I caratteri generali della colonizzazione greca in Occidente

Il Mondo dell'Archeologia (2004)

I caratteri generali della colonizzazione greca in Occidente

Laura Buccino

I precedenti della colonizzazione

I contatti del mondo greco con il Mediterraneo centro-occidentale sono attestati sin dall’età preistorica. La vocazione marittima e la ricerca di materie prime (ossidiana, metalli) spinsero le popolazioni dell’Egeo a creare e a intrattenere una rete intensa di relazioni commerciali in tutto il bacino del Mediterraneo. I rapporti e gli scambi del mondo egeo con il versante adriatico dell’Italia risalgono al III millennio a.C. I materiali archeologici, soprattutto ceramici, rinvenuti in Italia documentano la frequentazione micenea sin dalle prime fasi di questa civiltà (XVI-XV sec. a.C.): nelle Isole Eolie (Lipari, Filicudi, Salina), nell’arcipelago flegreo (Ischia e Vivara), ma anche lungo le coste dell’Italia, nella Puglia adriatica (Giovinazzo, Molinella e Grotta Manaccore nel Gargano), nella Calabria ionica, nella Grotta del Pino vicino Salerno e nella Sicilia meridionale, dove nel santuario-officina di Montegrande, presso Agrigento, sono state rinvenute fornaci di lavorazione dello zolfo, che si estraeva nella zona. La presenza commerciale micenea si rivela precoce e molto intensa, a giudicare dal rinvenimento di abbondante ceramica dipinta pregiata, ma anche di uso corrente. Uno studio di L. Vagnetti del 1999 elenca ben 78 siti in terra italica che hanno restituito materiale miceneo.

Alla ricerca dei metalli dell’Etruria e del Lazio, i Micenei sfruttarono gli approdi delle Isole Eolie e di quelle flegree lungo le rotte tirreniche. Per la sua posizione geografica e la presenza dell’ossidiana e dell’allume, l’arcipelago delle Eolie ricoprì un ruolo importante come crocevia nello svolgimento dei traffici egei verso la penisola italiana, la Sardegna e l’estremo Occidente. Già all’inizio dell’età del Bronzo, intorno al 2200 a.C., genti provenienti dal Peloponneso dovettero stanziarsi nelle isole, apportandovi elementi della loro cultura elladica. Dalla prima metà del XVI sec. a.C. compaiono le importazioni di ceramica micenea negli abitati fortificati del Castello di Lipari e della Montagnola di Filicudi, nei livelli ascrivibili alla cosiddetta “cultura di Capo Graziano”. Alla presenza di un architetto miceneo a Lipari è attribuito il monumento a tholos rinvenuto a San Calogero, che sfrutta una sorgente di acqua termale e ricorda i celebri esempi di Micene, come il coevo Tesoro di Atreo (1430 a.C. ca.).

La frequentazione micenea pare aver profondamente influenzato dal punto di vista tecnologico e culturale l’abitato protostorico di Vivara, scalo marittimo dinamico sin dalla metà del XVII sec. a.C. Il ritrovamento di giare e di tegole di ispirazione egea, ma di fabbricazione locale, dimostra la presenza nell’isola di maestranze egee e l’adozione dell’uso del tornio e di un sistema di copertura estranei fino a quel momento all’ambiente italico. Sono stati rinvenuti anche gettoni fittili di varia forma, ricavati spesso da frammenti di vasi, relativi a un sistema di registrazione dei beni. I fabbri locali si dimostrano, inoltre, abili nella lavorazione dei metalli e nella pratica di fusione del bronzo. Nel periodo di massimo splendore e potere dei palazzi micenei (XIV-XIII sec. a.C.) i contatti con l’Occidente paiono intensificarsi. Non sono documentabili veri e propri stanziamenti coloniali, anche se in importanti centri costieri indigeni dovettero stabilirsi mercanti e artigiani itineranti provenienti dall’Egeo, che influenzarono le culture locali preesistenti.

Materiali micenei (ceramica e idoletti) di questa epoca sono stati rinvenuti in numerosi abitati della costa: nelle Eolie (a Lipari, Panarea e Salina, nella facies della cd. “cultura del Milazzese”); a Thapsos, nella Penisola di Magnisi, a sud del golfo di Augusta (nella necropoli con tombe a grotticella e sepolture a enchytrismòs, entro recipienti di terracotta); nel villaggio di Cannatello, vicino Agrigento, costituito da nuclei di capanne entro due recinzioni concentriche. La connotazione della ceramica rinvenuta ha fatto proporre una provenienza essenzialmente cipriota degli influssi micenei riscontrati nella Sicilia sudorientale, a Cannatello e nel Siracusano, nel quadro di una rotta legata al commercio dello zolfo e dei metalli. Apporti egei sono all’origine di testimonianze architettoniche scoperte in Sicilia, che esulano dai canoni tradizionali riscontrabili negli abitati indigeni. Si possono ricordare le abitazioni dell’insediamento protostorico di Thapsos; la tipologia delle tombe a tholos scavate nella roccia, ben documentate nella Sicilia centro-meridionale, e il cosiddetto anaktoron di Pantalica, nell’entroterra di Siracusa. L’edificio, che consta di sei vani quadrangolari giustapposti, costruiti con grandi blocchi, è stato interpretato da L. Bernabò Brea come il palazzo di un capo indigeno, commissionato tra la fine del XIII e gli inizi del XII sec. a.C. a un architetto di origine micenea. La grande necropoli di Pantalica, costituita da tombe a grotticella, attesta la fiorente vita dell’abitato dal XIII all’VIII sec. a.C.

Nell’Italia meridionale si segnalano gli insediamenti costieri della Puglia centro-settentrionale, siti in genere su promontori e alture naturalmente difendibili e vicino ad approdi naturali, come Punta Le Terrare, nel Brindisino, e Coppa Nevigata, dove la frequentazione dei gruppi egei può aver determinato l’organizzazione sociale più complessa riscontrabile nell’abitato. Da Scoglio del Tonno e da altri siti del Golfo di Taranto (Porto Perone, Saturo, Torre Castelluccia) proviene una caratteristica ceramica grigia che, a lungo giudicata di importazione, è ora ritenuta prodotta sul posto, con l’apporto di maestranze egee che utilizzavano il tornio e cuocevano i vasi in forni ad alta temperatura. Negli insediamenti della Sibaritide di Broglio di Trebisacce e Torre Mordillo, nella piana del fiume Crati, è attestata la produzione locale di ceramica italo-micenea, che imita le forme e la tecnica dei modelli provenienti dall’Egeo. Botteghe locali di vasai dovevano essere attive anche nel sito lucano di Termitito, che ha restituito abbondante ceramica dipinta di ispirazione micenea.

La produzione locale in Occidente continuò anche nelle epoche successive, quando le importazioni di ceramica micenea si esaurirono, a causa della crisi dei palazzi. Significativo anche il rinvenimento a Torre Mordillo di avori lavorati sul posto (pettine di avorio di elefante e scarti di lavorazione), che attestano le relazioni con il mondo egeo e con il Vicino Oriente e la partecipazione alla koinè culturale diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo anche da parte delle aree occidentali, coinvolte nella circolazione di materiali pregiati e di maestranze specializzate. Lo scambio di manufatti e di artigiani doveva comportare anche la presenza nella Grecia micenea di elementi provenienti dall’Italia. È ben attestata, infatti, la circolazione di prodotti e modelli dell’artigianato metallurgico italico. Inoltre, nella Grecia sia insulare che continentale sono state individuate classi ceramiche confrontabili per forme e tecnica con quelle rinvenute in Italia meridionale (ceramica d’impasto non tornita, cd. Barbarian Ware, e ceramica grigia).

L’idea mitica dell’occidente

Prima della fondazione delle colonie, l’idea che i Greci avevano dell’Occidente era avvolta in un alone di leggenda. La memoria dei traffici dell’età micenea, la conoscenza delle rotte e dei territori attraverso i racconti dei mercanti e dei primi esploratori delle coste italiane e il potere evocativo dei paesaggi ispirarono storie mitiche. In Occidente erano localizzate molte delle avventure epiche di Ulisse e i viaggi di altri eroi reduci da Troia, come Diomede, Filottete e Nestore. Basti pensare  all’episodio dell’Odissea che racconta la visita di Ulisse al dio dei venti, Eolo, da cui deriva il nome dell’arcipelago siciliano delle Eolie. La pericolosità dello Stretto di Messina per i naviganti dette origine al mito di Scilla e Cariddi, le due creature mostruose posizionate alle estremità dello Stretto. Il nome delle Isole dei Ciclopi, nella costa orientale della Sicilia, richiama l’episodio nel quale Polifemo, accecato, lancia le enormi pietre contro Ulisse.

