bembo del 9 sett. 1506 quale compendio al meglio della civiltà, appunto, cortigiana; ed è nel palazzo che impronta tutta Urbino, città in forma di palazzo, che culmina l'eccellenza umana. Aveva ormai poco da vivere. Aspro l'inverno nella fredda e ventosa Urbino per G. sempre più malato.

Nel gennaio del 1508 G. si trasferì a Fossombrone, per il clima meno rigido; e l'inverno G. in effetti lo superò, ma solo per spegnersi - devotamente assistito dalla moglie - a primavera iniziata, l'11 apr. 1508.

Nell'apprendere la notizia Raffaello non trattenne le lacrime, laddove il cronista udinese Gregorio Amaseo, in data 22, annotava "che in Urbino erano 2 parte, et chi voleva Santo Marcho et chi lo prefetino". Ancorché confusa e senza conferme in altre fonti la diceria raccolta da Amaseo non va cestinata, per quel tanto che segnala un minimo di divaricazione a corte tra un gruppo in certo qual modo filoveneziano e un altro decisamente schierato con Francesco Maria Della Rovere, il prefetto di Roma.

Solenni le esequie - cui parteciparono i cinque vescovi del Ducato con il clero e 825 gentiluomini a lutto e incappucciati, e pronunciata l'orazione da Ludovico Odasi già precettore e poi segretario di G. - del 2 maggio nel duomo urbinate, seguite dalla sepoltura nella chiesa francescana di S. Bernardino.

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