Nell’Etna era localizzata la famosa fucina del dio Efesto. L’Occidente era considerato teatro anche di alcune imprese di Eracle, progenitore della stirpe dorica, eroe civilizzatore per eccellenza e istitutore di culti e santuari nel corso del viaggio di ritorno dall’isola di Erytheia, al di là dell’oceano, dove aveva recuperato le vacche immortali di Gerione. Ad esempio, a lui era attribuita la fondazione del santuario di Hera Lacinia, nel territorio di Crotone, come espiazione dell’uccisione dell’eroe eponimo della vicina polis, Kroton, e di suo suocero Lacinio. La saga degli Argonauti e di Giasone alla ricerca del vello d’oro ripercorre la diffusione del culto di Hera e la fondazione del grande santuario della dea alla foce del Sele. Alla Sicilia è legata la figura di Minosse, re di Creta, che sbarcò nell’isola all’inseguimento del celebre architetto Dedalo e fu ucciso con l’inganno dal sovrano indigeno Kokalos nella sua reggia. Una parte del suo esercito fondò alla sua morte la città che da lui prese il nome di Eraclea Minoa. Il mito contribuiva a spiegare così la scoperta delle terre dell’Occidente e il loro inserimento nell’immaginario e nel mondo culturale dei Greci, che per rappresentarsi una realtà prima sconosciuta e darle un posto nella loro visione ordinata del mondo attribuivano origini greche alle popolazioni indigene. Ad esempio, Esiodo, nella Teogonia, fa discendere i capi dei Tirreni (gli Etruschi), Latino e Agrio, dagli amori di Circe e Ulisse, mentre altre tradizioni ascrivevano un’origine arcade ai più antichi abitanti del Lazio, come il re Evandro dell’Eneide, e a popoli italici, tra cui gli Enotri e gli Iapigi.

La colonizzazione di età storica

La ripresa dei viaggi sistematici dei Greci verso l’Occidente, dopo la frequentazione micenea delle coste dell’Italia meridionale e della Sicilia nella seconda metà del II millennio a.C., si colloca tra la fine del IX e gli inizi dell’VIII sec. a.C. Questa fase che precede la fondazione delle colonie è generalmente denominata “precolonizzazione”. La documentazione archeologica testimonia la ripresa degli scambi commerciali tra la Grecia e il Mediterraneo occidentale, legati all’iniziativa di mercanti di rango aristocratico che, battendo le rotte tirreniche alla ricerca dei metalli in Sardegna e in Etruria, entravano in contatto anche con i siti costieri della Sicilia e dell’Italia meridionale. Il rinvenimento di ceramica tardogeometrica euboica, cicladica e corinzia e delle relative imitazioni locali attesta queste relazioni mercantili, che non erano guidate istituzionalmente dalle poleis greche, e le loro influenze sulla produzione e sulle conoscenze tecniche delle popolazioni autoctone. I punti di appoggio dei mercanti greci, che non assunsero mai lo statuto di città indipendenti, divennero in qualche caso centri importanti, come è testimoniato da Pithecusa, ma in genere non erano autonomi economicamente e dipendevano per la sussistenza dai popoli indigeni, che abitavano i territori alle spalle della zona costiera, dove i Greci approdavano con le loro navi.

La Sicilia e la Magna Grecia (Megale Hellàs, termine riferito a tutta l’Italia meridionale interessata dalla colonizzazione greca, dalla Campania allo Stretto di Messina) erano abitate da popolazioni indigene, le cui culture, nel IX-VIII sec. a.C., rientravano nell’orizzonte dell’età del Ferro. Per la Campania le fonti letterarie ci tramandano i nomi degli Enotri, stanziati nel versante tirrenico e nel Metapontino, e degli Opici, che abitavano nell’interno, mentre nell’area costiera tra Capua e Pontecagnano e nel Vallo di Diano è documentata la presenza di genti di cultura villanoviana. Nella Puglia erano insediati popoli di origine illirica, noti complessivamente con il nome di Iapigi, articolati in Dauni nella zona nord, Peucezi nell’area centrale e Messapi nel Salento. I Choni occupavano la zona della Siritide e di Crotone. Tre gruppi etnici erano stanziati nella Sicilia: nella parte orientale i Siculi, che abitavano anche l’area di Locri in Calabria; gli Elimi a nordovest e i Sicani nella zona centrale e sud-orientale dell’isola.

I viaggi dei mercanti nella fase cosiddetta di “precolonizzazione” furono importanti per la conoscenza delle rotte, dei caratteri delle popolazioni e della geografia dell’Occidente, verso cui si diressero le prime vere spedizioni coloniali. Le mete e le modalità del movimento coloniale furono tenute sotto controllo dai santuari oracolari di Apollo, che consacrarono le spedizioni delle città greche e con le loro indicazioni ne condizionarono gli esiti (prima quello di Delo, poi assunse una maggiore rilevanza quello di Delfi, più legato alle città del Peloponneso). Protagonisti del movimento coloniale furono gruppi di cittadini che si allontanarono dalla loro polis per molteplici motivi, che si differenziano a seconda dei caratteri sociali e politici della città di appartenenza. Spesso l’iniziativa coloniale appare la conseguenza di profonde crisi politiche interne alle metropoleis, dovute alla concentrazione del potere e della terra nelle mani di una ristretta élite. La posizione sociale e l’occupazione dei coloni erano molto varie e talora al contingente principale si univano gruppi provenienti da altre città.

A guidare la spedizione erano uno o più ecisti di estrazione aristocratica, appartenenti alla città responsabile dell’iniziativa. La colonia fondata (apoikia, ossia allontanamento dalla propria casa) era anch’essa una comunità politicamente autonoma, con istituzioni civiche proprie, pur se legata alla madrepatria da vincoli di stirpe, alfabeto, dialetto, culti e tradizioni religiose e mitiche comuni. La scelta del sito dove fondare la nuova città era condizionata dalle preesistenze indigene, dalla presenza di risorse naturali, di approdi favorevoli e di corsi d’acqua e soprattutto dalla disponibilità di un ampio territorio fertile da coltivare, che garantisse la sussistenza dei coloni e l’autonomia della comunità anche nel futuro. Le istituzioni civiche a noi note dalla documentazione epigrafica e dalle fonti antiche ricalcavano quelle dell’organizzazione delle città della madrepatria ed erano costituite dall’assemblea di tutti i cittadini, l’ekklesia, dal consiglio della boulè e da una serie di magistrature, tra cui gli strateghi e i pritani, nella cui sede (il prytaneion) ardeva il focolare sacro, simbolo dell’unità e stabilità della polis, e dove venivano accolti gli ambasciatori stranieri e gli ospiti di riguardo.

Le notizie sulla colonizzazione e la storia politica delle città greche d’Occidente ci sono tramandate dagli storici antichi: Erodoto e Tucidide, vissuti nel V sec. a.C., ai quali si aggiungono i frammenti pervenuti delle opere di Antioco di Siracusa e di Eforo di Cuma. Altri storici originari dell’Occidente (Filisto di Siracusa, Lico di Reggio, Timeo di Tauromenio) scrissero nel IV sec. a.C., ma anche di questi non ci è giunto molto. Più tarde sono le opere di Diodoro di Siracusa, di Dionigi di Alicarnasso e del geografo Strabone e le digressioni degli storici dell’età imperiale, come Livio, Plinio, Pausania, Giustino, fino a Stefano di Bisanzio. I rinvenimenti archeologici hanno permesso di confermare o precisare i dati ricavabili dalle fonti letterarie. Le prime colonie d’Occidente vennero fondate dai Greci dell’Eubea, in punti strategici per gli scambi commerciali. Eretriesi e Calcidesi impiantarono, intorno al 760 a.C., l’insediamento di Pithecusa nell’Isola di Ischia, interpretato come un emporio, che intratteneva rapporti commerciali con l’Etruria, le genti italiche e il Mediterraneo orientale.

Intorno al 750 a.C. venne fondata sulla terraferma, di fronte a Ischia, la prima vera colonia, Kyme (Cuma), dai Calcidesi e da altri cittadini provenienti da Kyme in Eolide, dalla quale la nuova città derivò il nome e il culto oracolare di Apollo e della Sibilla. Per controllare il Golfo di Napoli e i traffici commerciali nel Tirreno, verso l’area occupata dagli Etruschi, Cuma realizzò una serie di scali navali (epineia) lungo la costa flegrea, in corrispondenza di Pozzuoli, Miseno e di Parthenope (denominata Paleopolis dopo la fondazione di Napoli). A coloni provenienti dall’Eubea si deve anche la fondazione  nel 734 a.C. della prima colonia greca in Sicilia, Naxos, che prese il nome dal contingente proveniente dall’omonima isola delle Cicladi. I coloni si stabilirono nella penisola di Capo Schisò, sulla costa orientale della Sicilia, erigendo sul luogo stesso dello sbarco l’altare di Apollo Archegetes, il dio titolare dell’oracolo di Delo, che aveva guidato e portato a buon fine la spedizione.

Calcidesi sono ancora i responsabili delle due colonie sorte sullo Stretto di Messina. Alla fondazione di Zankle (Messina), che deve il nome alla forma a falce del porto, intorno al 730-725 a.C., parteciparono anche i Cumani, che miravano a controllare il principale accesso al Tirreno. Ai Calcidesi chiamati dai coloni di Zankle a occupare l’altra sponda dello Stretto, dove fu fondata Rhegion (Reggio di Calabria) nel 720-715 a.C., si unirono esuli Messeni di stirpe regale, che si erano macchiati di violenza nei confronti di vergini spartane nel corso di feste religiose comuni. Per ampliare il proprio territorio e controllare i punti nevralgici della navigazione, Zankle fondò già alla fine dell’VIII sec. a.C. Mylai (Milazzo) e agli inizi del VII sec. a.C. Metauros (Gioia Tauro), in seguito confluita nell’orbita locrese.

I Greci di stirpe dorica scelsero di dirigersi sulla costa sudorientale della Sicilia, dove nel 734/3 a.C. i Corinzi fondarono Siracusa, stabilendosi nella penisoletta di Ortigia e nell’immediato retroterra; qui la Fonte Aretusa garantiva il rifornimento idrico, in un’area difesa naturalmente e provvista di due bacini portuali. L’importanza marittima di Siracusa è confermata dalla natura delle altre colonie fondate da Corinto nell’Adriatico nel corso del VII sec. a.C.: Corfù, Leucade, Anaktorion, Ambracia e Apollonia. Per arginare la presenza siracusana, Naxos fondò nel 729 a.C. le subcolonie di Lentini e Catania, nella piana dell’Etna. Nel 728 a.C. altri coloni di stirpe dorica, provenienti da Megara Nisea, cui risalgono altre fondazioni nella Propontide, nel Bosforo e nel Ponto Eusino, diedero vita a Megara Hyblaea, nel golfo di Augusta. I coloni megaresi incontrarono numerosi ostacoli: insediatisi inizialmente a Trotilon, presso il fiume Pantagia, a nord del golfo, furono chiamati dai Calcidesi a Lentini, per esserne cacciati dopo un breve periodo di convivenza. Dopo essersi spostati a sud nella penisola di Thapsos, troppo vicino a Siracusa, accettarono l’offerta del re siculo Hyblon, che concesse loro il territorio dove infine fondarono Megara Hyblaea, che nel nome ricorda la città greca di origine e quella dell’ospitale re di Hybla.

Alla fine dell’VIII sec. a.C. si mossero i colonizzatori dalla regione peloponnesiaca dell’Acaia, scegliendo siti della costa del Mar Ionio alla sbocco di fertili valli fluviali: nel 730-720 a.C. fu fondata Sibari, sul fiume Crati, con la partecipazione di Trezeni dell’Argolide e Locresi, e poco dopo, nel 708 a.C., Crotone presso la foce dell’Esaro. In una seconda ondata sorsero Caulonia (nel 675-650 a.C.), dedotta da Crotone; Metaponto (nel 640-630 a.C.), da Achei della madrepatria insieme ai Sibariti, e Poseidonia, a opera dei Sibariti con un contingente di Dori, intorno al 600 a.C. Da Sparta giunsero i fondatori di Taranto nel 706 a.C., Lacedemoni che non godevano dei pieni diritti civili, per essersi rifiutati di combattere contro i Messeni o perché di nascita illegittima, i cosiddetti Partheniai. Gli Ioni di Colofone, in Asia Minore, che intendevano sfuggire al dominio del re dei Lidi Gige, impiantarono, intorno al 690-680 a.C., Siris in Basilicata, su un sito che secondo Antioco era stato occupato in precedenza da esuli Troiani, soppiantati dalla gente italica dei Choni.

Sempre agli inizi del VII secolo, nel 688 a.C., un gruppo misto di Rodi e Cretesi fondò in Sicilia Gela, alla foce dell’omonimo fiume, allo sbocco di un’ampia piana fertile, adatta alla coltura cerealicola e all’allevamento dei cavalli. Nel 679 o 673 a.C. i Locresi diedero vita a Locri Epizefirii, dove il legislatore Zaleuco promulgò le prime leggi scritte alla metà del VII sec. a.C. Secondo la tradizione riferita da Aristotele, la città venne fondata dai discendenti illegittimi della nobiltà locrese, le cui donne si erano unite con servi durante una lunga assenza dei mariti. Qualche generazione dopo la fondazione, crisi interne alla società, dovute alla concentrazione dei lotti migliori di terra e del controllo del potere nelle mani di una classe ristretta, portarono alla nascita di subcolonie, vale a dire città nate dall’iniziativa di precedenti fondazioni coloniali. Nell’entroterra, Siracusa creò gli avamposti di Acre nel 663 a.C. e Casmene nel 643 a.C., sui Monti Iblei, per consolidare l’esteso dominio che esercitava sul territorio occupato dai Siculi, mentre verso sud, sulla costa orientale, fondò Eloro e poi, nel 598 a.C., Camarina, per chiudere la cuspide sulla costa sud-est e fronteggiare Gela nel controllo del Canale di Sicilia.

Nel 650 a.C. abitanti di Zankle e di Siracusa fondarono Imera, al centro della costa settentrionale della Sicilia. Cento anni dopo la sua nascita, nel 628 a.C., Megara Hyblaea fondò Selinunte sulla costa sud-occidentale della Sicilia, in un’area occupata dai Sicani e prossima alla zona degli Elimi, dove la nuova colonia trovò ampi margini di sviluppo ed espansione. In risposta, gli abitanti di Gela dedussero una loro subcolonia, Agrigento, nel 580 a.C. In Italia meridionale Locri fondò nel primo quarto del VI sec. a.C. sul versante tirrenico Hipponion (Vibo Valentia) e Medma (Rosarno). Nel VI sec. a.C. riprese anche il movimento coloniale dalla madrepatria. Coloni di Cnido e di Rodi nel 580-576 a.C. fondarono Lipari, nelle Isole Eolie, dopo che i Cartaginesi li avevano cacciati da Lilibeo. I Focei, in fuga dall’avanzata dei Persiani di Ciro, che dal 546 avevano raggiunto le colonie greche della costa dell’Asia Minore, fondarono Elea (Velia) attorno al 540-535 a.C. In precedenza altri coloni di Focea avevano fondato Massalia (Marsiglia), allo sbocco del Rodano nel 600 a.C., Alalia in Corsica nel 565-560 e altre città sulla costa della Liguria e della Spagna.

Ad Alalia si diressero i Focei fuggiti dall’assedio persiano, ma nella battaglia del Mar Sardo nel 540 a.C. subirono gravi perdite a opera dei Cartaginesi e degli Etruschi, di cui disturbavano i traffici nell’alto Tirreno, anche con azioni di pirateria. I superstiti, con l’aiuto dei Reggini e dei Poseidoniati, si stabilirono su un promontorio del Cilento, dove fondarono Elea. Intorno alla metà del VI sec. a.C. il consolidarsi economico e politico delle nuove città portò a forti rivalità territoriali e concorrenze nei traffici marittimi. In questo periodo, grazie alla fertilità del territorio e al volume dei commerci con il Mediterraneo orientale, gli abitanti di Crotone raggiunsero un diffuso benessere e vari esponenti dell’aristocrazia locale vinsero negli agoni atletici di Olimpia. Sibari riuscì a estendere la propria sfera di influenza su un territorio molto vasto e costituì, tramite una fitta rete di alleanze con i popoli indigeni, un vero e proprio impero, in cui gravitavano numerose città-satellite, che coniarono monete con il simbolo sibarita del toro retrospiciente, come il centro enotrio ellenizzato di Pixunte.

Tra il 540 e il 538 a.C. Sibari, Metaponto e Crotone distrussero la concorrente Siris e se ne spartirono la chora. Pochi anni dopo i Crotoniati attaccarono Locri, che aveva sostenuto la città ionica, ma nella battaglia presso il fiume Sagra, che segnava il confine tra i due territori, l’esercito di Locresi e Reggini ebbe la meglio, secondo la tradizione grazie all’intervento divino dei Dioscuri. La sconfitta provocò una crisi interna alla potente polis crotoniate, in cui si inserì l’attività di Pitagora che, giunto da Samo nel 530 a.C. per sfuggire alla tirannide di Policrate, portò all’esperienza di governo dei pitagorici e a un grande fervore di studi matematici e medici. Altri esuli di Samo, nel  531 a.C., fondarono la colonia di Dicearchia (Pozzuoli), sul sito di un precedente scalo commerciale di Cuma. Nel 524 a.C., la volontà di controllare i traffici del Tirreno portò una coalizione di Etruschi dell’Adriatico, Umbri e Dauni ad assalire, senza successo, la più antica colonia euboica, dove alla scorcio del secolo divenne tiranno Aristodemo, legato da rapporti di amicizia con l’ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo.

Nel 510 a.C. il leggendario atleta Milone guidò come stratega l’esercito di Crotone nello scontro contro la rivale Sibari, che si concluse con la distruzione di quest’ultima. Crotone ottenne l’ampliamento del suo territorio, con l’acquisizione di sbocchi commerciali anche sul Tirreno e la fondazione di subcolonie (Skylletion, Terina). Allo scorcio del secolo disordini interni provocarono l’allontanamento di Pitagora, che si rifugiò a Metaponto, dove morì. Dalla fine del VII sec. a.C. tensioni politiche intestine determinarono il sorgere del fenomeno delle tirannidi in varie città della Sicilia: Panezio divenne tiranno di Lentini intorno al 600 a.C., mentre pochi anni dopo la fondazione della colonia, tra il 570 e il 554 a.C., Falaride prese il potere ad Agrigento. A Gela divenne tiranno Cleandro nel 505 a.C., seguito nel 498 dal fratello Ippocrate, che intraprese una politica espansionistica nella Sicilia orientale: combatté contro i Siculi della zona etnea, assoggettò Naxos, nel 492 a.C. rifondò Camarina (che nel 553 a.C., dopo un conflitto con la madrepatria, era stata spopolata) e si impadronì di Zankle, dove in seguito all’avanzata persiana in Asia Minore nel 494/3 a.C. giunsero numerosi esuli da Samo.

Questi Sami furono espulsi nel 486 a.C. da Anassilao, tiranno di Reggio, che cambiò il nome della città in Messana, in ricordo delle sue nobili origini messene, e assunse il controllo dello stretto. A Gela, alla morte di Ippocrate, successe nel 491 a.C. il comandante della cavalleria, Gelone, della nobile famiglia dei Dinomenidi. Chiamato a risolvere a Siracusa i contrasti politici tra i gamoroi, i ricchi proprietari terrieri, e il demos, Gelone si fece signore della città e vi trasferì la sede del proprio dominio nel 485 a.C., affidando Gela al fratello Ierone. Nel quadro della propria politica espansionistica, nel 484 a.C. Gelone distrusse Camarina, in seguito all’uccisione di Glaukos di Karystos, il governatore che le aveva imposto, e ne deportò la popolazione a Siracusa; nel 483 a.C. conquistò Megara Hyblaea, facendo trasferire i ricchi a Siracusa e riducendo in schiavitù il resto degli abitanti. Inoltre, si alleò con Terone, della famiglia degli Emmenidi, tiranno di Agrigento dal 488 a.C., che mirava a raggiungere uno sbocco sul Tirreno. I due tiranni sconfissero insieme la flotta di Cartagine, chiamata in aiuto da Anassilao di Reggio e dal suocero Terillo di Imera, nella famosa battaglia di Imera del 480 a.C., che, secondo la tradizione, avvenne lo stesso giorno di quella di Atene a Salamina contro i Persiani. La vittoria venne celebrata con la costruzione di grandiosi templi e la dedica di ricchi doni votivi nei santuari panellenici.

A Gelone successe il fratello Gerone (478-467 a.C.), mentre il fratello minore Polizalo ottenne il comando di Gela. Gerone consolidò l’egemonia di Siracusa ampliando la sua sfera di influenza alla Magna Grecia, dove appoggiò i profughi Sibariti e intervenne a favore dei Locresi contro i tentativi di espansione di Anassilao di Reggio. Nel 474 a.C., nella celebre battaglia di Cuma, la flotta di Gerone sconfisse gli Etruschi, i quali dovettero abbandonare definitivamente le loro mire nel golfo campano, che Cuma non era più in grado di controllare con le sue sole forze. I Siracusani stabilirono un presidio a Ischia e la funzione di Cuma fu assunta dalla sua neofondazione Napoli, denominata “città nuova” (Neapolis) per distinguerla dal precedente insediamento di Parthenope. Gerone intensificò i rapporti commerciali e culturali con la madrepatria, chiamando alla sua corte insigni poeti, come Pindaro, Bacchilide, Simonide e il grande tragediografo ateniese Eschilo, i quali celebrarono le sue imprese e le numerose vittorie nei giochi panellenici; il tiranno inoltre offrì preziosi doni nei santuari greci.

Sulla sponda dell’Alfeo, entro il santuario di Olimpia, sono stati rinvenuti due elmi, dedicati in seguito alla vittoria riportata da Gerone nel 474 a.C. nelle acque di Cuma: un elmo etrusco di bronzo (tipo Negau, al British Museum) – la cui iscrizione, incisa sulla calotta in dialetto dorico e alfabeto siracusano, recita: “Hiaron figlio di Deinomenes e i Siracusani (offrirono) a Zeus (preda) dei Tirreni da Cuma” – e un altro elmo bronzeo di tipo corinzio (conservato nel Museo Archeologico di Olimpia), che porta su un lato la stessa dedica. La celebre statua bronzea dell’Auriga di Delfi, capolavoro dello stile severo (470 a.C. ca.), faceva parte di un ex voto costituito da più sculture, dedicato in seguito a una vittoria con la quadriga conseguita da uno dei tiranni sicelioti nei giochi Pitici. Nell’iscrizione conservata sulla base frammentaria si legge il nome di Polizalo, fratello minore di Gelone e Gerone. La dedica potrebbe risalire a una vittoria nel 478 o nel 474 a.C. Il titolo del tiranno, presente nella prima riga, fu eraso, forse dagli stessi abitanti di Gela, in seguito al ripristino della democrazia. Nel santuario di Delfi è stato rinvenuto, inoltre, un frammento iscritto che potrebbe appartenere alla base di una statua di Gerone citata da Plutarco. A Delfi i Dinomenidi dedicarono anche tripodi aurei, di cui sono rimaste le basi in una posizione di rilievo davanti al tempio di Apollo. Secondo l’iscrizione conservata, Bion di Mileto fu l’artefice del tripode e della Nike d’oro offerti da Gelone in seguito alla vittoria riportata a Imera.

Pausania vide nel santuario di Olimpia altri gruppi bronzei con quadrighe dedicati dai Dinomenidi: uno per la vittoria di Gelone del 488 a.C., di cui rimangono tre blocchi della base con resti di iscrizione, opera del bronzista Glaukias di Egina (che aveva eseguito anche la statua di Glaukos di Karystos, governatore di Camarina, nello stesso santuario), e uno di Gerone per la vittoria del 468 a.C., dedicatogli dal figlio Dinomene, eseguito da Onatas di Egina, cui l’altrettanto celebre Calamide aggiunse ai lati due cavalli condotti da fanciulli. A Olimpia si trovavano altri donari delle colonie greche d’Occidente, come quello realizzato poco dopo il 450 a.C. da Calamide per celebrare la presa di Mozia da parte di Agrigento. Il gruppo scultoreo, noto solo grazie alla testimonianza di Pausania, raffigurava giovani con la mano protesa nell’atto di pregare lo Zeus Olimpico, particolarmente caro agli Akragantini, come mostra anche il colossale Olympieion fatto costruire da Terone. Molti dei thesauròi, eretti nel corso del VI sec. a.C. sulla terrazza nord del santuario di Olimpia, furono dedicati da poleis della Magna Grecia e della Sicilia: Siracusa, Gela, Selinunte, Sibari, Metaponto, dei quali rimangono frammenti delle terrecotte architettoniche dipinte.

A Delfi, invece, i Tarantini, dopo una vittoria sui Messapi, nel primo quarto del V sec. a.C. dedicarono un gruppo di sculture bronzee, raffiguranti cavalli e donne prigioniere, di cui si conserva parte della base iscritta, che Pausania attribuisce allo scultore Hageladas di Argo. Un altro ex voto dei Tarantini, databile intorno al 470-460 a.C., fu realizzato con il bottino preso ai Peucezi, come si legge sui blocchi conservati della base iscritta, davanti al tempio di Apollo. Secondo la testimonianza di Pausania, era opera di Onatas di Egina e di Kalliteles e raffigurava, oltre all’eroe eponimo Taras e al fondatore Phalantos, guerrieri tarantini a cavallo e a piedi, in lotta con i nemici Peucezi, e Opis, re degli Iapigi, alleati dei Peucezi.

Intorno al 460 a.C., la fine delle tirannidi nelle città siceliote sollevò il problema dei mercenari indigeni, che avevano combattuto al servizio dei tiranni ed erano stati allontanati dopo il ripristino dei regimi democratici. Il capo indigeno Ducezio riuscì a formare una confederazione di città sicule e arrivò a minacciare Agrigento nel 450 a.C., ma fu sconfitto dai Siracusani a Nomai (sito non ancora identificato) ed esiliato a Corinto. Nel V sec. a.C. si fece decisiva l’ingerenza nell’area greco-occidentale di Atene, la quale nel 444 a.C. partecipò attivamente alla fondazione della colonia panellenica di Thurii, nei pressi dell’antica Sibari, che coronò i numerosi tentativi  dei superstiti coloni achei di ricostruire la propria città distrutta dai Crotoniati. I Sibariti, però, entrati in contrasto con gli altri coloni, se ne separarono, fondando una nuova Sibari sul fiume Traente. Per ricomporre conflitti territoriali sorti con Taranto, nel 433 a.C. gli abitanti di Thurii fondarono insieme ai Tarantini Eraclea Lucana, dove era sorta Siris.

Intanto, la situazione delle popolazioni italiche si era movimentata: l’avanzata di genti dal Sannio portò alla formazione di nuovi gruppi etnici, i Campani, i Bretti e i Lucani, che assalirono le colonie greche o si inserirono prepotentemente nelle loro compagini sociali. I Campani Mamertini, devoti al dio osco della guerra, Mamers, sconfissero Cuma nel 421 a.C. e assunsero posti di potere a Napoli. Alla fine del V sec. a.C. genti lucane si impadronirono di Poseidonia, che riprese l’antico nome indigeno di Paestum. Per far fronte alla minaccia dei popoli italici alcune città greche (Crotone, Caulonia, Sibari) si unirono a formare la Lega delle città achee, con sede nel santuario crotoniate di Hera Lacinia. Agli inizi del IV sec. a.C. aderirono alla confederazione anche Thurii, Elea e Metaponto. Nel corso della guerra del Peloponneso, nel 426 a.C. Atene inviò una prima volta delle navi in Sicilia in aiuto di Lentini, in seguito al celebre discorso del neosofista Gorgia, e nel 415-413 a.C. rispose a un appello dell’antica alleata Segesta con la famosa spedizione contro Siracusa, che si risolse in una dura disfatta e portò al declino della potenza ateniese sui mari.

Dei contrasti interni alla grecità approfittarono i Cartaginesi, che nel 409 a.C. distrussero Selinunte e Imera, vendicando la sconfitta del 480, e nel 406 a.C. Agrigento. La preoccupazione per la minaccia punica favorì a Siracusa l’ascesa al potere di Dionisio I, il quale stipulò un trattato con Cartagine che riconosceva l’egemonia punica (eparchia) su tutta la Sicilia occidentale. Nel frattempo, il tiranno fortificò Siracusa, reclutò numerosi mercenari campani, consolidò il proprio potere sulle città vicine e poté riprendere l’offensiva contro i Cartaginesi, espugnando Mozia nel 398 a.C. In questi anni si collocano le fondazioni di Tauromenion (Taormina) e Tindari, mentre Milazzo venne presa da Reggio al fine di contrastare l’avanzata siracusana nello Stretto di Messina. Per estendere il proprio dominio in Italia, Dionisio combatté, con l’appoggio di Locri, contro Reggio e la Lega italiota (che aveva sostituito la confederazione achea), si alleò con i Lucani e si impadronì di Reggio, Caulonia, Hipponion e Skylletion. Nel 383 a.C. i Cartaginesi, alleati con la Lega italiota, ripresero le ostilità contro il tiranno in Italia e in Sicilia. Alla morte di Dionisio nel 368 a.C., mentre la guerra era in pieno corso, gli successe il figlio Dionisio II.

Nel 366 a.C., dopo la pace negoziata con i Cartaginesi, alla corte di Siracusa arrivò per la seconda volta Platone, nella speranza di riuscire a convincere il giovane Dionisio a governare secondo le sue dottrine politiche. Grazie alla mediazione dell’anziano filosofo il nuovo tiranno strinse buone relazioni con Taranto, che era divenuta la città più potente in Magna Grecia e aveva assunto il comando della Lega italiota, la cui sede fu trasferita a Eraclea Lucana. Platone era infatti in contatto con il pitagorico Archita, stratega di Taranto per sette anni consecutivi (367-361 a.C.), che favorì un periodo di ripresa delle città magno-greche. Per affrontare le popolazioni italiche, la cui pressione si faceva sempre più grave, le colonie si videro costrette a chiedere aiuto alle città della madrepatria. Il tiranno di Lentini, Iceta, cui si erano rivolti i Siracusani per liberarsi della tirannide di Dionisio, chiese aiuto a Corinto, che nel 345 a.C. inviò Timoleonte, il quale instaurò un governo equilibrato e sconfisse i tiranni e i Cartaginesi, stipulando con loro una pace e dando vita a un periodo di rinascita per le città siceliote.

La situazione non era migliore nell’Italia meridionale, dove Taranto invocò l’aiuto di Sparta contro i Messapi e i Lucani, che riuscirono a conquistare Eraclea e a uccidere il re spartano Archidamo nel 338 a.C. In seguito giunse in aiuto Alessandro il Molosso, re dell’Epiro e zio di Alessandro Magno, che liberò la sede della Lega italiota, ma, dopo una serie di successi militari contro gli Italici, morì assassinato a Pandosia nel 331 a.C. Nel 316 a.C. divenne tiranno di Siracusa Agatocle, suocero di Pirro, che nel 304 a.C. assunse il titolo di basileus, assimilandosi ai dinasti dei regni ellenistici. Durante i consueti scontri con Cartagine, Agatocle decise di portare la guerra in Africa, alleandosi con il governatore di Cirene e con il sovrano d’Egitto, Tolemeo I. Alla morte, nel 289 a.C., restituì volontariamente la democrazia a Siracusa. La fine dell’indipendenza delle colonie greche fu segnata dall’irrompere sulla scena della potenza di Roma, che con la seconda guerra sannitica aveva esteso il suo dominio nel Golfo di Napoli. In difesa di Taranto giunse Pirro, re dell’Epiro, che, dopo alcuni successi militari, nel 275 a.C. fu sconfitto presso Maleventum (da allora chiamata dai Romani Beneventum), causando la resa di Taranto nel 272 a.C. e il passaggio definitivo delle città della Magna Grecia nell’orbita dei Romani, che dedussero colonie nei loro territori.

Pirro era intervenuto in precedenza anche in Sicilia, in aiuto delle città greche assalite dai Cartaginesi e dai mercenari campani, i Mamertini, che erano stati reclutati da Agatocle e si erano impadroniti di Messina e Gela. Dopo la sconfitta di Pirro, prese il potere a Siracusa Gerone II, che assunse poi il titolo di re e intelligentemente scelse di mantenere buoni rapporti con Roma. La richiesta di aiuto dei mercenari campani stanziati a Messina determinò l’intervento romano in Sicilia e lo scoppio della prima guerra punica nel 264 a.C. Alla fine della guerra, nel 241 a.C., la Sicilia fu trasformata in provincia romana, tranne l’alleata Siracusa e le città del suo regno, cui i Romani garantirono l’autonomia. Dopo la morte di Gerone II, nel 215 a.C., il figlio Ieronimo si alleò con i Cartaginesi durante la seconda guerra punica, con conseguenze disastrose: Siracusa venne assediata e distrutta nel 212 a.C., segnando la fine della libertà dei Greci d’Occidente. Nel corso dell’assedio condotto dal generale romano Marco Claudio Marcello, fu ucciso anche il celebre matematico Archimede.

L’alfabeto e i dialetti

Le colonie greche si distinguono in ioniche e doriche sulla base dell’alfabeto mutuato dalla madrepatria e del dialetto utilizzato. Al gruppo ionico appartengono le colonie euboiche (Cuma, Pithecusa, Reggio, Zankle, Imera, Naxos, Lentini, Catania) e quelle fondate dagli Ioni dell’Asia Minore (Siris, Elea, Marsiglia). Da Pithecusa proviene il più antico documento iscritto finora noto nell’Occidente greco: un’anfora con indicazione di proprietà, risalente alla prima metà dell’VIII sec. a.C. Al terzo quarto dell’VIII sec. a.C. viene datata l’iscrizione metrica sinistrorsa in alfabeto euboico, incisa su tre righe su una kotyle rodia tardogeometrica, la cosiddetta “coppa di Nestore”, che è stata rinvenuta nella tomba infantile 168 della necropoli di Pithecusa. L’epigramma mette a confronto il vaso con la celebre tazza di Nestore citata nell’Iliade: “Di Nestore piacevole a bersi è la coppa. Chiunque da questa coppa beva, subito lo prenderà il desiderio di Afrodite dalla bella corona”.

Del gruppo dorico fanno parte le colonie achee della Magna Grecia (Sibari, Crotone, Caulonia, Metaponto, Poseidonia), Locri, Taranto e, in Sicilia, Siracusa, Megara Hyblaea, Gela, Agrigento, Selinunte e le relative subcolonie. Sulla parte anteriore della coscia destra di una statua marmorea di kouros rinvenuta a Megara Hyblaea si legge un’iscrizione greca ad andamento sinistrorso, incisa in verticale dall’alto al basso ed estesa fino al ginocchio. L’alfabeto è quello in uso a Megara e nelle sue colonie in età arcaica, con il caratteristico segno divisorio costituito da due punti. L’iscrizione ci informa che si tratta del monumento eretto come segnacolo della tomba “di Som(b)rotidas il medico, figlio di Mandrokles” (ΣΟΜΡΟΤΙΔΑ : ΤΟ ΙΑΤΡΟ : ΤΟ ΜΑΝΔΡΟΚΛΕΟΣ). Sombrotidas doveva essere immigrato a Megara dalla Ionia, culla del sapere scientifico, forse da Samo, come farebbe pensare il nome del padre, derivato dal nome della divinità anatolica Mandros. L’iscrizione fu incisa sicuramente a Megara Hyblaea, come dimostra l’impiego dell’alfabeto locale.

L’urbanistica e l’organizzazione del territorio

Le fondazioni coloniali implicavano la realizzazione ex novo di una città, il cui impianto veniva pianificato in maniera regolare e organica, pur se adattato alla morfologia dell’ambiente, e comportavano la strutturazione del territorio circostante, base economica della polis. Una volta individuato e occupato il sito prescelto, gli ecisti delimitavano il perimetro della nuova città e ne definivano l’organizzazione interna. Lo spazio urbano veniva suddiviso in aree di differente funzione: sin dall’origine erano riservate le aree destinate alla vita pubblica, l’agorà, e al culto, anche se non sempre furono immediatamente edificate, mentre la restante superficie urbana era destinata ai quartieri abitativi dei coloni. L’impianto urbano veniva suddiviso in maniera ortogonale mediante gli assi viari principali (plateiai), che davano vita a isolati stretti e allungati di uguale larghezza, separati a loro volta in singoli lotti da strade più strette, gli stenopòi (impianto cd. per strigas). Le necropoli erano localizzate al di fuori del perimetro urbano, nettamente separate dalle aree riservate ai vivi e dislocate lungo le vie che conducevano dalla città al territorio.

All’età arcaica risalgono le più antiche fortificazioni delle colonie occidentali, individuate a Siris e Lentini (VII sec. a.C.). Le prime abitazioni dei coloni, indagate a Naxos, Megara Hyblaea, Siracusa e Gela, erano costituite da un piccolo vano quadrangolare, impiantato nel lotto assegnato a ciascun colono, con fondazioni in opera poligonale e alzato in pietrame a secco o mattoni crudi. Le case erano allineate secondo l’orientamento delle strade e occupavano solo parte degli isolati, divisi da muri mediani, dove rimaneva spazio libero edificabile. Dalla metà del VI sec. a.C., in seguito al consolidarsi della situazione politica ed economica delle nuove poleis, il reticolato urbano venne definito in maniera più precisa, con la realizzazione delle strade e la monumentalizzazione delle aree pubbliche e santuariali. Le abitazioni furono ampliate, con l’aggiunta di più ambienti aperti su un cortile trasversale, la cui evoluzione porterà alla tipologia della casa a pastàs (loggiato di raccordo tra il cortile e i vani residenziali).

Le città fondate o ristrutturate in età classica mostrano un’ulteriore razionalizzazione dell’impianto urbano, con una ripartizione modulare degli isolati e una netta distinzione degli assi stradali, in base alla loro larghezza e funzione (vedi gli schemi urbani di V sec. a.C. di Naxos, Camarina, Imera, Selinunte per la Sicilia e di Napoli per la Magna Grecia). Al nome del celebre architetto e pensatore Ippodamo di Mileto, noto come pianificatore del Pireo intorno alla metà del V sec. a.C., è legato l’impianto della colonia di Thurii nel 444 a.C. Diodoro Siculo ne descrive lo schema urbano, che dovette apparire fortemente innovativo ai contemporanei, organizzato tramite una grande maglia di strade ortogonali di differente larghezza, suddivisa ulteriormente grazie a un fitto reticolo di stenopòi in isolati modulari, che prevedeva anche una ripartizione funzionale delle aree della città.

Ogni colonia necessitava per la sussistenza dei suoi abitanti della chora, termine che si può trovare utilizzato nella duplice accezione geografica e politica di territorio circostante la polis e di zona in cui si esercitava la sua sfera di influenza. Il territorio era meno importante per le città di vocazione prevalentemente commerciale, che sorgevano in corrispondenza di approdi naturali e in posizioni naturalmente difendibili, come nel caso delle colonie di Focea (Marsiglia, Elea). La scelta del sito in cui stabilire la colonia era guidata dall’osservazione delle caratteristiche del contesto naturale, che doveva essere fertile, ricco di acque, con un buon clima e un’area coltivabile estesa, tale da poter essere sfruttata anche in futuro. Il territorio individuato veniva occupato a scapito delle popolazioni indigene, disboscato e canalizzato, in modo da impedire lo straripamento dei fiumi. Gli interventi di bonifica sono generalmente attribuiti all’intervento benefico di divinità e figure mitiche (Aristea a Metaponto, Acheloo a Gela, il mitico architetto Dedalo a Megara Hyblaea e ad Agrigento, la ninfa omonima a Camarina, dove la bonifica fu celebrata nelle monete, come a Selinunte).

L’area coltivabile era delimitata e posta sotto la protezione di divinità, con la creazione di santuari extraurbani. Per essere sfruttata in modo sistematico, veniva quindi organizzata in maniera ordinata e funzionale e divisa in lotti regolari per orientamento e dimensioni (kleroi), che erano distribuiti ai coloni, per garantire il loro sostentamento. La posizione differenziata dei lotti, alcuni più vicini alla città, altri più periferici, e la concentrazione progressiva della proprietà nelle mani di pochi portarono a squilibri interni e lotte politiche nel corso della vita successiva delle colonie, determinando la nascita di tirannidi e la creazione di subcolonie. Le indagini archeologiche sul campo e la fotografia aerea hanno dimostrato il legame esistente tra la regolarità dell’impianto della città e di quello del suo territorio (Metaponto, Eraclea, Agrigento). Il territorio di Metaponto costituisce una delle testimonianze meglio conservate della divisione agraria della chora di una colonia greca. I canali di drenaggio visualizzano tuttora lo schema a maglia regolare delle particelle di terra destinate ai coloni, basato sullo stesso asse dell’impianto urbano.

La prevalenza delle colture cerealicole permetteva ritmi di lavori stagionali e spiega così la forte concentrazione della popolazione in città, un elemento tipico delle colonie occidentali dell’età arcaica. Dalla metà del VI sec. a.C. furono costruite le prime fattorie, dopo che l’occupazione del territorio era divenuta più stabile e sicura. Queste costruzioni sono formate solitamente da un cortile rettangolare in muratura, aperto verso sud, con ambienti disposti sui tre lati, differenziati per dimensioni e funzioni, a seconda che servissero per l’alloggio o per le attività produttive (ad es., le fattorie scavate nella chora di Metaponto e di Camarina). Dalla metà del IV sec. a.C. il popolamento rurale sotto forma di fattorie conobbe un notevole incremento, che viene ricollegato a mutamenti nell’assetto della società e a trasformazioni delle colture agrarie. Nella parte del territorio più lontana dalla polis sorgevano veri e propri villaggi (komai), che facevano riferimento a santuari rurali. Il popolamento della campagna tramite villaggi, e non fattorie isolate, è caratteristico di alcuni territori, come rivelano le indagini nella chora di Taranto. Fortini militari (phrouria) erano costruiti ai margini del territorio per la difesa dei confini e delle vie di comunicazione (individuati a Siracusa, Gela, Agrigento, Metaponto).

I rapporti con gli indigeni

Lo stanziamento dei coloni greci sulla costa determinò notevoli cambiamenti nella vita socio-economica, politica e culturale dei preesistenti insediamenti indigeni. Non è possibile tracciare un quadro unitario delle relazioni dei Greci con gli autoctoni, con i quali a volte si instaurarono rapporti conflittuali, che determinarono la distruzione dei centri indigeni, grazie alla più avanzata organizzazione militare greca (come accadde a Cuma, Locri, Taranto, Siracusa), e altre volte interrelazioni più pacifiche e durature (come a Lentini e Siris). Esemplificativo il caso di Megara Hyblaea, che ricorda nel nome sia la madrepatria che Hybla, la città dell’ospitale re siculo Hyblon, che concesse ai coloni il territorio dove dopo molte peregrinazioni fondarono la loro città. La critica archeologica è rimasta ancorata per lungo tempo a una lettura univoca del processo di acculturazione, intesa come ellenizzazione, in seguito alla penetrazione dei Greci dalla costa nelle regioni interne e alla progressiva conquista dello spazio precedentemente abitato dalle popolazioni locali, in cui l’impianto dei santuari extraurbani ricoprì un ruolo di notevole rilievo. Gli indirizzi di ricerca attuali mirano a evitare le generalizzazioni e a contestualizzare le modalità di incontro tra i Greci e gli insediamenti indigeni, tra cui non mancavano abitati socialmente strutturati ed evoluti, come nel caso di Serra di Vaglio.

Le differenti risposte degli autoctoni rispecchiano sia la varietà del quadro etnografico italico che quella della colonizzazione greca. In alcuni casi gli abitati indigeni compresi entro la chora vennero distrutti e abbandonati, mentre altri contesti rivelano profondi fenomeni di integrazione culturale con i coloni, come il villaggio dell’Incoronata al tempo dell’influenza di Siris, prima della distruzione intorno al 630 a.C. a opera di Metaponto, che evidentemente non tollerava centri indipendenti nel proprio territorio. Al contrario, i Sibariti permisero la sopravvivenza di abitati indigeni, pur sottoposti al loro controllo politico, in quanto i rinvenimenti archeologici nelle necropoli attestano la continuità di rituali funerari locali (a Francavilla Marittima e ad Amendolara). L’incontro con le poleis greche e la loro organizzazione civile determinò anche un’accelerazione del processo di formazione di alcune comunità, che si dotarono di forme di gestione autonoma e di autocoscienza, esemplificato dall’ethnos italico dei Serdaioi che, nella seconda metà del VI sec. a.C., stipularono un trattato di amicizia con Sibari, noto dalla tavola bronzea dedicata nel santuario di Olimpia, e coniarono monete sul modello di quelle di Poseidonia.

Gli Italici potevano entrare nella compagine sociale delle città greche tramite i matrimoni, i rapporti di lavoro subalterno e le prestazioni mercenarie, che divennero molto frequenti dal V sec. a.C. In particolare, le élites locali assimilarono i costumi e i modelli culturali greci, mutando le tradizionali ideologie funerarie e religiose, come dimostrano i corredi delle ricche tombe principesche indigene, che ci hanno restituito vasi da banchetto e splendide armi decorate di tipo greco. I rapporti delle colonie con le popolazioni indigene si fecero molto conflittuali dalla fine del V sec. a.C. Il frequente impiego di elementi locali assoldati come mercenari dalle colonie greche accelerò il processo di organizzazione politico-militare e di consapevolezza della propria identità delle genti italiche, che era cominciato molto tempo prima grazie all’incontro con la cultura e il modo di vivere dei Greci. I Campani, i Bretti, i Lucani entrarono in contrasto con le poleis greche, prima che la comparsa sulla scena della potenza romana ponesse fine definitivamente alla loro indipendenza.

Anche in Sicilia l’esigenza da parte delle colonie greche costiere di espandersi nell’entroterra agricolo è all’origine dei contatti con i popoli preesistenti (Sicani, Siculi ed Elimi), che determinarono notevoli cambiamenti nella cultura, nella struttura sociale e nell’assetto urbanistico e architettonico dei centri indigeni, solitamente situati su alture poste lungo le vie fluviali e dediti ad attività agricole e pastorali, fino alla completa ellenizzazione di alcuni di essi. Le recenti indagini archeologiche hanno accresciuto notevolmente le nostre conoscenze su questi insediamenti indigeni e sui loro rapporti politici e culturali con le città greche (ad es., Monte Iato). Per l’area elima si ricordano Entella, Erice, Segesta. Insediamenti siculi sono documentati sui Monti Iblei, alle pendici dell’Etna, ai margini della piana di Catania (a Hybla, presso Ragusa, e nell’area dei Palici) e nell’alto bacino dei fiumi Dirillo e Irminio. Il quadro della Sicilia occidentale è arricchito dalla presenza delle colonie puniche (Mozia, Palermo, Solunto), controllate dalla grande potenza di Cartagine, che facevano concorrenza ai traffici commerciali dei Greci e alla loro influenza sull’entroterra indigeno. L’impatto con le popolazioni locali fu a volte violento, come dimostra la distruzione dell’abitato di Finocchito nel territorio di Siracusa, che sin dall’età arcaica riuscì a estendere il proprio dominio su una zona molto vasta.

La penetrazione della cultura greca nell’area centro-orientale della Sicilia occupata dai Siculi, in seguito alla fondazione siracusana di Camarina sulla costa sud, è testimoniata dal ritrovamento, nel febbraio del 1999, di un eccezionale monumento plastico: una lastra funeraria di calcare locale, iscritta e decorata a rilievo e a tutto tondo, rinvenuta nell’abitato siculo di Castiglione, sui Monti Iblei, e conservata al Museo Archeologico di Ragusa. Il rilievo, il cosiddetto Guerriero di Castiglione, è stato scoperto in una necropoli databile tra la fine del VII e il primo quarto del VI sec. a.C., formata da 18 tombe, tra cui un monumentale tumulo con tomba a fossa centrale. La lastra reca la raffigurazione di un personaggio armato, con un grande scudo tondo, su un cavallo che incede di profilo verso sinistra. La testa a tutto tondo del guerriero, pienamente frontale e di dimensioni sproporzionate, sporge sopra la lastra coronando l’intera composizione. Il bordo superiore e le estremità del blocco sono decorati con le protomi di un toro e di una sfinge. La lastra doveva avere la funzione di architrave di una porta, poiché è decorata anche nella faccia inferiore con un cavallo reso ad altorilievo.

Nell’angolo in basso a sinistra, davanti alle zampe del cavallo, è incisa un’iscrizione metrica in greco su tre righe, sinistrorsa e in alfabeto dorico: vi si legge la dedica al guerriero raffigurato, Pyrrinos, figlio di Pytikkas e, eccezionalmente, la firma dell’artista, Sqyllos, con il verbo epoiese (“fece”). Il defunto doveva essere un Greco, morto nel centro indigeno dell’entroterra di Camarina e distintosi per meriti bellici. L’opera è attribuita a un’officina della Sicilia sud-orientale, che produceva sculture di calcare locale, attiva dalla fine del VII agli inizi del VI sec. a.C. e influenzata dalla produzione artistica corinzia e siracusana. Essa testimonia la ricezione del linguaggio formale greco e dei simboli del potere aristocratico nell’ambiente culturale indigeno. L’unico altro esempio in Sicilia di firma di artista in età arcaica è quello dell’architetto del tempio di Apollo a Siracusa, che rivela un’accentuata personalizzazione delle manifestazioni artistiche.

I culti e i santuari

Le tradizioni religiose e i culti importati dalla madrepatria, in particolare quello della divinità protettrice della comunità cittadina, costituivano un fattore importante per la coesione e la definizione dell’identità della nuova colonia e la sua autorappresentazione. Sin dalla fondazione, la progettazione dell’impianto urbano prevedeva la localizzazione del luogo di culto destinato alla divinità poliade e la definizione delle varie aree sacre. Fondamentale per l’esigenza di autoaffermazione delle colonie si rivela anche il culto dell’ecista, assimilato dopo la morte a un eroe e come tale venerato e commemorato in rituali cittadini. Edifici identificati come heroa sono stati riconosciuti a Megara Hyblaea e a Poseidonia, dove risultano ubicati significativamente nello spazio pubblico dell’agorà. L’impianto dei luoghi di culto rivestì un ruolo fondamentale anche nel processo di conquista del territorio circostante alla polis e di appropriazione delle risorse territoriali da parte dei coloni, già nelle prime fasi della colonizzazione. Sul fenomeno dei santuari extraurbani in Magna Grecia ci informano sia i dati archeologici che le notizie che si desumono dalle fonti letterarie e mitografiche e dalle iscrizioni di carattere religioso.

L’ubicazione dei santuari extraurbani segnava l’occupazione della chora, come dimostrano gli esempi di Sibari, Crotone, Metaponto e Poseidonia. Non a caso queste aree sacre erano situate in punti nevralgici, di frequente ai limiti della zona di dominio della polis, al confine con altre realtà etniche o urbane (santuari di frontiera, come i grandi heraia di Crotone, Metaponto e Poseidonia), o a controllo delle risorse territoriali, ad esempio nei pressi di sorgenti, in quanto l’acqua era un elemento determinante in alcune pratiche rituali e una risorsa fondamentale per la vita (santuari in località Pantanello e San Biagio presso Metaponto); altre volte venivano impiantati su promontori importanti per il controllo della navigazione (l’Heraion di Capo Colonna e il santuario di Apollo Aleo sul promontorio di Crimisa a Cirò, presso Crotone, l’Athenaion di Punta della Campanella, vicino Sorrento) o lungo le vie di comunicazione terrestre o fluviali che consentivano la penetrazione nell’interno (Tavole Palatine di Metaponto, Heraion del Sele, vicino a Poseidonia). Questi centri cultuali segnavano visivamente l’espansione della colonia nel territorio circostante a scapito delle popolazioni indigene preesistenti e la ponevano sotto la protezione di una divinità.

Non è escluso, comunque, che alcuni di essi sorgessero sul luogo di antiche aree sacre, note sin dall’età precoloniale, come indicherebbero le tradizioni che ne riportavano la fondazione a eroi del mito. L’impianto di questi luoghi di culto è contraddistinto in origine dall’innalzamento dell’altare, da una serie di sacelli riservati alle pratiche rituali, inizialmente modesti e in materiali deperibili (legno e terracotta), e da stipi e pozzi sacri (bothroi) per la deposizione delle offerte votive, entro il recinto sacro del temenos. La monumentalizzazione di alcuni di questi santuari extraurbani, con l’erezione di edifici stabili in pietra, si colloca nel corso del VI sec. a.C., come manifestazione dell’esigenza di affermare l’identità della polis rispetto alle popolazioni indigene e alle realtà greche concorrenti. Alcuni di questi santuari assunsero un significato interregionale, divenendo importanti luoghi di aggregazione e di incontro delle varie poleis magno-greche, come quello di Hera Lacinia a Capo Colonna che, verso la fine del V sec. a.C., fu scelto come sede della Lega italiota. I santuari extraurbani potevano possedere proprietà terriere gestite autonomamente dalla polis di riferimento, come attestano le tavole bronzee iscritte di Eraclea.

Sin dal primo arcaismo le colonie si dotarono anche di una serie di santuari suburbani, posti ai margini della città, che circondavano il centro urbano e fungevano da cerniera con la chora. Spesso queste aree sacre periferiche erano poste vicino alle necropoli e legate a culti ctoni. L’anello di santuari collocati intorno alla città per garantirle la protezione divina è ben esemplificato da Locri, dove numerose aree sacre si trovavano lungo il percorso più tardi ricalcato dal circuito murario. Nel territorio, infine, erano dislocati piccoli santuari rurali, legati allo sfruttamento delle risorse agricole e alle attività produttive. Essi erano distribuiti a intervalli regolari nelle vallate o lungo le vie di comunicazione principali e fungevano da punto di riferimento e di aggregazione per gli abitanti delle fattorie e dei villaggi della chora. In assenza di documenti iscritti e di notizie delle fonti letterarie, non è sempre facile individuare le divinità cui erano dedicate le aree sacre in età arcaica, sulla base dell’analisi dei materiali votivi.

Si tratta in genere di una divinità femminile, dai contorni piuttosto indefiniti, legata alla sfera della natura e della fertilità, ma anche al mondo ctonio, successivamente identificata con una delle dee canoniche del Pantheon greco: Hera, Atena (venerata localmente con epiteti differenti), Afrodite (tipica di Locri), Artemide, Demetra e Kore, oltre a Ninfe e Sirene, connesse al mondo delle acque. Tra le divinità maschili, più rare, non mancano attestazioni del culto di Zeus, di Poseidon (eponimo della colonia di Poseidonia), di Dioniso, di Apollo, il dio che dal santuario oracolare di Delo aveva guidato i primi coloni greci verso Occidente (ad es., a Naxos, la prima colonia siceliota, fu eretto un altare ad Apollo Archegetes) e di Asclepio. Oggetto di culti particolari erano anche eroi mitici, cui si faceva risalire l’origine dei grandi santuari e dei coloni. Ad esempio, il mito attribuiva la creazione del santuario di Apollo Alaios a Crimisa, al limite nord della chora di Crotone, all’eroe tessalo Filottete che, a conclusione del suo errare (gr. ἄλη) dopo il ritorno dalla guerra di Troia, giunto in questa regione, avrebbe fondato alcuni centri indigeni e il santuario, consacrandovi l’arco e le frecce avuti in dono da Eracle.

Una celebre iscrizione rinvenuta a Selinunte, collocata nel tempio di Zeus intorno alla metà del V sec. a.C. in seguito a una vittoria, elenca i nomi degli dei venerati nella colonia: accanto agli dei olimpici tradizionali (Zeus, Apollo, Poseidon, Atena, i Dioscuri ed Eracle) sono citati Phobos, personificazione del terrore, Pasikrateia e Malophoros, due divinità locali di origine antica, come lo Zeus Meilichios, dalla valenza ctonia. Il culto della Malophoros, “la portatrice di frutti”, legata alla sfera della natura e assimilata a Demetra, rientra nella categoria delle divinità femminili connesse alla fertilità della terra, tipica di tutto l’Occidente greco. Il culto di Hera, in particolare, si rivela caratteristico delle colonie achee, che lo derivarono dalla madrepatria e costruirono grandiosi heraia (Sibari, Crotone, Metaponto, Poseidonia). L’impianto di tali santuari avvenne contemporaneamente alla fondazione di queste colonie, ai confini del loro territorio, che quindi veniva visivamente definito e posto sotto la protezione della Hera Argiva. La grande dea peloponnesiaca era venerata in Magna Grecia come divinità della natura e degli animali, come protettrice della sfera femminile del matrimonio e della fertilità, ma anche come signora delle armi (l’Hoplosmia di Capo Colonna) e come liberatrice dalla schiavitù (Eleutheria, nello stesso santuario).

Il culto di Demetra e Kore è attestato nell’ambito greco-occidentale dalla seconda metà del VII sec. a.C. Il ratto di Persefone da parte di Hades, dio degli inferi, era collocato dalla tradizione mitica in Sicilia, in un lago vicino Enna o, secondo altre fonti, presso la fonte Ciane di Siracusa. I primi santuari delle due dee finora noti in Sicilia sono stati individuati a Selinunte (santuario di Demetra Malophoros), Gela (santuario di Bitalemi) e Agrigento (santuario di Sant’Anna), dove furono eretti subito dopo la fondazione delle colonie, che seguivano la tradizione religiosa della metropoli. In Magna Grecia un santuario del tipo è attestato a Taranto (in contrada Pizzone), da dove il culto si diffuse nella chora (Saturo e Oria) e, nello stesso periodo, a Locri e nelle sue subcolonie (Medma, Hipponion). Il numero dei santuari di Demetra e Kore aumentò notevolmente dalla seconda metà del VI sec. a.C. (a Siracusa e Poseidonia, oltre a Gela e Agrigento, dove i nuovi luoghi di culto si aggiunsero a quelli già esistenti). La fortuna del culto si lega al grande sviluppo economico delle colonie occidentali, basato sulla fiorente agricoltura. La fertilità delle terre e la prosperità delle città venivano poste sotto la benevola protezione delle due dee.

Tale culto in età arcaica era solitamente celebrato all’aperto e finalizzato all’ottenimento di un buon raccolto, un ricco allevamento e una caccia fruttuosa. Non a caso i santuari erano ubicati nella parte della città aperta verso il territorio coltivabile della chora. La maggior parte dei rinvenimenti si riferisce agli interramenti dei resti e degli strumenti utilizzati nel pasto rituale comune e nei sacrifici (del maialino e incruenti, soprattutto cereali). Gli ex voto sono rari inizialmente e sono costituiti da strumenti per la lavorazione della terra e dei prodotti agricoli, per la pesca, la caccia o da oggetti di proprietà personale degli offerenti. Nella seconda metà del VI sec. a.C. gli anathemata si fanno più numerosi, in particolare le terrecotte figurate (statuette femminili con porcellino, busti). Il culto era già fiorente e molto diffuso all’epoca della tirannide dei Dinomenidi che, depositari da tempi remoti del sacerdozio delle dee, gli diedero un notevole impulso nella loro politica religiosa.

Nel corso del V sec. a.C. i santuari vennero generalmente monumentalizzati. Le terrecotte votive si arricchirono di nuovi attributi oltre al porcellino, come la fiaccola, il cesto o il vassoio con le offerte. In seguito alla politica dei Dinomenidi, che aveva determinato grossi spostamenti di abitanti, il culto divenne importante per la definizione dell’identità civica, come dimostra anche la standardizzazione delle offerte cultuali coroplastiche, tramite l’uso delle matrici. La maggiore differenziazione degli ex voto nei santuari dell’Italia meridionale si spiega con esigenze locali del culto nelle singole città. Nel periodo di crisi delle colonie occidentali, prima della rinascita timoleontea, si assiste a un trasferimento del culto nella sfera privata, alla ricerca di protezione e di aiuto nei bisogni quotidiani, con una forte accentuazione del legame del culto delle due dee con la sfera delle nozze e dell’oltretomba.

Pitagorismo e orfismo

È caratteristica del mondo magno-greco la diffusione della dottrina del celebre filosofo e matematico Pitagora, emigrato intorno al 530 a.C. a Crotone da Samo, che aveva lasciato per sfuggire alla tirannide di Policrate. Il pensiero di Pitagora, che fondò un’eminente scuola nella polis italiota, influenzò la religione, ma anche la dimensione politica e sociale del mondo coloniale dell’Italia meridionale. La teoria della trasmigrazione delle anime, infatti, include principi etici che dovevano regolare il comportamento umano e condurre il cammino dell’esistenza al raggiungimento della purificazione e della vera conoscenza, al fine di ottenere la liberazione dalla prigione del corpo e la salvezza. Le convinzioni pitagoriche coinvolgevano quindi anche l’organizzazione della vita sociale e politica, con la teorizzazione di un’aristocrazia illuminata, capace di guidare la massa della popolazione e garantire l’ordine e l’armonia della comunità.

Secondo tali principi, i Pitagorici governarono Crotone negli ultimi decenni del VI sec. a.C., anche se in seguito a una rivolta degli abitanti Pitagora dovette fuggire a Metaponto, dove morì. Con Archita e i Pitagorici di Taranto entrò in contatto anche Platone, nel corso del suo secondo viaggio in Sicilia alla corte del tiranno di Siracusa Dionisio II nel 366 a.C. L’idea del cammino si ritrova anche nella dottrina dell’orfismo, che ebbe grande diffusione in Magna Grecia, come attesta il ritrovamento nelle tombe delle cosiddette “laminette orfiche”: sul corpo dei defunti iniziati erano apposte tali laminette d’oro, che contenevano le istruzioni per raggiungere nell’aldilà la fonte del ricordo e percorrere la sacra via ricongiungendosi così come eroi con la divinità. L’orfismo, dal nome del mitico fondatore, il trace Orfeo, costituiva un modello di orientamento e uno stile di vita, più che un culto ufficiale istituzionalizzato, che attecchì in particolare nelle zone “marginali” del mondo greco: Magna Grecia, isole, Tessaglia e colonie sul Mar Nero.

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M. Giangiulio, I culti delle colonie achee d’Occidente. Strutture religiose e matrici metropolitane, in E. Greco (ed.), Gli Achei e l’identità etnica degli Achei d’Occidente, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Paestum, 23-25 febbraio 2001), Paestum - Atene 2002, pp. 283-313.

Sul pitagorismo:

P. Casini, L’antica sapienza italica: cronistoria di un mito, Bologna 1998.

Sull’orfismo:

Orfismo in Magna Grecia, CMGr XIV (1974).

A. Bottini, Archeologia della salvezza, Milano 1992.

A. Masaracchia (ed.), Orfeo e l’orfismo. Atti del Seminario Nazionale (Roma - Perugia 1985-91), Roma 1993.

M. Tortorelli Ghidini - A. Storchi Marino - A. Visconti (edd.), Tra Orfeo e Pitagora. Origini e incontri di culture nell’antichità. Atti dei seminari napoletani 1996- 1998, Napoli 2000.

A. Mele, Magna Grecia e Pitagorismo, Napoli 2001.

G. Pugliese Carratelli (ed.), Le lamine d’oro orfiche. Istruzioni per il viaggio oltremondano degli iniziati greci, Milano 2001.

P. Scarpi (ed.), Le religioni dei misteri, I. Eleusi, Dionisismo, Orfismo, Milano 2002, pp. 347-437, 627-78.

Manifestazioni della cultura dell'occidente greco

Sull’arte della Magna Grecia e della Sicilia è gravato a lungo un giudizio di provincialità, a causa della posizione “periferica” rispetto alla Grecia. Le colonie d’Occidente furono in grado, in realtà, di produrre contributi culturali e artistici indipendenti, dettero i natali a illustri protagonisti della storia delle scienze e del pensiero greco – basti pensare a Empedocle di Agrigento, al neosofista Gorgia di Lentini, agli storici Antioco e Filisto di Siracusa, fino al celebre matematico Archimede – e influenzarono in maniera decisiva lo sviluppo culturale e artistico di Roma. Le dottrine filosofiche e politiche elaborate da Pitagora, giunto da Samo a Crotone nel 530 a.C., hanno avuto un notevole peso nella storia del pensiero e della religione dell’Occidente greco.

A Pitagora la tradizione fa risalire la fondazione dell’importante scuola medica crotoniate, attestata già nella seconda metà del VI sec. a.C., insigni esponenti della quale giunsero a operare alla corte persiana. Una scuola medica e filosofica rinomata fiorì anche nella colonia focea di Elea, dove secondo Platone fu fondata dal filosofo ionico Senofane, aspro critico dell’antropomorfismo della religione greca. I maggiori esponenti della scuola eleatica, Parmenide e Zenone, rielaborano la concezione pitagorica della vita come “via sacra” alla ricerca della conoscenza e della verità dell’Essere. Gerone di Siracusa chiamò alla sua corte illustri protagonisti della letteratura greca, come i poeti Pindaro, Bacchilide, Simonide e il grande tragediografo ateniese Eschilo (morto a Gela nel 456 a.C.), che celebrarono le imprese e le vittorie del tiranno negli agoni atletici. Erodoto di Alicarnasso finì di scrivere le sue Storie nella colonia panellenica di Thurii. Platone, amico del cognato di Dionisio I, Dione, compì più viaggi in Sicilia, nel vano tentativo di ispirare il governo dei due Dionisi con le sue teorie filosofiche.

Bibliografia

P. Orlandini, Le arti figurative, in G. Pugliese Carratelli (ed.), Megale Hellas. Storia e civiltà della Magna Grecia, Milano 1983, pp. 331-554.

G. Rizza - E. De Miro, Le arti figurative dalle origini al V secolo a.C., in G. Pugliese Carratelli (ed.), Sikanie. Storia e civiltà della Sicilia greca, Milano 1985, pp. 125-242.

F. Croissant, Sur la diffusion de quelques modèles stylistiques corinthiens dans le monde colonial de la deuxième moitié du VIIe siècle, in RA, 2003, pp. 227-54.

Per gli aspetti specifici si rinvia a:

Manifestazioni della cultura dell'Occidente greco. L'architettura

Manifestazioni della cultura dell'Occidente greco. La ceramica

Manifestazioni della cultura dell'Occidente greco. La monetazione

Manifestazioni della cultura dell'Occidente greco. La pittura parietale

Manifestazioni della cultura dell'Occidente greco. La plastica e la coroplastica

Manifestazioni della cultura dell'Occidente greco. La scultura

Manifestazioni della cultura dell'Occidente greco. La toreutica e l'oreficeria

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